29
Apr
2009

Germania. Tutto bene con le Sparkassen?

Insieme con quello delle Landesbanken, l’universo delle Sparkassen è un fulgido esempio di ciò che molti tedeschi amano definire Soziale Marktwirtschaft. Che cosa esattamente si intenda con questo termine non è chiaro a nessuno, dato che tutti tendono ad appropriarsene dilatando o restringendo- a seconda dei punti di vista- le maglie del concetto. Il caso di specie fa però chiarezza su ciò che di sicuro l’economia sociale di mercato non è. La Soziale Marktwirtschaft, così come si è sviluppata in Germania dal dopoguerra sino ad oggi, non è infatti una Reine Marktwirtschaft, ovvero un’economia di mercato dura e pura. Né mai lo sarà. Anzi, perfino dopo la caduta del Muro, quando le magnifiche sorti del liberalismo sembravano dover trionfare ovunque, l’anelito verso il Vaterstaat non si è affatto dissolto, ma è rimasto inalterabilmente fisso nella spina dorsale della gran parte dei tedeschi. Ebbene, le casse di risparmio sono l’archetipo perfetto di questa irrefrenabile pulsione della Germania per soluzioni che releghino il mercato sempre a second best, a mero strumento accessorio. L’obiettivo del risparmio per le fasce sociali più disagiate (oggi in realtà per una vasta e sfaccettata pletora di clienti) si dice debba essere primariamente perseguito dallo Stato, che, a tal fine, conserverà la proprietà su determinati istituti di credito, le Sparkassen appunto. Ora, qui come altrove, è utile chiedersi: siamo davvero sicuri che laddove non riesce (o si suppone che non riesca) il privato, lo Stato ce lo possa fare e ce la possa fare bene? Nutrire qualche dubbio, anche alla luce di alcuni semplici considerazioni, pare lecito.

a) Il cronico eccesso di capacità nel settore delle casse di risparmio (overbanking) è legato per buona parte alla presenza del cosiddetto Regionalprinzip, che sottrae alla competizione gli istituti facenti capo ad enti territoriali diversi e fa in modo che i clienti di ciascuna cassa siano in massima parte i residenti della zona stessa in cui essa opera.

b) La raccolta del risparmio, come rileva Hans Werner Sinn nel suo felice volumetto “Der Staat im Bankwesen”, può essere davvero incentivata solo se gli interessi garantiti ai risparmiatori sono generosi. In realtà gli interessi reali per il deposito a risparmio sono stati per anni del tutto risibili (nel 1986 e poi ancora dal 1990 al 1994 ebbero persino segno negativo!!!).

c) Della scorsa settimana è la severa pronuncia del Bundesgerichtshof, la Cassazione tedesca, con la quale  sono state bocciate le clausole di quei contratti di credito che consentivano a quei “buoni samaritani” delle casse di risparmio di modificare unilateralmente l’entità dei costi delle transazioni bancarie, il più delle volte ritoccandoli verso l’alto.- Ma non dovevano favorire il piccolo risparmiatore?-

d) Dopo la definitiva caduta delle garanzie di Stato, non è affatto vero che non vi siano stati investitori privati disposti a rilevare o ad acquistare partecipazioni in casse di risparmio. Nel 2004, in un caso rimasto famoso, la cittadina di Stralsund tentò di cedere la propria, ma più forti si rivelarono e pressioni lobbistiche delle associazioni delle Sparkassen e dei potentati politici locali. Stesso esito anche per la recente proposta di modifica in senso più market-friendly della legge regionale sulle Sparkassen nel Nord-Reno Westfalia

e) Nonostante un doppio livello di sorveglianza (quello federale della Bafin e quello dell’organo regionale delle casse  di risparmio) i casi di corruzione in questo settore non sono affatto così desueti. L’ultimo è quello scoppiato nel febbraio scorso presso la cassa di risparmio di Colonia (proprietaria persino di un Golf Club!)  che rivela in maniera palmare i rapporti malsani e i conflitti di interesse tra politica locale e banche pubbliche.

f) Fin dagli anni ’70, le Sparkassen sono diventate banche pressoché universali, capaci di eseguire una vasta molteplicità di operazioni bancarie e in alcuni casi, laddove permesso dalle rispettive leggi regionali, anche di redistribuire gli utili. L’idea che debbano rimanere a tutti costi pubbliche, sottraendosi così a criteri di efficienza, è insomma palesemente ideologica e non fa certo gli interessi dei consumatori.

