23
Apr
2009

Tanti euro quanto pesi

Ryan Air farà pagare un biglietto più salato agli obesi. L’iniziativa suscita poche simpatie. Per gli oversize, è “discriminazione”. La compagnia irlandese dice di aver fatto un sondaggio, e di essere forte dell’approvazione di due terzi degli altri passeggeri (statisticamente, non solo anoressici). Credo di Michael O’Leary sia sempre da ammirare la lucidità. Quale è stato, alla fine, in questi anni il “segreto” di Ryan Air? La capacità di “scomporre” il prezzo in tutte le sue componenti, isolandone una dopo l’altra e permettendo di ridurre all’osso il prezzo pagato dai viaggiatori per il servizio base offerto dalla compagnia (essere portati dall’aeroporto A all’aeroporto B), facendo pagare tutto ciò che vi era di aggiuntivo. Questo ha permesso di dare un’offerta effettivamente differenziata. Ci si sofferma molto spesso sul fatto che un volo con Ryan Air (o Easy Jet…) costa “meno”. Ciò che in realtà è straordinario è come i prezzi varino, non solo in base all’orario ma, in certa misura, in base all’individuo che viaggia. Un elemento evidente di differenziazione sono i consumi a bordo: ma Ryan Air fa anche pagare per il trasporto del bagaglio, e Easy Jet consente di acquistare un “priority boarding” che permette di salire a bordo in anticipo sul resto dei passeggeri, e quindi scegliersi un posto migliore. Quest’ultimo servizio riflette il tentativo di Easy Jet di avere anche clienti “business” e non solo viaggiatori per diletto, come Ryan Air.

Fare pagare lo spazio occupato può forse essere il passaggio successivo. Ci sono spesso persone a bordo la cui presenza è fastidiosa per gli altri. Una persona molto grassa è un problema per chi gli viaggia vicino (più ancora, sulle lunghe percorrenze che Ryan Air non copre). Non troppo diversamente, lo è una persona che viaggi con dei bambini piccoli al seguito. E’ vero che ciò che pagano di più non consente di “compensare” coloro che hanno a causa loro un viaggio qualitativamente peggiore. Può essere però un piccolo disincentivo. Questo rappresenta una discriminazione? In parte, sì. C’è da chiedersi se ogni tanto la logica economica (paghi per lo spazio che occupi) non entri in conflitto con la “accettabilità sociale”.

La cosa che fa più ridere, però, è che contro Ryan Air si schierino oggi persone e gruppi che sono invece a favore della discriminazione contro i grassi in ogni altro ambito della vita. Che una compagnia aerea faccia pagare un biglietto più alto desta scandalo. Non l’hanno destato le diverse iniziative dello Stato “terapeutico”: il bollino blu ai ristoranti a basso dosaggio di calorie proposto dall’allora Ministro Sirchia, le proposte di interdizione da talune cure mediche a chi “se l’è cercata” avanzate in Inghilterra negli anni scorsi per obesi e fumatori, eccetera. Perché il pubblico dovrebbe avere il monopolio degli incentivi a dimagrire?

23
Apr
2009

La FILCEM rompe il tabù dell’ipocrisia energetica

Il segretario generale della Filcem-Cgil, Giacomo Berni, ha detto che va bene le rinnovabili, ma il carbone non si tocca. Intervenendo al convegno sull’efficienza energetica organizzato dal suo sindacato, Berni ha evidenziato i risultati raggiunti dal settore chimico (-20 per cento intensità energetica tra il 1990 e il 2005) e quello energetico (che ha solo lievemente aumentato le emissioni, a fronte di una domanda in rapida e consistente ascesa). Berni ha poi sottolineato che “occorre fare un bilancio su come sono stati spesi i fondi pubblici dello Stato, delle regioni e quelli comunitari e correggere eventuali distorsioni o errori”. Oltre a questo, ha però doverosamente ricordato come non di sole rinnovabili (e non di sola efficienza) campi l’uomo: per questo, non si può ignorare l’importanza anche dei combustibili fossili, e in particolare del carbone, eventualmente da complementare con l’installazione di impianti di cattura e sequestro dal carbonio.

