6
Mag
2009

I 7 miti dell’economia verde: fantastici!

Sia lode e gloria ai seguenti ricercatori. Andrew P. Morris, dell’University of Illinois College of Law, nonché del Property and Environment Research Center, George Mason University; William T. Bogart, dello York College of Pennsylvania; Andrew Dorchak, della Case Western Reserve University Law Library; infine Roger E. Meiners, della University of Texas at Arlington. Hanno appena scritto due papers fa-vo-lo-si che smantellano gran parte della mitologia sulla quale viene edificata la tesi secondo la quale l’unica vera risposta alla crisi economica attuale è un colossale shift, guidato dallo Stato, verso l’economia e le tecnologie “verdi”. I papers s’intitolano “7 Myths About Green Jobs”, e “Green Jobs Myths” (Illinois Law & Economics Research Paper No. LE09-007, e No. LE09-001). Consiglio di divorarveli per benino, e di sicuro la loro lettura farebbe un gran bene a politici e giornalisti che su questi temi rischiano di prendere lucciole per lanterne, creando consenso intorno a massicce allocazioni di risorse del contribuente assolutamente distorsive.
Quali le loro tesi dimostrate? Scrivono che negli ultimi tempi una crescente mole di letteratura a forte popolarità si prodiga a convincere che maggiore sarà l’intervento statale pro ambiente, più consistente sarà la crescita di occupati, unica vera salvezza al downsizing della manifattura “tradizionale” cioè energivora. Saranno impieghi che non faranno solo un gran bene all’ambiente, ma ben pagati, ricchi di soddisfazione per chi li svolge, e naturalmente tali da favorire un ritorno in grande stile all’adesione sindacale di massa. Senonché queste tesi, scrivono i nostri eroi, si fondano appunto su sette veri e propri miti, che investono orizzontalmente l’economia e la tecnologia, oculatamente alimentati da gruppi d’interesse che puntano ai maggiori vantaggi, dall’implementazione di tali postulati.
Mito numero uno, il lavoro “verde”: nessuna sua definizione standard è comunemente accettata. Mito due: col lavoro verde cresce la produttività; quando invece i settori e le tecnologie interessate richiedono un più alto numero di addetti a prassi amministrative e regolatorie. Mito tre: le previsioni di crescita del lavoro verde sono attendibili; quando invece i loro modelli previsivi sono risultati totalmente disattesi, da 35 anni a questa parte. Mito quattro: il lavoro verde accresce l’occupazione; quando invece esso risulta assai human intensive, dunque a bassa produttività, bassa remunerazione e basso standard di prestazione per gli addetti; la crescita economica non può essere “ordinata” dal Parlamento o dalle Nazioni Unite, la restrizione di tecnologie mature a favore di tecnologie ancora speculative attraverso stanziamenti di risorse pubbliche e incentivi fiscali ha spesso generato stagnazione, in passato. Mito cinque: dalla crisi si esce accettando come positiva la diminuzione degli scambi commerciali planetari, per tornare a puntare maggiormente su produzioni “locali” senza che ne consegua diminuzione degli standard di vita; quando invece si è SEMPRE confermata vincente la tesi della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, che attraverso la specializzazione produttiva e scambi crescenti e più liberi sempre maggiori aree del pianeta innalzano più rapidamente i propri standard di benessere. Mito sei: i governi possono e devono agire come efficaci sostituti dei mercati; quando sempre le aziende libere si sono rivelate meglio in grado di interpretare e soddisfare domanda e desideri dei consumatori. Mito sette: imporre cambi di direzione tecnologica attraverso la regolazione pubblica è auspicabile e positivo; quando invece molte delle tecnologie verdi sin qui indicate come addirittura “risolutive” non hanno mai raggiunto la scala di attuabilità e di costo necessaria a soddisfare efficacemente la domanda alla quale si suppongono rivolte.
Altro che il mitico 20-20-20 dell’Europa e i fantastici obiettivi verdi promessi da Obama: noi preferiamo i fantastici quattro che numeri alla mano fanno a pezzi la teologia ambientalista e i suoi improvvisati dottori della legge.

