5
Mag
2009

Una Thatcher per la Germania? Difficile

Quando l’Inghilterra scoprì la signora Thatcher, in quel di Bonn alla tolda di comando stava ormai da un lustro un certo Helmut Schmidt. Socialdemocratico di ampie vedute e mai schierato su posizioni massimaliste, Schmidt diede vita al secondo governo liberalsocialista nella storia della Repubblica federale dopo quello di Willy Brandt. Inutile dire che in quegli anni la Germania non visse alcuno shock liberista. Anzi, il governo di Schmidt è ricordato ancora oggi per la spasmodica ricerca di una concertazione un po’ all’italiana e per aver raddoppiato l’indebitamento dal 20 al 40% del Pil. E questo è tanto più singolare quanto più si pone attenzione al fatto che al governo stavano per l’appunto anche i liberali dell’FDP. In realtà non bisogna farsi ingannare dai simboli o dalle sigle. Il partito liberale tedesco, dalla sua nascita nel 1948 sino ad oggi, è il partito che più di ogni altro è rimasto al potere, ma è anche quello che più di ogni altro rimane afflitto da gravi paradossi, primo fra i quali quello di esistere, ma di non aver mai preso coscienza di sé stesso. Fino al 1982 l’FDP fu infatti alle prese con spinte centrifughe di segno opposto: keynesiani moderati da una parte e liberalconservatori dall’altra. Solo con il voto di sfiducia a Schmidt e l’ascesa di Helmut Kohl si posero le premesse per un parziale cambiamento. L’ala sinistra del partito abbandonò in blocco l’FDP, accasandosi un po’ presso l’SPD e un po’ presso i nascenti Verdi. Da quel momento in poi i liberali divennero gli alleati più stretti dei democristiani, anche se nei diciassette anni di alleanza con la CDU/CSU non furono in grado di realizzare un mutamento radicale di tipo thatcheriano. Anzi, se si eccettua la politica di parziale semplificazione del mercato del lavoro, ci fu una certa continuità con l’era Schmidt, incrinata solo dalle pressioni  all’apertura dei mercati (mai pienamente accettate e condivise) provenienti della Comunità europea. Tutto ciò per dire che, trent’anni dopo, la Germania attende ancora  oggi la sua Maggie. Nel 2005, quando Angela Merkel arruolò nella sua squadra il professor Paul Kirchhof, ex giudice della Corte Costituzionale e grande sponsor della flat-tax, la CDU precipitò nei sondaggi e per un soffio rischiò di perdere il treno per la Cancelleria. Il vocabolo “Neo-liberal” (come tutti i termini che in tedesco incominciano con “Neo”) incute ancora molta paura in Germania, e questo perché evoca lo spettro di una società profondamente estranea al comune sentire dei tedeschi, i quali dalla Repubblica di Weimar in poi- nazismo compreso-hanno sempre creduto fermamente (e talvolta ciecamente) nelle virtù benefiche del Sozialstaat. Questo è accaduto anche dopo la Wende, ossia dopo il crollo del Muro e la riunificazione, cui purtroppo o per fortuna  (a seconda dei punti di vista), non si è accompagnato alcun trionfo del liberalismo. Ecco perché sapere che nei sondaggi più recenti l’FDP è dato in forte ripresa non ci regala grandi illusioni. Westerwelle è certamente più thatcheriano del suo predecessore, il nazional-liberale e inguaribile anti-semita Möllemann, ma con una Angie così drammaticamente compromessa con l’ala più conservatrice e keynesiana del suo partito, le possibilità di una rivoluzione liberale anche in Germania si assottigliano ogni giorno di più.

4
Mag
2009

Non siamo figli della Thatcher, ma del Ventennio

Nonostante una certa cultura sembri talora dimenticarsene, la storiografia è per definizione revisionista. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che ora, a vent’anni dal concludersi di quell’esperienza, vi sia chi punta il dito contro il decennio reaganiano e thatcheriano e contro l’antistatalismo che aveva animato quelle esperienze politiche. Ovviamente tali giudizi sono in larga misura la conseguenza di presupposti culturali: ed in questo senso non è difficile comprendere per quali ragioni i fautori di una società variamente tecnocratica non provino alcuna simpatia per la ventata di libertà che ha segnato il mondo anglosassone durante gli anni Ottanta.