Ovviamente, il sindacato ha in mente anzitutto l’impatto occupazionale che potrebbe avere la jihad anti-emissioni, ma non è solo questo a guidarne le azioni. E’ anche la consapevolezza che il mondo dell’energia ha ancora molto da dare, sia in termini di sviluppo che di tutela ambientale, senza necessariamente dover issare bandiera bianca e arrendersi all’arrembaggio verde. La sostenibilità, insomma, non può essere una variabile indipendente, né può andare a scapito della crescita economica in misura superiore a quanto sarebbe giustificato. Non siamo alla riproposizione dello scontro tra lavoro e ambiente, come variante proletaria del conflitto fra economia ed ecologia. Siamo, semmai, alla razionalità. Di questi tempi, la più scarsa di tutte le risorse.

23
Apr
2009

Gas Release: risposta azzardata a problema concreto

Il presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis, ha chiesto di obbligare l’Eni a vendere una importante tranche del gas che importa in Italia, a condizioni regolate, in modo da aumentare la concorrenza sul mercato all’ingrosso e trasferire i benefici della riduzione dei prezzi sui consumatori. L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, ha replicato che prezzi e domanda sono hanno subito un calo senza precedenti, e dunque non c’è alcun bisogno di una nuova “gas release”.

Entrambi hanno le loro ragioni. Ortis vede un mercato che, a sei anni dalla completa apertura (avvenuta nel 2003, in anticipo di quattro anni sul termine ultimo fissato dalla Commissione europea) resta ingessato e scarsamente competitivo, e del quale l’operatore dominante controlla una quota largamente maggioritaria. Quindi, nell’impossibilità di indurre una competizione “naturale”, vorrebbe produrla artificialmente attraverso un intervento oggettivamente invasivo. Scaroni, d’altra parte, rileva correttamente che, oggi, l’Italia ha più problemi col gas invenduto, che coi consumatori insoddisfatti, a causa del crollo della produzione industriale. Una gas release, dunque, potrebbe essere uno strumento accettabile in condizioni di mercato tirato, come è accaduto nel passato, mentre oggi appare meno urgente. Va però riconosciuta, al capo dell’Authority, la coerenza con cui si impegna per risolvere le criticità del nostro mercato, e lo fa coi mezzi a sua disposizione, anche se non sempre dosandone nel modo più appropriato l’utilizzo (ma questa è una questione di merito che, nello specifico, è difficile valutare, perché la domanda rilevante, rispetto alle cessioni obbligatorie di metano, non è solo “se” ma anche “come”).

Il problema vero, che è anche la fonte di frustrazione di Ortis e dell’Autorità, sta nel fatto che la liberalizzazione italiana, come mostra anche il nostro Indice delle liberalizzazioni (PDF), è incompiuta. Il tema di fondo, insomma, è la separazione proprietaria delle infrastrutture di rete dall’incumbent, che può utilizzare le informazioni in suo possesso e pianificare gli investimenti in modo tale da, di fatto, erodere gli spazi di competizione possibile, e questo a prescindere dal controllo dei gasdotti internazionali (che era e in parte è un ostacolo alla concorrenza, ma lo sarà sempre meno man mano che nuovi terminali di rigassificazione e nuove pipeline in mano ad altri soggetti entreranno in funzione).

Purtroppo, la politica sembra sorda a questo fatto – anche perché, tramite i lauti dividendi e le donazioni più o meno spontanee, il Tesoro è di fatto compartecipe e corresponsabile di questa rendita. Forse la gas release non è lo strumento migliore e questo non è il momento più adatto, ma i grandi nodi restano irrisolti.

22
Apr
2009

Sarko l’Americain e Obama le Français?