29
Apr
2009

C’è Poste per l’Agcm

In un paese migliore, combattere i monopoli pubblici sarebbe la principale occupazione dell’antitrust. Per questo, ogni occasione in cui ciò accada va celebrata come un’ottima notizia.

Non fa eccezione la recente istruttoria aperta da Piazza Verdi nei confronti di Poste Italiane (comunicato; provvedimento) per abuso di posizione dominante nel mercato dei pagamenti con bollettino postale e strumenti assimilati.

Che il business dei bollettini sia per Poste un’autentica roccaforte è, del resto, reso evidente tanto dai pezzi lavorati, quanto dai prezzi praticati. Il tutto a dispetto delle gravose condizioni d’accesso e della discutibile qualità del servizio.

Come ha dichiarato la senatrice Maura Leddi,

ci troviamo in una situazione al limite del paradosso in cui un’azienda, in regime di monopolio, fornisce un servizio a pagamento scadente che crea enormi disagi ai cittadini, nonostante l’era di internet offra valide alternative.

Ci pare che il provvedimento dell’AGCM costituisca un importante primo passo per arginare lo strapotere della nuova IRI.

29
Apr
2009

I “risparmi” del G8

di Andrea Boitani  e Francesco Ramella

La scorsa settimana il Governo ha deciso di spostare la sede del G8 di giugno dall’isola della Maddalena all’Aquila. Il Presidente del Consiglio ha motivato la sua scelta con il fatto che il trasferimento “permetterà di risparmiare soldi, che potranno essere usati per la ricostruzione” delle aree terremotate. Tale spiegazione desta qualche perplessità. Abbiamo chiesto i dati sui costi del G8 alla protezione civile, ma dopo ripetute insistenze abbiamo ricevuto soltanto le due tabelle allegate.

Continua su lavoce.info.

29
Apr
2009

Assicurazioni, la concorrenza puo’ attendere

La Corte di Giustizia europea ha salvato l’ “obbligo a contrarre” sulle RC auto, e secondo i giornali italiani sarebbe un’ottima notizia. Con uno scatto patriottico, il Sole 24 Ore afferma che “la sentenza va accolta con soddisfazione”, salvo prescisare – giustamente – che non bisogna “dimenticare la realta’ di un Paese che, anche per gli incidenti stradali, risulta spaccato in due”. Contro l’obbligo a contrarre le polizze, aveva presentato ricorso la Commissione europea vedendolo per quel che e’: una norma che viola la liberta’ contrattuale, e che lede la liberta’ di stabilimento – cioe’ la liberta’ per le imprese di stabilirsi in un Paese UE che non e’ quello d’origine, per esercitarvi la propria attivita’.

Alla Corte, l’obbligo a contrarre e’ apparso coerente con le sue motivazioni: garantire su tutto il territorio nazionale il risarcimento alle vittime d’incidenti stradali, con tariffe “adeguate”. Per le assicurazioni, cio’ invece implica l’obbligo di assumersi tutti i rischi che vengono loro proposti, e una moderazione “coatta” dei premi. Che sia una limitazione della liberta’ contrattuale, e’ evidente. Ed e’ parimenti evidenti che esso ha un effetto “protezionistico”: rende meno attrattivo l’accesso in Italia ad imprese estere (non a caso le imprese assicurative, italiani ed estere, attive in Italia sono piu’ o meno tante quante quelle attive in Irlanda, dove il mercato e’ sensibilmente piu’ piccolo ma meno vincolato). L’assicuratore francese che voglia competere in Val d’Aosta ha l’ “obbligo” di rendere disponibile la propria offerta anche al cliente campano, o calabrese.