6
Mag
2009

Cosa c’è e cosa manca nel Libro Bianco di Sacconi

Il “Libro bianco sul futuro del modello sociale” presentato oggi dal Ministro Sacconi è potenzialmente qualcosa di molto rilevante, per l’Italia di oggi e di domani. Ha il pregio di mettere assieme, in forma sintetica (una cinquantina di pagine scarse), quanto di meglio elaborato dal mondo che gravita attorno al Ministro. E il difetto di riflettere più sui principi che sulle policies. E’ un difetto in parte voluto in parte subito. Voluto perché in tutta evidenza un documento di questo genere deve essere di scenario, se non vuole limitarsi a fare la carta d’identità al Ministero che lo pubblica e lo promuove. Subito perché la crisi ha fermato il cantiere di riforme che dai principi enunciati nel Libro bianco dovrebbero discendere.

Mi soffermo brevemente su quelli che mi paiono pregi e limiti più evidenti. Il Libro bianco propone una visione d’insieme del futuro del Paese, sotto il duplice profilo della demografia e della finanza pubblica, coerente. Cose note, ma che è bene ribadire. Gli obiettivi di lungo periodo sono in larga misura condivisibili. Chi lo ha scritto pare convinto che per “salvare” i fini dello Stato sociale sia necessario disarticolarlo, trasferendone le competenze ad istituzioni in larga misura spontanee e contando su una rete di protezione più “sociale” (nel senso di emanazione della società) che “statale”. Chi lo ha scritto bene conosce i difetti del nostro mercato del lavoro (Marco Biagi, unico nume tutelare richiamato nel Libro, lo considerava “il peggiore d’Europa”), e anche quelli del nostro Stato sociale. Una priorità evidente è quella di evitare per quanto possibilità la “dipendenza da welfare” che alcuni istituti vanno a creare, puntando al contrario su “politiche per la vita attiva” (di qui la grande enfasi che Sacconi mette sempre sulla “formazione”: il che va benissimo, se non fosse che la “formazione” in Italia è un concetto oltremodo plastico).

Laddove il Libro bianco soddisfa di meno è nell’indicazione di politiche precise. Se la spesa sociale è sbilanciata sulle pensioni, se le pensioni non sono uno strumento idoneo a svolgere “prioritariamente funzioni di carattere redistributivo/ assistenziale”, se “la stabilizzazione di lungo periodo dell’incidenza della spesa pensinistica pubblica”, che vogliamo fare? Il Libro bianco dà tutte le risposte giuste: l’obiettivo deve essere la “ridefinizione dell’equilibrio tra le fonti di finanziamento” e serve “l’allungamento delle carriere e il raggiugimento di proporzioni più equilibrate tra vita attiva e vita in quiescenza dopo il pensionamento definitivo”. Da questa analisi dovrebbe però venire una “road map” per il “nuovo bilanciamento” fra pubblico privato, e/o per l’innalzamento dell’età pensionabile. Non ci si può limitare ad affrontare il tema dell’equiparazione dei requisiti pensionistici fra uomini e donne.

Qualcosa di simile potrebbe essere detta sulla sanità: nel Libro bianco c’è grande enfasi sull’healthy ageing, piena consapevolezza della “condanna demografica” dei sistemi sanitari. Ma le considerazioni di sostenibilità restano sullo sfondo.

Il progetto è coraggioso, e il modello usato da Sacconi, per l’Italia, è stato innovativo. Vi è stata un’ampia consultazione pubblica, a partire dal Libro Verde, cui hanno concorso circa mille soggetti. Grande successo di pubblico, per così dire. Ora speriamo possa esservi un dibattito consapevole e adulto su questi temi. Per “costringere” chi con il Libro bianco dimostra di avere piena consapevolezza dei problemi, a trarne le conseguenze dovute.

6
Mag
2009

Burkina Faso e dintorni

Pare che in Germania, dalle parti del Ministero delle Finanze, sia giunto il morbo letale del gaffeur mediterraneo. Ieri, durante il vertice Ecofin, con l’arroganza che ormai lo contraddistingue, il Ministro tedesco Peer Steinbrück ha rimbrottato così i paesi europei che non hanno partecipato alla conferenza OCSE sulla lotta ai paradisi fiscali: “Naturalmente a giugno, in occasione di una nuova conferenza sul tema, inviterò a Berlino Lussemburgo, Liechtenstein, Svizzera, Austria,  Ouagadougou (nda: capitale del Burkina Faso) “. La battuta, sul filo del razzismo, pare non essere andata giù a molti. E così stamane, colmo dei colmi, il sottosegretario Nicolette Kressl ha dovuto rettificare: “Il Burkina Faso non è invitato all’incontro sui paradisi fiscali che si terrà a Berlino”. Chi ha detto che il gusto del grottesco l’abbiamo solo noi italiani?