Le due sponde dell’Atlantico si stanno avvicinando sempre di più in campo economico; al vertice Nato tenutosi all’inizio di Aprile a Strasburgo, il presidente americano Barack Obama ha elogiato pubblicamente il servizio ferroviario ad alta velocità francese affermando che gli Stati Uniti hanno un notevole ritardo in questo settore.
Presto fatto, pochi giorni dopo, ha annunciato un finanziamento pubblico di 12 miliardi di dollari, per costruire 10 corridoi ad alta velocità tra alcune delle principali città americane; sette miliardi sarebbero assicurati dal Governo Federale, mentre altri 5 miliardi verrebbero dagli Stati interessati ad essere coinvolti in questo programma.
In California, da diversi anni, si sta discutendo del progetto di collegare con il treno ad alta velocità Los Angeles e San Francisco, con un notevole sovvenzionamento di risorse pubbliche, ma ancora tutto è fermo.
Le ferrovie sono state nell’800 un notevole volano dell’economia statunitense; c’è da chiedersi tuttavia se attualmente sono competitive nel trasporto passeggeri ad alta velocità dopo che nel ‘900 sono stati inventati nuovi mezzi di trasporto.
La domanda non è di poco conto, se la stessa Direzione Generale dei Trasporti e dell’Energia della Commissione Europea ha sentenziato in un proprio studio che il mezzo ferroviario ad alta velocità non è competitivo nei costi rispetto al trasporto aereo per tratte superiori a 300 chilometri.
Gli Stati Uniti sono stati un esempio proprio nel settore aereo, essendo stato il primo paese ad avere deregolamentato sotto l’amministrazione democratica il settore, con indubbi vantaggi per il consumatore. L’Unione Europea visto il successo americano con un ritardo di 10 anni ha liberalizzato anch’essa il trasporto aereo.
Il paese leader in termini di chilometri di binari nel trasporto ferroviario ad alta velocità è la Francia, ma c’è da chiedersi quale sia il costo di tale infrastruttura.
Il paese transalpino ogni anno finanzia con 11 miliardi di euro il proprio trasporto ferroviario con un enorme spreco di risorse pubbliche. La SNCF, l’impresa di Stato di trasporto ferroviario, è vista sempre più come un carrozzone pubblico con quasi 200 mila dipendenti iper-sindacalizzati. Spesso sono effettuati scioperi selvaggi e i dipendenti godono di vantaggi enormi nel campo previdenziale, potendo andare in pensione diversi anni prima rispetto ai dipendenti privati.
La situazione del trasporto ferroviario francese non è cosi rosea come viene descritta e soprattutto i commentatori difficilmente hanno analizzato il costo di tale servizio che viene sovvenzionato con una elevata tassazione generale.
La domanda da porsi è se Obama, nel momento in cui ha affermato di volere sostanzialmente copiare il trasporto ferroviario francese, abbia realmente analizzato i costi ingenti di tale servizio per le finanze pubbliche.
Molto probabilmente no, ma le Ferrovie hanno un certo appeal a livello di consenso pubblico perché ricordano l’era in cui gli Stati Uniti si stavano creando. Nel corso dell’800 il treno ha infatti unito l’America e il mito delle ferrovie americane non è del tutto scomparso. Tuttavia nel corso del ‘900 sono stati inventati mezzi più efficienti ed economici, quali l’aereo. E grazie all’aereo è oggi possibile per un cittadino americano andare velocemente da una città ad un’altra ad un prezzo molto contenuto.
In Francia, l’esistenza del campione nazionale del trasporto aereo Air France e la concorrenza con soldi pubblici del treno, ha fatto si che il trasporto aereo nazionale sia poco sviluppato, ma soprattutto che le possibilità di scelta per il consumatore siano limitate.
Obama vuole seguire l’esempio francese?
Il presidente francese Sarkozy è stato soprannominato “l’americain” a causa della sua visione differente rispetto ai presidenti francesi precedenti nei confronti degli Stati Uniti d’America. In campo militare questo è certamente vero e il vertice di Strasburgo, con il riavvicinamento tra la NATO e la Repubblica Francese, dopo lo strappo di De Gaulle di molti anni fa, ne è la riprova.
Obama vuole diventare il primo presidente soprannominato “le français”?
Il caso del treno purtroppo non è isolato, perché in realtà Sarkozy ed Obama hanno molti punti in comune in campo economico.
Il settore auto è forse quello che più avvicinano i due presidenti. La misura di supporto alle aziende produttrici di veicoli americane in crisi con decine di miliardi di dollari ha di fatto sfavorito i produttori esteri che producono negli Stati del Sud degli USA e di fatto si rivela come una misura protezionistica nel settore auto. Il presidente francese non è stato da meno, avendo subordinato, a parole, gli aiuti ai produttori francesi di automobili alla non delocalizzazione degli impianti.
Sarkozy è convinto forse che la delocalizzazione di un impianto a medio termine sia dovuto alla crisi; ma non è cosi, perché le aziende producono laddove c’è mercato e laddove le condizioni produttive sono le migliori. È necessario dunque favorire la creazione di imprese con una legislazione più snella, con tasse meno elevate e non con singoli sussidi a breve termine per le imprese locali.
Le politiche protezioniste francesi hanno esacerbato gli animi dei lavoratori preoccupati dalla perdita del posto del lavoro e i “rapimenti” dei manager sono stati forse l’esito naturale a questa esasperazione.
Barack Obama vuole davvero diventare le français?