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4
Mag
2009

Krugman e il computer di Picasso

A Paul Krugman hanno dato il premio Nobel per l’Economia, ma meriterebbe anche quello per la Pace. Se lo è guadagnato col suo editoriale di giovedì sul New York Times, nel quale afferma che l’adozione di uno schema di “cap & trade” negli Stati Uniti sarebbe un male necessario. Un male, perché come lui stesso riconosce che “limitare le emissioni avrebbe dei costi”. Ma necessario, non solo perché in questo modo potremmo “salvare il pianeta”, ma anche perché “darebbe alle imprese una ragione per investire”. Come ha notato David Henderson, però, con queste affermazioni Krugman adotta un punto di vista puramente keynesiano, secondo cui investire è tutto ciò che conta, a prescindere dalla produttività degli investimenti. E dunque, facciamo scavare alla gente delle buche che riempiranno il giorno dopo, oppure tappezziamo il paese di torri eoliche e pannelli solari.

Al di là di questo fraintendimento sul meccanismo che sta alla base della creazione di ricchezza, Krugman pare compiere una serie di assunzioni tutt’altro che pacifiche. Anzitutto, suppone che il cap & trade americano potrebbe funzionare. Non è scontato: in Europa è andata diversamente. Secondariamente, implicitamente sembra credere che (a) tutto il mondo si adeguerà introducendo politiche di controllo delle emissioni e (b) gli imprenditori americani siano idioti. Se infatti resterà almeno un paese sulla faccia della Terra che lasci libertà di CO2, e se esisterà almeno un imprenditore americano intelligente in un settore carbon-intensive, questi delocalizzerà le sue attività in quel paese, col risultato che i suoi concorrenti o chiuderanno la baracca, oppure si adegueranno. Ciò significa che, a livello globale, le emissioni non verranno significativamente ridotte, ma solo trasferite. Anzi, è probabile che addirittura aumentino, perché – come spesso accade – il paese in via di sviluppo di destinazione potrebbe essere meno efficiente, nell’uso dell’energia, degli stessi Stati Uniti. Per esempio, Dieter Helm – certo non sospettabile di anti-kyotismo – ritiene che il processo di “decarbonizzazione” dell’economia britannica non abbia in verità prodotto alcuna riduzione delle emissioni nette del paese, che si sarebbero solo spostate altrove.

Ma anche trascurando questo non secondario punto, e supponendo che gli imprenditori americani siano idioti e che tutto il mondo si innamori di Barack Obama a tal punto da seguirlo sulla via del cap & trade, c’è un ulteriore punto che a Krugman sembra sfuggire. Siamo sicuri che la riduzione di qualche punto percentuale delle emissioni globali abbia risultati discernibili sul clima? E, in subordine, siamo sicuri che il beneficio ambientale sia comparabile al costo economico? Le opinioni qui sono molto diverse e distanti, ma semplicemente il fatto che questa divergenza esista testimonia di una profonda incertezza di fondo. Ora, tra tutti i modi di gestire l’incertezza, quello meno efficace consiste nel rimpiazzarla con una falsa certezza. La sicumera con cui Krugman e quelli come lui affrontano le questioni climatiche, passando bellamente sopra all’infinità di cose che ignoriamo, ricorda quanto Pablo Picasso diceva del computer: “è inutile perché dà solo risposte”.