Hat Tip: Frank Schaeffler

6
Mag
2009

La Commissione Ue si riforma e perde l’energia

Di scorporare la direzione generale monstre che unisce Energia e Trasporti, a Bruxelles si parla da tempo e con ragione. Sembra però che si stia affermando – lo conferma tra l’altro una lettera del sindacato Tao-Afi – l’ipotesi da tempo accarezzata, tra gli altri, dal presidente dell’esecutivo Ue, José Manuel Barroso, di costituire una Direzione generale Energia e clima, anziché seguire la logica che vorrebbe una DG Energia. Al di là della riorganizzazione interna che questo imporrebbe – in quanto la competenza sulle questioni climatiche sarebbe sottratta alla DG Ambiente – se davvero si andrà in questa direzione, l’Europa di fatto compierà una scelta al ribasso, che del resto appare coerente con l’indebolimento della Commissione e la sua irrilevanza sempre più evidente in questa fase di crisi. Che sia in atto un processo di castrazione di Bruxelles lo dimostra anche, indirettamente, l’alta probabilità della riconferma di Barroso, presidente evanescente per antonomasia (ridateci Prodi!).

L’eredità di Barroso, quando qualcuno si prenderà la briga di tirarne le somme, non sarà soltanto quella di aver lasciato sostanzialmente scaricare quasi tutte le spinte propulsive con cui la Commissione aveva, nel passato, incoraggiato i processi di riforma e di integrazione dei mercati europei. Se davvero egli imporrà la DG Energia e clima, avrà svolto – consapevolmente oppure no – il ruolo di sicario franco-tedesco, nella pratica riconducendo interamente nell’orbita nazionale la politica energetica. E’ infatti chiaro che “Energia e clima” è un eufemismo per “Clima”, tema che già oggi focalizza l’attenzione della Commissione su questi temi.

Il senso della separazione dell’Energia dai Trasporti, del resto, non sta solo nell’esigenza di ricostruire una DG di dimensioni gestibili, ma anche e soprattutto nell’urgenza di riportare la voce dell’Ue nelle grandi scelte e nelle grandi strategie da cui, negli ultimi anni, è stata assente, dalla sicurezza energetica agli aspetti politici della realizzazione di nuovi gasdotti. Se, al contrario, il clima si mangerà l’energia, tutto questo resterà ai governi nazionali, cioè ai monopolisti pubblici, con buona pace della concorrenza e delle sue prospettive. E ciò finirà per danneggiare soprattutto quelle imprese che sullo spazio europeo hanno scomesso, perseguendo un disegno di espansione comunitaria anziché di rafforzamento domestico.

La transizione dalla DG Energia e trasporti alla DG Energia e clima può apparire, ed è, una questione burocratica, ma dietro di essa si legge un disegno politico che può piacere solo ai nemici dell’integrazione europea e ai credenti nella religione ecologista senza se e senza ma. Tutti gli altri, farebbero bene a preoccuparsi.