22
Apr
2009

Messi marzoline: raccolta in banca 10 punti più degli impieghi

Anche a marzo le banche italiane hanno mantenuto il trend affermatosi con crescente divario a loro vantaggio dallo scorso autunno. A marzo gli impieghi sono saliti solo del 2,8% sull’analogo mese 2008, mentre la raccolta è salita della bellezza dell’11,3%. Trainata dalle obbligazioni bancarie che gli istituti italiani continuano a piazzare ai propri sportelli a ritmi incrementa,li vertiginosi, con un più 20,5% mensile che va parametrato al più 5,8% dell’euroarea, al più 11,5% francese, e al meno 1,7% tedesco e al meno 3,1% spagnolo.
Si tratta di due dati sui quali riflettere. Da mesi la forbice crescente tra raccolta e impieghi ormai sui dieci punti mensili testimonia non solo la maggior propensione al risparmio delle famiglie innanzi alle incertezze della crisi – fenomeno fisiologico perché dovunque in tali condizioni sale la propensione al risparmio sul reddito disponibile, persino negli usa dove era negativo si alza del ritmo impressionante di quasi 5 punti al mese. Nel caso italiano, il divario tra raccolta e impieghi ha assunto proporzioni tali, e si è manifestato in tempi tanto rapidi, da precedere la contrazione degli investimenti da parte delle imprese a fronte del rallentamento dell’economia reale, ed è dunque una deve vere e più concrete misure della restrizione di credito che il sistema bancario italiano pratica, per rafforzarsi patrimonialmente. Che tutto ciò venga trainato dalle obbligazioni bancarie spiazzando i fondi, è espressione della garanzia statale che in Italia i risparmiatori avvertono dietro banche che pure non hanno dovuto ricorrere a interventi pubblici in alcun modo paragonabili a quelli che hanno cambiato le coordinate bancarie e del mercato in Paesi come Usa, Uk, Germania, Francia e Paesi Bassi. E’ da rimarcare poi che una tale strategia assai aggressiva di funding avviene in concomitanza, dopo 5 mesi di braccio di ferro sui cosiddetti Tremonti bonds troppo onerosi, con l’emissione di obbligazioni potenzialmente costosissime per l’emittente come l’appena collocato strumento di Unicredit per oltre un miliardo di euro. A beneficio di chi l’ha acquistato – anche in questo caso spiazzando investimenti più necessari – ma non certo a conferma di un solido stato di salute della banca italiana che non avrebbe avuto bisogno di un aumento di capitale né di aiuti pubblici, malgrado già paghi solo l’11% di tax rate e approfittiper oltre un miliardo nel 2008 di sgravi fiscali da rettifiche degli avviamenti patrimoniali concesse dal “famigerato” Tremonti…