Come ricorda il Sole (e come sanno anche i sassi), i rischi (e pure la certezza del diritto) sono sensibilmente diversi, sul territorio nazionale, e perdendo la possibilita’ di diversificare le tariffe si perdono anche i benefici piu’ tipici dell’assicurazione: a cominciare dalla possibilita’ di “prezzare” il rischio. Per il Presidente dell’Isvap, Giannini, “l’accoglimeno del ricorso avrebbe arrecato grave pregiudizio a intere fasce di utenti che, soprattutto al Sud, rischiavano o di pagare premi molto alti o di trovarsi scoperte pur essendo tenute per legge ad assicurarsi”. Questo e’ cio’ che si vede. Cio’ che non si vede e’ che la persistenza dell’obbligo a contrarre, se da una parte “tutela” il Sud per come e’ (levandogli un altro piccolo stimolo a “diventare” qualcosa di diverso), dall’altra “ingessa” la concorrenza in altre aree del Paese, sbarrando la strada a concorrenti potenziali e dunque evitando che i clienti possano cogliere le opportunita’ che una concorrenza piu’ intensa produrrebbe. Certo, l’obbligo a contrarre e’ intimamente legato all’obbligo ad assicurarsi. Ma che l’obbligatorieta’ dell’RC auto giustifichi un mercato meno dinamico e’ una ben strana idea.

28
Apr
2009

Assolombarda: c’è un quinto candidato

Repubblica oggi è stato il primo grande quotidiano a rompere il velo del riserbo intorno alla gara per succedere a Diana Bracco alla testa di Assolombarda. Mancano solo due settimane, alla riunione di giunta chiamata alla designazione, ma i saggi non hanno ancora raggiunto un’indicazione unanime. La vera gara, fino a questo momento, è stata tra Alberto Meomartini, navigato presidente di Snam Rete Gas, e Alessandro Spada, ex presidente dei Giovani sotto la presidenza Perini e poi consigliere delegato al Centro studi con la Bracco. Benito Benedini, già presidente dal 97 al 2001, e Carlo Moretti, ex presidente dei “piccoli” di Assolombarda, sono anch’essi in lizza ma i loro consensi sono troppo limitati. La sfida a due, però, almeno come sinora si è prospettata, comporta dei rischi. Assolombarda è l’associazione più forte in tutta Confindustria, il “cuore” dell’imprenditoria del Nord dal palmares più storico e insieme diffuso sul territorio. Si comprende che Paolo Scaroni e la sua Eni puntino a un forte successo milanese, a coronamento della posizione insindacabile di primo gruppo italiano nel mondo. Ma ammettiamolo: un imprenditore “pubblico” alla guida di Assolombarda non sarebbe un capolavoro troppo ben visto, dalla stragrande parte della base, quand’anche per ragioni di opportunità dovesse restare l’unico candidato in lizza. Per questo la Bracco. ben consapevole delle aspettative dell’Eni, ha puntato sul giovane Spada in nome del rinnovamento, ma insieme contando sul fatto che una personalità non troppo nota e autorevole potrebbe rappresentare una certa continuità, rispetto alla rappresentanza delle imprese che a Diana tocca nella Soge del discusso Expò 2015 (la scorsa settimana, per l’esiguo margine di un solo voto il suo nome è sopravvissuto al giudizio del Consiglio comunale milanese….). La Lega, una volta che Formigoni dovesse abbandonare il Pirellone per un importante incarico europeo di cui si parla, partirebbe lancia in resta rivendicando ruoli e margini decisionali, per evitare il bis del caso Malpensa. Motivo in più per sconsigliare un’Assolombarda di profilo troppo basso, oppure divisa sulla natura “pubblica” della sua guida. Emma Marcegaglia, dunque, sia pur nel pieno rispetto delle prerogative dei saggi milanesi, si è tirata su le maniche e lavora per evitare l’impasse. Scaroni non vuole neanche sentirne parlare, di mollare la presa. L’ipotesi A è dunque quella di una presidenza Spada ma con una fortissima squadra intorno, per soddisfare anche Eni. L’ipotesi B è invece di azzerare tutto e sparigliare, con un quinto candidato. Che insieme abbia il consenso di grandi elettori come Confalonieri e Tronchetti, il sostegno di moltissimi tra i “piccoli”, sia in ottimi rapporti con il governo, e insieme unisca una carriera di manager privato di successo, un passato di manager pubblico, e anche un’esperienza di primo piano già al vertice di Confindustria. A Milano, un tipo così c’è: è il ceo di Fastweb, Stefano Parisi.