5
Mag
2009

“Paradisi” fiscali: Obama spalanca la strada a Tremonti

In Italia il dibattito è stato lanciato “a freddo” dal Sole24ore un mesetto fa, rendendo concreta con tanto di titoli di apertura per quattro giorni di seguito l’indiscrezione tra addetti ai lavori che fino a quel momento non aveva mai trovato conferma: e cioè che l’Italia stava elaborando un nuovo maxi scudo fiscale per il rientro dei capitali, che se ne era parlato al G7 di Roma come conseguenza del “nuovo legal standard contro i paradisi fiscali”, e che in tale quadro Tremonti si sarebbe però mosso in un concerto europeo, per evitare la rampogne franco-tedesche scattate nel 2004-05, quando l’Italia ottenne la bellezza di quasi 80 miliardi di euro retrocessi alla base imponibile nazionale, con un’aliquota estremamente attraente pari al solo 2,5% delle somme rimpatriate, che significò un paio di miliardi di euro d’incassi immediati.
Fedele al suo estremo riserbo, che in materia fiscale e di provvedimenti di clemenza è ancor più giusto e obbligato, Tremonti sulla materia è sempre stato restio a dare qualsivoglia particolare aggiuntivo. Il provvedimento è tornato a materializzarsi come possibile copertura in occasione di nuovi stanziamenti straordinari del governo, dall’Abruzzo all’eventuale nuova estensione di ammortizzatori sociali, se le cose dovessero prendere una piega ancora peggiore rispetto agli 8 miliardi a tal scopo drenati in buona parte ai Fas regionali, ottenuti decentrandone l’utilizzo in maniera che le Regioni siano compartecipi del processo decisionale. In realtà le imprese sanno che il provvedimento è in cottura, visto che il Sole prese a parlarne ex abrupto perché Tremonti stesso sollevò en passant il tema incontrando con Berlusconi la Marcegaglia, il martedì successivo al convegno di Palermo in cui il vertice di Confindustria aveva levato un grido d’allarme chiedendo “soldi veri”. Il governo e il ministro non ne parlano per non suscitare allarme in Europa e non spiazzare il lavoro degli sherpa, che tentano di strappare ai franco-tedeschi un’aliquota sufficientemente bassa da rendere il provvedimento realmente efficace e vantaggioso per le casse pubbliche. Le imprese e i giornali non ne parlano neanche loro, per non evocare la facile accusa di voler dare una mano a chi ha portato capitali all’estero. In realtà tutti sanno che la misura sarebbe utile non solo all’Erario in futuro – più base imponibile – e al Tesoro subito – per fronteggiare la diminuzione del gettito da calo delle attività economiche – ma altresì alle imprese, visto che la richiesta convenuta dal governo è di riservare una finestra ancor più vantaggiosa al rientro di capitali che fosse volto all’investimento immediato nelle imprese, per meglio patrimonializzarle. Ma la convenzione generale è di parlarne il meno possibile.
Sennonché ha quasi del clamoroso, che nessuno in Italia si sia accorto che l’annuncio dato lunedì 4 maggio da Obama significa non solo che lo scudo ci sarà qui da noi e in Europa, ma che a questo punto converrà farlo presto e bene.
Che il Congresso Usa approvi davvero quanto annunciato da Obama, francamente si stenta a crederlo. Perché in Senato non basta neanche il sessantesimo senatore Specter passato dai repubblicani ai democratici pur di riassicurarsi l’elezione, per garantire la maggioranza a una misura che butta nel water 25 anni di politica fiscale Usa. Negli Usa, i profitti realizzati da controllate estere di imprese americane sono sottoposti a differimento d’imposta finché non reimpatriati. E’ questa misura, ripresa e rafforzata da Clinton dopo l’introduzione reaganiana, ad aver potentemente spinto la grande impresa Usa a due comportamenti positivi. Estendere il più possibile nel mondo il proprio radicamento in Paesi a minor prelievo, classicamente in via di sviluppo e non solo le Isole Cayman per partite finanziarie estero su estero. Essere estremamente rapide e flessibili nell’impiantare attività nei Paesi che modificavano il proprio regime fiscale in senso favorevole all’impresa, dall’Irlanda all’Est europeo per restare al contesto a noi più vicino. Per la sola General Electric nell’ultimo esercizio, sono quasi 80 miliardi di dollari di profitti che la casa madre non intende reimpatriare. Il che significa che continuerà a investirili all’estero, dando carburante alla crescita mondiale. La resistenza della Corporate America sarà durissima, alla misura annunciata da Obama: negare le deduzioni fiscali sull’intero ammontare dei profitti finché essi non vengano reimpatriati, con la scusa che altrimenti è troppo favorito chi opera all’estero rispetto alla piccola impresa. I 210 miliardi di prelievo che Obama mira ad incassare, non sono solo utili che gonfiano i risultati su cui si calcolano i premi ai manager. Sono benzina per il pianeta (e la forza dell’America nel mondo).
So che su questo argomento noi siamo minoranza. E’ facile alla politica oggi attaccare i “paradisi fiscali” come una minaccia e un insulto, per i poveri Paesi ad alto prelievo messi alle corde dalla crisi e dal calo del gettito per finanziare il loro costoso welfare, vieppiù appesantito dai nuovi disoccupati. In realtà, la difesa della concorrenza fiscale al ribasso costituisce per noi tutela del motore che ha indotto i paesi Ocse nell’ultimo venticinquennio ad abbassare di ben 16 punti l’aliquota legale (dunque quella media, non parlo di quella marginale) sul reddito delle persone giuridiche, pur accrescendo del 34% il prelievo complessivo per effetto della maggior crescita indotta. Senza l’Irlanda e la flat tax esteuropea che oggi tutti i Paesi ad alta spesa pubblica vorrebbero affossare una volta per tutte, perché sino a ieri era la riprova che si cresceva assai di più a basse tasse (e tornerà ad esserlo appena riparte il commercio internazionale), i sistemi politici ad alta intermediazione pubblica del reddito avrebbero avuto vita meno difficile, nel difendere le loro alte pretese dalla protesta di contribuenti e imprese vessati. Su questo tema, segnalo i papers più recenti degli amici del Cato Institute, “Obama Offshore Tax Plan Will Cost U.S. Companies Business and Jobs” di Daniel Griswold, “Tax Havens Should Be Celebrated, Not Persecuted” di Daniel J. Mitchell, “In Defense of Tax Havens” di Richard W. Rahn, “International Tax Competition”, che è il manuale fiscale per politici che vogliano liberarsi della mitologia eticista in materia di fisco comparato.
Ma in realtà, al di là della nostra contrarietà a una classe di politici che crede davvero ora di realizzare l’armonizzazione fiscale internazionale al rialzo, da anni predicata in Italia dai Padoa-Schioppa, Monti e Visco, quel che conta è che l’annuncio di Obama segna la direzione che verrà seguita da molti. Meglio allora farne tesoro. Anzi Tesoro, con la “ti” maiuscola. Dunque si sbrighi Tremonti, e resista ai franco-tedeschi che chiedono aliquote dell’8 se non del 10 o 12% sul reimpatriato, che renderebbero lo scudo fiscale assai meno incentivante e dunque efficace. In un mondo in cui Usa e Germania vanno all’assalto del santo segreto bancario dietro il quale milioni di contribuenti si difendevano dalle alte aliquote, all’Italia spetta non alzare le proprie tasse – per carità, la promessa era ancora una volta di abbassarle – bensì approfittarne al meglio.