22
Apr
2009

Bundesbank-Bruxelles 1-0

Axel Weber mette in riga Neelie Kroes, la Commissione faccia il favore di non mettere il naso negli aiuti alle banche. E’ questo il bilancio del durissimo attacco lanciato dal presidente della Bundesbank con l’apertura del FT di oggi, al quale la Commissaria europea alla concorrenza ha reagito con dichiarazioni che apparentemente contengono una duplice ed energica strigliata di orecchi alla banca centrale germanica, accusata di non aver capito che cosa Bruxelles stia chiedendo alle banche cross border che hanno ricevuto aiuti di Stato, e in ogni caso invitata a tacere prima di aver riservatamente interloquito con la Commissione stessa (cosa veramente senza precedenti, negli annali dei rapporti tra Bruxelles e il SEBC). Ma, in sostanza, le parole della commissaria hanno totalmente accolto il merito del duro intervento a gamba tesa del banchiere centrale tedesco: politica e regolatori di Berlino possono stare tranquilli, la Commissione si guarderà bene dal richiedere impegni vincolanti a quegli istituti che, come Commerzbank, col suo 25% di quota pubblica e iniezioni di patrimonio per miliardi, si trovano in realtà ad esercitare unfair competition nei confronti di altri grandi istituti europei che, a seguito di una gestione più oculata, non hanno né quota pubblica né attinto a strumenti ibridi di capitale…
L’inusitato scambio di colpi sul ring testimonia almeno tre punti degni di riflessione. Il primo è che le “sospensioni da crisi” – chiamiamole così, in un accesso di generosità – al regime ordinario di concorrenza vengono rivendicate in maniera per la prima volta tanto impegnativo e ufficiale per il credito, dal Paese maggiore dell’euroarea, e non attraverso l’ingombrante voce della politica ma direttamente dal componente nazionale del Consiglio Bce. Una bella botta, a tutte le ortodossie in materia di vigilanza più stretta attribuite alla Bce.
Il secondo è che una uscita tanto eclatante del banchiere centrale tedesco, a ben vedere, dovrebbe rappresentare una sfida non solo alla Commissione europea ormai uscente e dagli artigli spuntati, bensì a quegli altri Paesi dell’euroarea nei quali il sistema del credito non si è dovuto avvalere di interventi pubblici così invasivi come nel caso tedesco. In altre parole: Italia, si parla di te.
Terza considerazione: l’attacco tedesco è tanto più serio, nel caso di istituti europei che operino sullo stesso mercato domestico del credito tedesco. Alias: Italia sei proprio in prima fila, a beccarti lo schiaffo.
Vedremo se qualche grande banchiere come Profumo ci farà sapere che cosa pensa, in proposito, o se la stampa italina domattina coglierà la vera importanza del match vinto ieri da Berlino per ko alla prima ripresa…

22
Apr
2009

I conti dei giornali: l’Ingegnere batte Rcs

L’assemblea del gruppo Espresso oggi a Roma non ha solo approvato il bilancio del 2008, ma anche annunciato tempestivamente l’andamento del primo trimestre 2009. Al contrario di Rcs, che ha preferito “opportunamente” limitarsi al preconsolidato dell’anno scorso, approvandolo qualche giorno prima della fine di marzo ed evitando così di dare al mercato gli andamenti aziendali “in tempo reale”. Il gruppo Repubblica-Espresso chiude il 2008 con un risultato netto di 20,6 milioni che registra un -78,4% sull’anno precedente, rispetto al meno 83% di Rcs passata da 220 mio a 38,3. Ma annunciando che il primo trimestre 2009 si chiude con un risultato negativo per 2,5 mio a fronte degli oltre 10 mio di utile nel 2008, e con un andamento del fatturato del -18% nel trimestre rispetto alla media di poco superiore al 6% nel 2008, il gruppo editoriale controllato dalla famiglia De Benedetti ha il merito di rompere per primo l’assordante coro di autoincensamenti editoriali all’ombra del quale si è appena conclusa la nomina dei “nuovi” direttori di Corriere e Sole 24ore. C’è da immaginare che d’ora in poi le cifre parleranno un linguaggio meno opaco. Ma a tempo debito, vedrete, il più tardi possibile… la colpa evidentemente è di chi non compra, mica di chi li fa, i giornali…