4
Mag
2009

Exit strategy: Antitrust batte Consob ma…

A proposito di quanto scritto in precedenza da Giannino, sulla temporaneità necessaria degli interventi straordinari giustificati dalla crisi economica, l’Antitrust ha appena battuto un buon colpo. Si tratta delle misure a potenziamento del controllo delle società quotate introdotte dal decreto legge numero 5 del 2009, in esame di conversione. Con un’apposita decisione comunicata al Parlamento, l’Antitrust ha preso in esame l’innalzamento dal 3 al 5% dell’ulteriore tetto azionario acquisibile senza obbligo di Opa da chi già detiene quote superiori al 30%, nonché l’aumento dal 10 al 20% del tetto di buyback. Per l’Antitrust, si tratta di misure restrittive del market for corporate control tali da ingenerare il rischio di un vero e proprio congelamento degli assetti attuali, dunque il legislatore deve disporre, all’atto della loro assunzione, espliciti limiti temporali di vigenza, al fine di restituire al mercato la sua fluidità ordinaria non appena cessata la dichiarata emergenza. Si tratta di una lezioncina che l’Autorità guidata da Catricalà alla Consob prima ancora che alla politica, poiché in realtà le misure restrittive erano state indicate da Cardia prima ancora che governo e maggioranza le facessero proprie. In materia di buyback fa del resto testo quanto dichiarato da Warren Buffet due giorni fa. “Credo che una sola volta nell’arco di tanti anni”, ha detto, “seri numeri alla mano il titolo Berkshire meritasse davvero di essere considerato a un fair value superiore a quello giudicato dal mercato. Mentre vale sempre, che i buyback non sono praticamente mai nell’interesse degli azionisti non di controllo”. Ottima decisione, dunque. Peccato che analogamente l’Antitrust avrebbe dovuto comportarsi, in materia di restrizioni alla concorrenza per esempio in materia di traffico aereo quando venne varato il decreto Alitalia, in base al quale avvenne poi la cessione a Cai… Ma meglio tardi che mai, come si suol dire.