5
Mag
2009

Il paternalismo libertario

In effetti, il paternalismo libertario mancava. Ora ce l’abbiamo. Il 7 maggio uscirà anche in Italia il bestseller di Cass Sunstein e Richard Thaler (Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness [negli USA] / Nudge. La spinta gentile – La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità [in Italia]). Oggi, ce ne parla Vittorio Zucconi su la Repubblica. Il quale ci dice che si tratta solamente in apparenza di un ossimoro (sarà, ma se quello che ci ha insegnato la nostra professoressa di lettere ha un senso: siamo in presenza di un ossimoro, non apparente… reale). Premesso che non ho letto il libro, dalla rete se ne ricavano interessanti commenti, che aiutano a farsi un’idea sul volume. L’assunto di base è che l’uomo sbaglia (e questa non è una novità: siamo ignoranti e fallibili, su questo non ci piove). Come dice la scheda di presentazione del volume:  “Siamo esseri umani, non calcolatori perfettamente razionali”. In altre parole, siamo degli Homer Simpson e non dei Mr. Spock. Per Sunstein e Thaler abbiamo allora bisogno di un “pungolo” (di un aiuto), che ci indirizzi verso la scelta giusta: “Per introdurre pratiche di buona cittadinanza, per aiutare le  persone a scegliere il meglio per sé e per la società, occorre imparare a usare a fin di bene l’irrazionalità umana.  I campi d’applicazione sono potenzialmente illimitati: dal sistema pensionistico allo smaltimento dei rifiuti, dalla  lotta all’obesità al traffico, dalla donazione di organi ai mercati finanziari, non c’è praticamente settore della  vita pubblica o privata che non possa trarre giovamento dal ‘paternalismo libertario’ proposto dai due intellettuali americani”. Sarà anche libertario, ma il timore di finire sotto il controllo paternalistico di élite è fondato. Non so se l’economia comportamentale implichi una qualche forma di paternalismo, di sicuro gli autori muovono da e si inseriscono in un simile approccio. Il contesto influisce sulle scelte degli individui, pertanto è possibile in un qualche modo determinare le loro azioni, nel bene e nel male. Per gli autori è importante quindi modificare l’ambiente in cui vengono prese tali scelte, manipolandolo si otterranno esiti differenti. L’aspetto paternalistico allora è evidente. Così pensando, si legittima un intervento che tenti di influenzare il comportamento delle persone per rendere le loro vite migliori, più sane e più longeve. La componente libertaria starebbe invece nel garantire alle persone più opzioni di scelta: si interviene sul contesto, ma si lasciano le persone libere di prendere le singole decisioni. Ma è veramente possibile non costringere le persone a compiere determinate azioni, ma solamente incoraggiarle a prendere decisioni che possono farle diventare persone migliori? Ovvio che, preliminarmente, si debba avere ben chiaro cosa rende le persone migliori. L’esempio più banale e abusato è quello legato all’obesità. Gli autori sembrerebbero dire: se l’obesità è un male dobbiamo limitarla, lasciando però le persone libere di rimpinzarsi quanto vogliono. Ma se non si interviene a valle, bisogna farlo a monte. Se l’obbligo non ricade sul consumatore forse ricadrà sul produttore o sull’esercente. Comunque, a questi dubbi potrà solamente rispondere la lettura del volume. Ad ogni modo, di una cosa sono sicuro: “paternalismo libertario” è e rimane un ossimoro.