28
Apr
2009

Detroit, Urss

Pensavo ingenuamente di essere arrivato nella (bruttissima) capitale dell’auto e di raccontare il riscatto di un’azienda ex decotta e derisa come Fiat che torna in America chiamata da Obama, salva una delle Big Three di Detroit e magari si concede pure il lusso di non sborsare un dollaro. Magari succederà lo stesso. Però nelle ultime ore il clima s’è fatto pesante.
La prima rivelazione riguarda General Motors: il piano di ristrutturazione presentato al Congresso dal nuovo management prevede (in cambio della cancellazione di buona parte del debito) la cessione al governo di un pacchetto azionario pari al 50 per cento. Un altro 39 per cento andrebbe invece alla United Auto Workers, il già potentissimo sindacato dell’auto, quello che negli anni ha portato le case di Detroit ad avere un costo del lavoro doppio – calcolando i benefit previdenziali e sanitari – rispetto ai concorrenti, specie le case giapponesi che hanno aperto i loro impianti negli stati (repubblicani) del sud. Insieme stato e sindacati farebbero l’89 per cento, praticamente tutto.
Se a GM si nazionalizza, a Chrysler preferirebbero sovietizzare. Lo dice il Wall Street Journal: il nuovo piano di ristrutturazione aziendale prevederebbe una quota del 55 per cento in mano all’UAW, a Fiat spetterebbe il 35, mentre il restante 10 per cento se lo spartirebbero il governo federale e le 45 banche creditrici di Chrysler. Vabbè, Fiat avrebbe comunque da guadagnarci – sulla carta – perché le si aprirebbero le porte del mercato americano. Però. Però conviene a Sergio Marchionne impelagarsi in un’impresa del genere e magari diventare il Ceo di un’azienda nel cui consiglio di amministrazione siedono gli stessi sindacalisti che con una mano chiedono più benefit e con l’altra li concedono alla prima occasione utile? Senza contare che lo stesso sindacato si troverebbe ad essere azionista forte in due delle tre “sorelle” di Detroit (con il pericolo di paralizzare la concorrenza)?
Non ho tempo di rispondere a questi interrogativi, devo andare. Bussano alla porta. E parlano russo.

28
Apr
2009

Stato e povertà

“This is my long-run forecast in brief. The material conditions of life will continue to get better for most people, in most countries, most of the time, indefinitely…I also speculate, however, that many people will continue to think and say that the conditions of life are getting worse”. Così scriveva Julian Simon in un articolo apparso su Wired nel 1997. A leggere l’articolo di oggi sul Corriere di Massimo Mucchetti dedicato alla geografia delle nuove povertà sembra che l’Italia non faccia eccezione rispetto alla tendenza delineata da Simon. Per quanto riguarda la povertà assoluta, “cinquant’anni fa le famiglie misere erano un milione e 357 mila, il doppio di oggi”. Quanto alla povertà relativa, “l’indice del Gini, che misura il grado di diseguaglianza tra i redditi secondo una scala da 0 (tutti hanno la stessa quota) a 1 (uno solo ha tutto), dà un quadro eloquente: le regioni con il reddito medio più alto, in particolare quelle settentrionali a statuto speciale e quelle centrali Lazio escluso, hanno anche il Gini più basso; le grandi regioni meridionali hanno meno reddito e il Gini più alto”. Sulla base di tale constatazione, Mucchetti afferma che “il contrasto della povertà e della disuguaglianza non può non coinvolgere lo Stato”; la carità cristiana, ed eroica del volontariato non può bastare. Ma, se è la crescita del reddito e, dunque, la creazione di ricchezza a portare con sé anche minori diseguaglianze, come può l’azione dello Stato essere determinante? Le regioni settentrionali sono più ricche perché sono state più aiutate dallo Stato o è vero il contrario? Come ha spesso ricordato Antonio Martino, al termine della Seconda guerra mondiale il Veneto era più povero della Sicilia. Poi il Veneto venne abbandonato a se stesso e la Sicilia sorretta dalle amorevoli cure dello Stato. Con i risultati che tutti conoscono.