4
Mag
2009

I politici chissà, ma almeno i banchieri centrali ricordino la Thatcher

Non prevedo facili ripescaggi a breve da parte di politici italiani, europei ed americani dell’eredità della Baronessa Thatcher, e di Ronnie Reagan che insieme a lei compone il binomio di riferimento dei migliori statisti del secolo scorso. L’ebbrezza da panico economico per il ritorno in grande stile dello Stato tende a far dimenticare a tutti che il ruolo pubblico di stabilizzatore del ciclo deve essere intenso quanto si vuole, ma dichiaratamente reversibile con tempi e procedure certe, annunciate all’atto stesso in cui si adottano le misure di intervento straordinario: esattamente ciò che manca in ogni intervento pubblico deliberato al mondo da ottobre 2008 a oggi, praticamente a qualunque latitudine. Pretenderlo dalla sinistra sarebbe forse troppo. Ma il problema è la destra, che confonde quasi in ogni Paese la soddisfazione per il “ritorno della politica” rispetto ai grandi interessi finanziari transnazionali, con un esanime tuffo nel neostatalismo, identificato come unico ambito residuo di una legittimità misurata alle urne ed esercitata con delega discrezionale, spezzando la maldigerita influenza del precedente cosiddetto Washington Consensus degli oggi tanto famigerati “mercati”.
Chi la pensa come noi deve tenere sempre distinta la politica – il pieno rispetto della legittima sovranità esercitata al voto e conquistata con programmi e soprattutto azioni concrete volte alla crescita e alla miglior libera soddisfazione della persona – dall’identificazione della politica nello Stato, nei suoi apparati e nelle sue regolamentazioni. La crisi economica non mi fa cambiare idea. Non mollerò mai la convinzione che in un Paese come il nostro – per la sua tipologia di piccola impresa diffusa e per la percentuale elevatissima di lavoro autonomo sul totale degli occupati – tale distinzione possa costituire la più naturale piattaforma di riferimento per un’azione politica non solo schiettamente liberale e liberista, ma soprattutto votata al successo. Non abbiamo avuto la Magna Charta nel XIII secolo né alcuna Glorious Revolution nel XVII. Lo Stato unitario è prodotto tardivo e recente, subito squassato dall’insuccesso della minoritaria classe dirigente liberale, a fronte dell’immissione delle masse nell’arengo politico veicolata da cattolici e socialisti, mentre fascismo e comunismo praticavano e teorizzavano lo Stato come unico attore della necessitata accelerazione di una storia “olista”. Malgrado tutto, però, le condizioni dell’Italia disegnano un Paese i cui géni restano potentemente antistatalisti: e questo è un bene, checché affermasse la cultura politica eticista nella quale mi sono formato in giovinezza, all’insegna del lamalfiano e amendoliano (nel senso di Giovanni, naturalmente, non del figlio Giorgio) “questa Italia non ci piace”.
Se le basi concrete di policy per un rilancio personalista e liberale oggi appaiono eclissate in Italia e nell’Occidente, ciò malgrado dovremo insistere. E insisteremo, per tutto il tempo necessario: per quanto mi riguarda, questo è il miglior tributo da rendere al trentennale dell’ascesa a Downing Street di Lady Thatcher.
Ma se tra i politici Bismarck vince su Adam Smith, almeno tra i regolatori indipendenti, assai meno soggetti se non – auspicabilmente – del tutto svincolati dai timori degli elettorati, dovrebbe essere praticata qualche migliore ritenzione delle lezioni del passato. Faccio un esempio concreto. Per noi fa testo la Storia monetaria degli Stati Uniti di Milton Friedman e Anna Schwartz. Ma a differenza dei cattivi neokeynesiani non ne abbiamo tratto solo la lezione che il regolatore monetario e dell’intermediazione finanziaria deve mettere in atto l’intera panoplia a sua disposizione, per evitare il collasso bancario e il credit crunch. Ricordiamo bene anche che occorre avere le idee chiare su che cosa in concreto sia, il fantasma tanto temuto della deflazione generale, rispetto invece a riallineamenti di prezzi degli asset che costituiscono autocorrezioni salutari, rispetto a picchi non sorretti da fondamentali.
Tradotto: i neostatalisti inneggiano oggi alla massa monetaria raddoppiata ogni semestre negli Usa mentre il tasso d’interesse è negativo, e attendono tra pochi giorni esiti degli annunciati stress test nelle 19 maggiori banche Usa che non solo non ne decretino la fine di alcuna, ma auspicabilmente anche che lo Stato entri nel capitale di parecchie di loro a cominciare da Bofa. Noi invece, non dimentichi thatcheriani, pensiamo che proprio l’uscita dall’inflazione fu strumento essenziale per debellare la stagflazione. Negli States ci pensò Paul Volcker, che alla Fed sotto Reagan la piantò di dar retta alle lamentazioni sugli effetti di maggior disoccupazione di una stretta monetaria dopo anni di politiche monetarie laschissime,e lasciò lievitare i tassi fino al 21,5%: ma vinse, perché aveva ragione.
Direte voi: ma che cosa c’entra questa reminiscenza storica, caro il mio sprovveduto liberista d’accatto, visto che oggi il main goal del mondo intero è uscire dalla crisi, mentre all’inflazione ci penseremo comodamente dopo, una volta manifestatasi la ripresa? E senza dimenticare che un po’ d’inflazione forse alla fine farà pure bene, perché contribuirà a diminuire il valore reale delle perdite accumulate? Risposta: proprio perché la storia insegna, se la si pensa come noi bisognerebbe chiedere che i regolatori monetari e bancari facessero sfoggio di indipendenza dalla politica. Cioè procedessero pure, se lo ritengono, ad annegare di liquidità i mercati e a tenere su anche per i capelli se necessario il balance sheet bancario. Ma accompagnando ciascuna delle decisioni in materia a un esplicito timing in cui si procederà a decisioni di segno esattamente contrario.
La ripresa dichiarata in anticipo dei tassi anti-inflazione doterebbe il governo dell’intera curva temporale dei rendimenti finanziari di strumenti mai sperimentati prima, più che mai necessari oggi proprio perché la crisi ha bisogno di interventi straordinari non solo “in entrata”, ma anche “in uscita”, se non vogliamo dimenticarci dei guai stagflattivi che rappresentarono per decenni l’eredità dei tardivi interventi di stabilizzazione che posero termine alla Grande Depressione (secondo conflitto mondiale in primis).
Idem dicasi per gli ingressi straordinari dello Stato in banche e imprese. Senza uscite stabilite sin dall’inizio, non solo si pongono le basi per nuove IRI: più semplicemente, al di là della bontà delle future decisioni di manager promossi per designazione o gradimento pubblico-sindacale, si pongono soprattutto le basi per un aumento asintotico della tassazione pubblica, per sostenere i costi crescenti di tanta subitanea espansione della sfera statale. L’esatto opposto di ciò che serve nel medio termine, per riprendere una crescita sana e il più possibile aperta alla libera scelta di milioni e milioni di consumatori e imprenditori, risparmiatori e investitori.
Come dite? Che negli Usa proprio le statistiche ufficiali dicono che la deflazione c’è, e dunque la richiesta è capziosa? Non sono d’accordo. Ha ragione Allan Meltzer. La deflazione non va misurata dagli indici dei prezzi al consumo, da quelli immobiliari e tanto meno da quelli alla produzione (sono col segno meno, negli States). Se si assume il deflatore del Gdp, negli Usa su scala annuale a fine marzo segnava un più 2,3%. La deflazione non c’è, signori miei. Ma anche se ci fosse, il ragionamento resta e così le richieste, da avanzare a politici e regolatori se non vogliamo venir meno a ciò che di buono è venuto al mondo – tanto! – dalla nostra scuola di pensiero. Più che da qualunque altra, nella storia del mondo.