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21
Apr
2009

Zagrebelsky, il mito e la libertà

Può l’amore per la libertà far breccia a sinistra? Una risposta lapidaria è difficile. Ciò che tuttavia balza agli occhi dei più attenti osservatori è che negli ultimi quindici anni, in Italia, il vessillo del liberalismo è stato innalzato (solo) quando si è trattato di combattere il rivale politico per eccellenza, ossia Silvio Berlusconi. La concorrenza, il mercato, la libertà di espressione sono diventati degli strumenti di lotta partigiana e non qualcosa di intrinsecamente buono per cui valeva la pena battersi. Qualcosa insomma di cui appropriarsi temporaneamente, come clava da dare in testa all’avversario. In un’intervista concessa al Sole 24 Ore in occasione dell’inaugurazione di Biennale Democrazia, l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky mostra di inserirsi pienamente nel solco di questa strana tradizione intellettuale. Fa infatti davvero piacere sentirsi mettere in guardia dal rischio di una “società come palazzo di cristallo dove tutto è regolato perfettamente e che in vista dell’ordine abolisce la libertà“; e ancora, citando Montesquieu, dal fatto che “la paura è la molla che fa funzionare il dispotismo“. Clap, clap. Ma alla tanto bella quanto teorica dichiarazione di principio sui pericoli della società massificata, non fa poi seguito alcuna condanna del costruttivismo, della pianificazione economica e della ipertrofia legislativa. Anzi. Nel suo amore sviscerato per il mito della democrazia e della sua neutralità, Zagrebelsky ricorda ad esempio come “la tutela della sicurezza è per quintessenza il luogo dell’imparzialità” e ancora come “negli Stati ben strutturati, il Ministero dell’interno è il meno politico, il più oggettivo“. Le ronde e l’autodifesa si collocherebbero secondo Zagrebelsky “fuori da cinque secoli di cultura costituzionale“. Al di là del fatto che il professore sembra essersi perso per strada il secondo emendamento della Costituzione americana, ebbene al di là di questo, considerare come fumo negli occhi la possibilità che i cittadini sopperiscano alle inefficienze dello Stato, approntando strumenti di difesa volontaria di ciò che loro legittimamente spetta, significa non voler impedire che la politica usi proprio il tanto decantato Ministero dell’Interno per soggiogare e coartare le libertà del popolo; significa cadere proprio nel vortice dal quale Zagrebelsky intende salvarci; significa insomma permettere che l’uomo-massa deleghi in bianco allo Stato (Ortega y Gasset). Basterebbe avere a mente quante limitazioni alle nostre libertà sono state perpetrate negli scorsi anni dietro al paravento della lotta al terrorismo per accorgersi che l’imparzialità è e resterà un mito. “Quale Paese può conservare la propria libertà se ai suoi governanti non viene periodicamente rammentato che la popolazione conserva il proprio spirito di resistenza? Che il popolo si armi!”. Chi ha scritto queste righe non è né Calderoli né Borghezio, ma si chiamava Thomas Jefferson, lo stesso ad avvertire- parecchi secoli prima di Zagrebelsky- che “il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza“. D’altra parte, anche nella deliziosa citazione di Dostoevskij (“Non c’è per l’uomo preoccupazione più ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare al più presto quel dono della libertà, con il quale quest’essere infelice viene al mondo“) non v’è alcun intento di demitizzazione della sovranità o delle istituzioni politiche, né alcuna denuncia dei pericoli che la democrazia in sé e per sé considerata comporta. A Zagrebelsky sfugge quello che è il nodo fondamentale della questione, ovvero quello- per dirla con Bruno Leoni- “dello Stato concepito come realtà sopranuotante agli individui; più buona, più giusta, più potente degli individui, a cui dovrebbe tendere la mano per renderli migliori”. Una volta dato per scontato che la Costituzione e la legge positiva sono frutto della volontà generale, che lo Stato nasce da un fantomatico contratto sociale e che la norma fondamentale kelseniana è un assioma imprescindibile, si rimuove il problema- a mio avviso fondamentale- della natura irrazionale e religiosa del potere o, per così dire, della nascita del diritto moderno “intorno ad un totem“. Che la democrazia possa tralignare nella dittatura della maggioranza lo sanno ormai anche le pietre. Certo, ricordarlo non fa mai male. Ma in momenti come questi occorrerebbe piuttosto non smettere di interrogarsi sulle ragioni intime della nascita dello Stato, sui motivi della costante espansione dei poteri pubblici e sulle perversioni della rappresentanza politica nella società democratica. Che Biennale Democrazia sappia far questo ne dubitiamo fortemente. Non foss’altro che per l'”educativo” incontro sulle “bellissime tasse” propinato ad innocenti bambini delle elementari. Il mito continua.