27
Apr
2009

Ferrovie: i francesi non sono l’esempio

In Italia spesso i cugini transalpini vengono presi ad esempio nel settore industriale; troppo spesso invidiamo ai francesi i loro champion national che sono in grado di andare all’estero e competere.

Questo forse può essere valido per alcune grandi imprese private, ma non è certamente vero per il trasporto ferroviario.

SNCF, la Société Nationale des Chemins de Fer, è un gruppo che fattura 25,1 miliardi di euro, vale a dire oltre 2 volte e mezzo i ricavi della società italiana Ferrovie dello Stato, ma soprattutto impiegava a fine del 2008 oltre 201 mila persone. Read More

27
Apr
2009

L’Agenzia delle entrate “toppa” sulla scuola privata

Sono energicamente d’accordo con la dura protesta che nove associazioni – Agesc, Fidae, Agidae, Cnos-Fap, Ciofs-scuola, Fism, Foe-Cdo, Aninsei, Msc – hanno riservato all’incredibile circolare emessa dall’Agenzia delle Entrate. E’ dedicata a “Prevenzione e contrasto all’evasione fiscale”, e contempla tra i servizi di lusso indicatori di potenziale evasione da accertare anche l’iscrizione dei figli a scuole private. Compiere la scelta di far frequentare ai propri pargoli una scuola paritaria viene da oggi considerato un criterio analogo all’uso di porti turistici con barche da diporto, alla frequentazione di circoli esclusivi, wellness center e tour operator. E’ veramente singolare e a mio giudizio del tutto inaccettabile, che un simile principio venga affermato dal vertice amministrativo dell’amministrazione fiscale, per di più sotto un governo di centro destra. Potrei citare tonnellate di letteratura scientifica costituita da solide ricerche comparate sulla maggiore skillness di chi si forma in scuola private piuttosto che di Stato, nel nostro Paese. Ma è appena il caso di richiamarle. Quello che conta di più è la manifesta ignoranza dei fatto che le scuole paritarie fanno parte a pieno titolo del sistema dell’istruzione pubblica, ignoranza propalata dallo Stato stesso in una delle sue accezioni più sedicentemente “etiche” – la lotta alla famigerata “evasione”, naturalmente. Attualmente risulta ancora irrisolto il contenzioso sull’ultima rata dei contributi ordinari al sistema paritario che lo Stato ha tentato di trattenersi, a seguito delle rimodulazione triennale della spesa pubblica attuata con la finanziaria provvidenzialmente varata nel luglio 2008, appena il governo entrò in carica. In più, da oggi la libera scelta delle famiglie a proprie spese, per un capitale umano meglio formato e meno ostaggio del degrado della scuola di Stato, viene considerato a tutti gli effetti un “sospetto sociale”, fomite e scudo di mancato adempimento del dovere fiscale. Quando uno Stato si esprime in questi termini, mostra di disprezzare e infrangere le libertà naturali che dovrebbe considerare intangibili, quelle stesse libertà intangibili la cui difesa dovrebbe costituire prima – se non esclusiva – fonte di legittimità del prelievo fiscale stesso. Uno Stato insomma che diventa ladro e prevaricatore, ma che come al solito si ammanta di virtù. Che poi tutto ciò avvenga sotto l’egida del Popolo delle “libertà”, purtroppo la dice lunga. Se il ministro Tremonti ha appreso anch’egli della circolare dalle agenzie di stampa – come è perfettamente possibile e ordinariamente avviene – richiami per favore immediatamente il direttore dell’Agenzia delle Entrate a una visione meno robespierrista.