4
Mag
2009

Ancora grazie, signora Thatcher

Il dibattito sulla crisi è a sprazzi molto concreto, ma spesso ideologico. Non è necessariamente un male. La crisi se non altro simola un ritoro alla discussione, costringe a ripensare ai fondamentali, porta ad interrogarsi su questioni che banali non sono. Sul Corriere di domenica, Massimo Mucchetti rendeva conto dell’articolo di Gideon Rachman sul Financial Times, cui oggi segue risposta di Maurice Saatchi. Mucchetti ha pochi dubbi nello scrivere:

Il 3 maggio 1979 Margaret Thatcher entrava al numero 10 di Downing Street dicendo: «Il popolo britannico ha chiuso con il socialismo. L’esperimento, durato 30 anni, è penosamente fallito e la gente è pronta a provare qualcos’altro». Il 3 maggio 2009, trent’anni dopo, potremmo dire: «Il thatcherismo, che fece ben presto scuola nell’America reaganiana e poi influenzò tutto il mondo, è anch’esso miseramente fallito».

Mi sembra difficile esser d’accordo con Mucchetti che “lo Stato sociale sia ancora un pensiero forte”, ma con lui e Rachman è impossibile non convenire su un punto: è cambiata la melodia di fondo. Chi misuri la realtà con l’impegnativo metro della libertà economica sa bene che non usciamo da trent’anni di “deregulation selvaggia”. Considerare Stati che confiscano, suppergiù, il cinquanta per cento del reddito prodotto da un individuo esempi di liberismo è semplicemente una follia. E neppure si può dire che le proposte liberiste negli anni scorsi abbiano avuto vita facile. E non solo da noi. Basti ricordare il misero fallimento di Bush, in una delle sue poche battaglie veramente condivisibili: quella per la trasformazione del sistema previdenziale americano. O l’andamento a zig-zag di Tony Blair, nei suoi tentativi di introdurre in Inghilterra misure di welfare-to-work. O i diversi tentativi di “ingessare” il mercato del controllo avutisi in tutto il mondo. O il fallimento della direttiva Bolkestein in Europa. O ancora la sostanziale impossibilità di modificare, nella direzione di una flat tax, il sistema fiscale americano – e come tacere la resistenza che nel nostro Paese c’era, anche da parte di commentatori che negli anni successivi hanno proposto agenda liberalizzanti, nei confronti della “flat tax annacquata” delle due aliquote berlusconiane prima maniera? E mentre fioccavano le prediche contro la globalizzazione, quanti passi in avanti reali sono stati fatti, dal 2001 in qua, nell’apertura degli scambi? In realtà, è dagli anni Novanta che non vi sono state, nel mondo, privatizzazioni di grande rilievo – ed è probailmente da fine anni Ottanta, come hanno sostenuto diversi autori (penso a Sam Peltzman e Stephen Littlechild), che il “ciclo” della deregolamentazione è sostanzialmente finito.