5
Mag
2009

Una Thatcher per la Germania? Difficile

Quando l’Inghilterra scoprì la signora Thatcher, in quel di Bonn alla tolda di comando stava ormai da un lustro un certo Helmut Schmidt. Socialdemocratico di ampie vedute e mai schierato su posizioni massimaliste, Schmidt diede vita al secondo governo liberalsocialista nella storia della Repubblica federale dopo quello di Willy Brandt. Inutile dire che in quegli anni la Germania non visse alcuno shock liberista. Anzi, il governo di Schmidt è ricordato ancora oggi per la spasmodica ricerca di una concertazione un po’ all’italiana e per aver raddoppiato l’indebitamento dal 20 al 40% del Pil. E questo è tanto più singolare quanto più si pone attenzione al fatto che al governo stavano per l’appunto anche i liberali dell’FDP. In realtà non bisogna farsi ingannare dai simboli o dalle sigle. Il partito liberale tedesco, dalla sua nascita nel 1948 sino ad oggi, è il partito che più di ogni altro è rimasto al potere, ma è anche quello che più di ogni altro rimane afflitto da gravi paradossi, primo fra i quali quello di esistere, ma di non aver mai preso coscienza di sé stesso. Fino al 1982 l’FDP fu infatti alle prese con spinte centrifughe di segno opposto: keynesiani moderati da una parte e liberalconservatori dall’altra. Solo con il voto di sfiducia a Schmidt e l’ascesa di Helmut Kohl si posero le premesse per un parziale cambiamento. L’ala sinistra del partito abbandonò in blocco l’FDP, accasandosi un po’ presso l’SPD e un po’ presso i nascenti Verdi. Da quel momento in poi i liberali divennero gli alleati più stretti dei democristiani, anche se nei diciassette anni di alleanza con la CDU/CSU non furono in grado di realizzare un mutamento radicale di tipo thatcheriano. Anzi, se si eccettua la politica di parziale semplificazione del mercato del lavoro, ci fu una certa continuità con l’era Schmidt, incrinata solo dalle pressioni  all’apertura dei mercati (mai pienamente accettate e condivise) provenienti della Comunità europea. Tutto ciò per dire che, trent’anni dopo, la Germania attende ancora  oggi la sua Maggie. Nel 2005, quando Angela Merkel arruolò nella sua squadra il professor Paul Kirchhof, ex giudice della Corte Costituzionale e grande sponsor della flat-tax, la CDU precipitò nei sondaggi e per un soffio rischiò di perdere il treno per la Cancelleria. Il vocabolo “Neo-liberal” (come tutti i termini che in tedesco incominciano con “Neo”) incute ancora molta paura in Germania, e questo perché evoca lo spettro di una società profondamente estranea al comune sentire dei tedeschi, i quali dalla Repubblica di Weimar in poi- nazismo compreso-hanno sempre creduto fermamente (e talvolta ciecamente) nelle virtù benefiche del Sozialstaat. Questo è accaduto anche dopo la Wende, ossia dopo il crollo del Muro e la riunificazione, cui purtroppo o per fortuna  (a seconda dei punti di vista), non si è accompagnato alcun trionfo del liberalismo. Ecco perché sapere che nei sondaggi più recenti l’FDP è dato in forte ripresa non ci regala grandi illusioni. Westerwelle è certamente più thatcheriano del suo predecessore, il nazional-liberale e inguaribile anti-semita Möllemann, ma con una Angie così drammaticamente compromessa con l’ala più conservatrice e keynesiana del suo partito, le possibilità di una rivoluzione liberale anche in Germania si assottigliano ogni giorno di più.