21
Apr
2009

Iride. Il paradosso della contendibilità incontendibile

La tensione tra il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, e quello di Genova, Marta Vincenzi, sul controllo pubblico di “Irenia” – il gruppo che dovrebbe nascere dalla fusione di Iride ed Enìa – ha ormai ampiamente superato i livelli di guardia, nonostante qualche cauto tentativo di ricucire. Ieri, sulla Stampa Luca Fornovo e Beppe Minello hanno accreditato le indiscrezioni diffuse da Quotidiano Energia, secondo cui la Mole sarebbe pronta a rompere l’alleanza con la Lanterna. Oggetto del contendere, la clausola sul mantenimento del 51 per cento della nuova compagnia in mani pubbliche, che Vincenzi vuole nello statuto, mentre secondo Chiamparino è garantita a sufficienza dai patti parasociali e che, nel lungo termine, rischia di essere più un ostacolo che un elemento di vantaggio. L’esito della vicenda dipende essenzialmente da due variabili: una di natura politica (Vincenzi avrebbe ceduto al diktat di Rifondazione e Italia dei Valori, ma lo stesso Chiamparino avrebbe problemi con l’ala sinistra della sua maggioranza), l’altra strategica. Infatti, per rompere il primo cittadino torinese deve anzitutto ottenere una revisione dello statuto di Fsu (la joint venture paritaria dei due comuni che ha il 58 per cento di Iride e avrà il 36 per cento di Irenia), e poi tessere un rapporto con gli enti locali emiliani azionisti di Enìa, che avranno il 23,6 per cento di Irenia. Se entrambi questi tasselli fossero sistemati, la manovra di Vincenzi finirebbe per ritorcersi contro di lei, e sarebbe una dimostrazione di grande dilettantismo, come ho sostenuto sul Secolo XIX. All’attacco di Chiamparino, Vincenzi replica oggi con un’intervista a Gilda Ferrari del Secolo XIX e alcune dichiarazioni alla Stampa (PDF) e al Sole 24 Ore, da cui traspare la debolezza del suo gioco. Da un lato, infatti, dice che la pretesa che il 51 per cento del gruppo resti pubblico “non toglie nulla alla contendibilità” – dichiarazione assurda, perché se lo statuto impone che il pacchetto di maggioranza dell’azienda sia posseduto da attori pubblici, non c’è spazio alcuno per un mutamento dei rapporti di forza che non passi per le stanze della politica. Dall’altro, ribadisce che la questione della contendibilità riguarda solo il servizio, che “dovrà essere messo a gara”, mentre è per lei essenziale che le reti “dovranno rigorosamente restare in mano pubblica”. Questa è un’affermazione surreale non solo perché è discutibile che la proprietà pubblica delle reti sia un elemento di garanzia e non di immobilismo, ma anche e soprattutto perché la pubblicità delle reti è un obbligo di legge imposto a chiare lettere dal disegno di legge 112 del 2008, art. 23 bis, comma 5, che fa piazza pulita dei (remoti) dubbi in merito lasciati dalla normativa precedente (me ne sono occupato con Federico Testa in questo articolo sul Sole 24 Ore e, più ampiamente, sulla rivista Management delle Utilities). Vincenzi sostiene, correttamente, che le nuove disposizioni entreranno in vigore solo allo scadere delle concessioni vigenti, che avverrà nel prossimo paio di anni, ma sarebbe ridicolo pensare che un attore privato potesse subentrare (anche ammesso che gli attuali proprietari delle reti, che nel caso di Iride ed Enìa sono a controllo pubblico e lo saranno per un po’ a prescindere dall’introduzione della clausola nello statuto) sapendo che non farebbe neppure in tempo a concludere il deal, che dovrebbe immediatamente cedere le reti agli enti locali interessati. E, in ogni caso, se si tratta di un problema di gestione della transizione, non si capisce perché i patti parasociali, che in merito sono ahimé chiarissimi, non possano bastare. La posizione della Vincenzi è, dunque, fragile e incomprensibile, ma soprattutto rischia di pregiudicare una futuribile evoluzione nella direzione della concorrenza e del mercato, cristalizzando gli assetti proprietari e trasformando sempre più queste operazioni di fusione, teoricamente necessarie a conseguire delle efficienze e delle sinergie, in semplici e inutili (ai fini industriali) operazioni di somma. Cioè: cambiare tutto perché ciascun ente locale mantenga il controllo diretto sui pezzetti di suo interesse.