Detto tutto questo, ciò che era notevole negli anni scorsi era che, faticosamente, le idee di mercato sembravano essere destinate via via a guadagnare maggiore legittimità. Quella dei “fallimenti dello Stato” era una chiave di lettura accessibile anche a chi stava a sinistra. Le privatizzazioni avevano dato, dopotutto, buona prova di sé. L’onere della prova stava dalla parte di chi voleva aumentare le tasse. E l’inflazione sembrava un ricordo. Con la crisi, scrive Rachman, le idee di mercato (chiamiamole pure “thatcherismo” se serve) hanno perso il vantaggio che avevano, sul piano etico. L’espressione thatcheriana “l’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima” può sembrare sinistra, ma rappresentava una sorta di “ritorno all’età vittoriana”, un’enfasi sulla voglia di fare, sul self help (aiutati che il ciel t’aiuta) come più efficace che guadagnarsi un posto alla mensa pubblica. Insomma, la signora Thatcher voleva dire che l’economia di mercato “costringe” a prendersi le proprie responsabilità, e questa è una cosa buona per la società nel suo complesso.

Si potrebbe dire che “responsabilità” è una parola pericolosa, che è facile svuotarla di significato. Tant’é che oggi si esalta la “responsabilità” di attori collettivi (le imprese, le comunità, lo Stato) per levarne il peso agli individui, ma questo è un altro discorso. E’ invece interessante una osservazione di Rachman, che Mucchetti non recepisce nel suo articolo. La differenza fra il 3 maggio del ’79 e il 3 maggio del ’09, scrive l’editorialista dell’FT, è che piacesse o meno la Iron Lady arriva a Downing Street con una agenda, dei principi, un capitale di idee da mettere a frutto. Oggi invece i leader politici “combattono la crisi con qualsiasi strumento abbiano a disposizione”. Se ne può esaltare il pragmatismo, ma questo pragmatismo è sterile, non è in grado di elaborare “una visione alternativa” di lunga gittata, scrive Rachman, a meno di chiudere gli occhi e immaginare che il cantiere dello Stato sociale non abbia prodotto, come invece ha prodotto, un edificio pericolante.

Sarebbe ottimistico dire “tina”, there is no alternative. Ma proprio perché il pragmatismo autointeressato della classe politica è destinato a mostrare sempre più evidenti contraddizioni, questo non è il momento di smettere la coerenza come un abito usurato.