4
Mag
2009

Non siamo figli della Thatcher, ma del Ventennio

Nonostante una certa cultura sembri talora dimenticarsene, la storiografia è per definizione revisionista. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che ora, a vent’anni dal concludersi di quell’esperienza, vi sia chi punta il dito contro il decennio reaganiano e thatcheriano e contro l’antistatalismo che aveva animato quelle esperienze politiche. Ovviamente tali giudizi sono in larga misura la conseguenza di presupposti culturali: ed in questo senso non è difficile comprendere per quali ragioni i fautori di una società variamente tecnocratica non provino alcuna simpatia per la ventata di libertà che ha segnato il mondo anglosassone durante gli anni Ottanta.

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4
Mag
2009

Krugman e il computer di Picasso

A Paul Krugman hanno dato il premio Nobel per l’Economia, ma meriterebbe anche quello per la Pace. Se lo è guadagnato col suo editoriale di giovedì sul New York Times, nel quale afferma che l’adozione di uno schema di “cap & trade” negli Stati Uniti sarebbe un male necessario. Un male, perché come lui stesso riconosce che “limitare le emissioni avrebbe dei costi”. Ma necessario, non solo perché in questo modo potremmo “salvare il pianeta”, ma anche perché “darebbe alle imprese una ragione per investire”. Come ha notato David Henderson, però, con queste affermazioni Krugman adotta un punto di vista puramente keynesiano, secondo cui investire è tutto ciò che conta, a prescindere dalla produttività degli investimenti. E dunque, facciamo scavare alla gente delle buche che riempiranno il giorno dopo, oppure tappezziamo il paese di torri eoliche e pannelli solari.

Al di là di questo fraintendimento sul meccanismo che sta alla base della creazione di ricchezza, Krugman pare compiere una serie di assunzioni tutt’altro che pacifiche. Anzitutto, suppone che il cap & trade americano potrebbe funzionare. Non è scontato: in Europa è andata diversamente. Secondariamente, implicitamente sembra credere che (a) tutto il mondo si adeguerà introducendo politiche di controllo delle emissioni e (b) gli imprenditori americani siano idioti. Se infatti resterà almeno un paese sulla faccia della Terra che lasci libertà di CO2, e se esisterà almeno un imprenditore americano intelligente in un settore carbon-intensive, questi delocalizzerà le sue attività in quel paese, col risultato che i suoi concorrenti o chiuderanno la baracca, oppure si adegueranno. Ciò significa che, a livello globale, le emissioni non verranno significativamente ridotte, ma solo trasferite. Anzi, è probabile che addirittura aumentino, perché – come spesso accade – il paese in via di sviluppo di destinazione potrebbe essere meno efficiente, nell’uso dell’energia, degli stessi Stati Uniti. Per esempio, Dieter Helm – certo non sospettabile di anti-kyotismo – ritiene che il processo di “decarbonizzazione” dell’economia britannica non abbia in verità prodotto alcuna riduzione delle emissioni nette del paese, che si sarebbero solo spostate altrove.

Ma anche trascurando questo non secondario punto, e supponendo che gli imprenditori americani siano idioti e che tutto il mondo si innamori di Barack Obama a tal punto da seguirlo sulla via del cap & trade, c’è un ulteriore punto che a Krugman sembra sfuggire. Siamo sicuri che la riduzione di qualche punto percentuale delle emissioni globali abbia risultati discernibili sul clima? E, in subordine, siamo sicuri che il beneficio ambientale sia comparabile al costo economico? Le opinioni qui sono molto diverse e distanti, ma semplicemente il fatto che questa divergenza esista testimonia di una profonda incertezza di fondo. Ora, tra tutti i modi di gestire l’incertezza, quello meno efficace consiste nel rimpiazzarla con una falsa certezza. La sicumera con cui Krugman e quelli come lui affrontano le questioni climatiche, passando bellamente sopra all’infinità di cose che ignoriamo, ricorda quanto Pablo Picasso diceva del computer: “è inutile perché dà solo risposte”.