3
Mag
2009

Dopo vent’anni in Germania è ancora Ovest contro Est

INSM Regionalranking 2009Nelle scorse settimane il think tank tedesco Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft, in collaborazione con l’istituto economico IW di Colonia, ha pubblicato l’indice annuale sul grado di benessere e sviluppo economico facente capo a ciascuno dei 409 distretti della Repubblica federale. L’analisi è stata condotta in maniera piuttosto accurata, prendendo in considerazione trentanove indicatori diversi- tra i quali attrattività del mercato del lavoro, tasso di disoccupazione, potere d’acquisto, produttività, costo del lavoro, infrastrutture, capitale umano e stato delle finanze pubbliche. Ne emerge un quadro (consultabile “graficamente” qui) che non si presta certo ad ambigue interpretazioni: città come Monaco, Stoccarda e Francoforte sul Meno rimangono, con i loro sobborghi, il traino economico del paese. I cosiddetti nuovi Bundesländer, i cui confini sono stati tracciati a seguito della riunificazione del 1990, continuano ad arrancare, se è vero che gli ultimi dieci posti del ranking sono tutti occupati da distretti dell’ex Germania Est, area nella quale il tasso di disoccupazione rimane tutt’ora doppio rispetto a quello occidentale. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà: il sud-ovest della Germania bilancia ancora oggi gli scompensi dovuti ad un amalgama malriuscito. Nel corso di un suo recente intervento presso Biennale Democrazia, Hans Vorländer, politologo dell’Università di Dresda, ha ricordato molto bene come  l’ex repubblica democratica abbia in effetti tentato di attutire i rigori e le difficoltà derivanti dalla riunificazione, adagiandosi comodamente sulle spalle di un altro Sozialstaat – quello della Germania federale- e rinviando così l’appuntamento con il libero mercato e il capitalismo. Certo, come gli stessi curatori dello studio non mancano di rimarcare, anche ad Est qualcosa è cambiato e la cortina comincia lentamente a farsi più sottile. Dal 2000 ad oggi si nota un incoraggiante progresso di certe aree (evidenziate in blu, pagina 12) un tempo depresse, in particolare nel Brandeburgo, in Sassonia (il cui sistema scolastico primario è stato recentemente ritenuto il migliore dell’intera Germania) e in Turingia. Lipsia, ad esempio, città da cui nel 1989 ebbero inizio i moti insurrezionali contro il regime della DDR, è tornata ad essere un centro fieristico internazionale di enorme prestigio; Jena, giunta prima nella classifica limitata all’Est, ha una delle università migliori della Repubblica federale e le sue industrie tecnologiche sono tornate a fiorire. Infine Dresda ha ormai una vasta e dinamica rete di piccole e medie imprese. A questo iniziale, ma ancora debole riscatto dell’Est, si è d’altra parte accompagnato un relativo “declino”- si parva licet- di certe altre zone, come quelle intorno ad Hannover, a Colonia e alla stessa Francoforte sul Meno. Solo la Baviera e alcune parti dell’Assia e della Renania Palatinato sembrano aver tenuto il passo. Ora la crisi (come evidenziato in quest’ultimo grafico) minaccia di compromettere ulteriormente la stabilità economica degli agglomerati più produttivi dell’Ovest, mentre sembra non esporre l’Est, assai meno attivo nel campo dell’export, ad un rischio di tracollo. La povertà, si potrebbe dire, protegge l’Est. Assai magra consolazione.

3
Mag
2009

Fiat Chrysler

La settimana conclusasi è stata molto importante nel settore dell’auto: l’accordo raggiunto tra Chrysler e Fiat ha permesso all’azienda italiana di entrare nel capitale del gruppo di Detroit con il 20 per cento, in cambio del trasferimento di tecnologie in ambito motoristico e nel segmento delle “piccole”.

Chrysler ha sofferto particolarmente lo scorso anno a causa dell’incremento del prezzo del carburante ed essendo l’azienda molto forte nel mercato dei “lights truck”, cioè i veicoli più grandi e debole nel mercato delle autovetture ha avuto un vero e proprio tracollo delle vendite.

Il mercato dell’auto americano tuttavia non ha toccato il fondo nel 2008 e il primo quadrimestre del 2009 è stato uno dei peggiori di sempre; le vendite di veicoli sono diminuite del 37,4 per cento e nel solo mese di aprile sono state vendute 430 mila vetture in meno rispetto allo stesso mese del 2008.

Chrysler si sta comportando peggio del mercato in quanto nei primi quattro mesi ha venduto il 46,2 per cento in meno di veicoli rispetto allo scorso anno.

La crisi del gruppo ha portato a quello che era prevedibile: il chapter 11. Il fallimento pilotato del gruppo automobilistico era inevitabile e i miliardi di dollari continuamente immessi dalle amministrazioni americane non sono serviti a nulla, se non a rallentare l’agonia.

In questo quadro tetro è entrata Fiat con la sua forza nel segmento delle autovetture, ma con la sua debolezza globale. Il gruppo italiano ha il 3 per cento del mercato globale e pur avendo la possibilità di rientrare nel mercato americano, rimane un player debole nel settore automobilistico.

Il mercato americano nel 2009 sarà superato in termini di vetture vendute dal mercato cinese e il futuro dell’auto non potrà non passare dal continente asiatico. Proprio in Asia, sia Fiat che Chrysler hanno una presenza praticamente nulla e l’alleanza non riuscirà a supplire a questa debolezza.

Fiat riesce ad entrare nel gruppo di Detroit senza versare un euro.

La domanda che forse poco interessa poco agli italiani, ma che certamente interessa di più agli americani è, chi paga per Chrysler?

La questione che interessa maggiormente agli italiani potrebbe essere relativa al controllo dell’azienda automobilistica di Detroit: chi è il nuovo proprietario del gruppo?

Alla prima è facile rispondere evidenziando i miliardi di dollari che le amministrazioni Bush ed Obama hanno versato nel gruppo fallito e che lo stesso presidente ha promesso di dare nei prossimi mesi. Per superare velocemente il chapter 11, Barack Obama ha promesso di immettere altri miliardi di dollari nelle casse della casa automobilistica. Sono dunque i contribuenti americani a dover pagare per Chrysler e oltretutto si sono ritrovati a versare soldi senza evitare il fallimento dell’azienda stessa.

La seconda questione necessita di una premessa. Il salario orario per operaio di Chrsyler era del 50 per cento superiore a quello dei gruppi giapponesi ed europei che producevano automobili negli Stati Uniti. Si dice che l’accordo prevede dei grandi sacrifici dei sindacati americani, in particolare della UAW, ma in realtà i reali vincitori della partita, prima ancora di Fiat, sono proprio i sindacati.

Questi non avranno più diritto di sciopero fino al 2015? Ma fino al 2015 chi sarà il primo azionista di controllo dell’azienda produttrice di automobili? I sindacati e non certamente Fiat, che resterà solamente un solido partner industriale.

I fondi pensione dei lavoratori e pensionati Chrysler avranno la maggioranza, mentre i vecchi creditori, tra le quali molte banche ed Hedge Fund, vedranno diluita la loro presenza.

Barack Obama ha lasciato che Chrysler passasse tramite un fallimento pilotato, ma al fine di modificare il controllo dell’azienda a favore della categoria sindacale.

La presidenza democratica non ha salvato Chrysler, ma ha dato il controllo dell’azienda alla categoria che maggiormente ha causato lo stato fallimentare.

Questa partita può essere dunque sintetizzata in un’espressione di derivazione latina: Fiat Chrysler. Con i soldi dei contribuenti americani.

3
Mag
2009

Quale energia tra vent’anni?

La redazione del portale EnergiaSpiegata ha chiesto a diversi intellettuali, scienziati, economisti e opinionisti di sentitizzare, in poche righe, come ritengono sarà il mondo dell’energia tra vent’anni. Qui la mia risposta, qui quelle delle altre persone interpellate. Credo che la lettura delle varie visioni che sono state e saranno pubblicate sia utile, perché mostra l’eterogeneità delle prospettive, che in alcuni casi non sono solo molto distanti, ma sembrano riflettere mondi diversi. L’interesse di un gioco del genere sta nel fatto che interrogarsi sul futuro dell’energia significa, in un certo senso, interrogarsi sul futuro della società. C’è chi, come me, è convinto che – in assenza di clamorose <sbandate anticapitalistiche che al momento nonostante tutto non paiono in vista – il sistema di mercato reggerà, e con esso la globalizzazione si estenderà a a paesi e settori che finora ha solo lambito. Come necessaria conseguenza, aumenterà il benessere e, dunque, il consumo di energia. Altri la vedono diversamente. Chiunque può lasciare, qui su Chicago o su Energia Spiegata, la sua opinione. Oppure portarla di persona, tra pochi giorni, al Festival.