17
Giu
2009

Fanno le buche e neppure le riempiono

Tutte le volte che qualcuno parla delle opere pubbliche come panacea contro la crisi – questa o qualunque altra crisi futura – fategli leggere questa inchiesta di Enrico Mannucci per Magazine. Nulla di stupefacente, per carità, ma a volte fa bene ed è utile leggere nero su bianco, e guardare fotografato a colori e stampato su carta patinata, dove portano e a cosa servono gli investimenti pubblici. La risposta più vera e più banale è: gli investimenti pubblici servono a, e ottengono l’unico effetto di, foraggiare le consorterie che di volta in volta sono gli interlocutori primari del potente di turno. Altro che moltiplicatore keynesiano: qui il moltiplicatore non può che essere negativo, perché questo genere di opere, costituzionalmente destinate a fallire, non possono avere alcun ruolo di volano di sviluppo, non sbottigliano alcuna congestione, non aprono alcuna strada a merci in attesa di sfogo. Queste opere sono semplicemente e unicamente il risultato dell’operazione aritmetica per cui A sottrae risorse dalle tasche di B per investirle in C, un investimento che necessariamente è improduttivo perché altrimenti non avrebbe bisogno di essere indotto in questa maniera. Per uscire dalla crisi, e per depotenziare crisi future, non bisogna inoculare al paese lo stesso virus che lo ammorba da troppi decenni: bisogna rimuovere i vincoli, restituire libertà economica e disintermediare i rapporti economici.

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3 Responses

  1. baron litron

    a mio modestissimo avviso, l’unica opera pubblica che potrebbe “rendere” in Italia sono le ferrovie: siamo l’unico paese al mondo che dopo la guerra ha fatto poco o niente sulla rete ferroviaria(insieme al Laos, ma lì hanno fatto che smantellare direttamente), e si vede.
    intendiamoci, però: le ferrovie andrebbero rifatte seriamente, molto seriamente: si prenda la rete inglese, o meglio ancora quella giapponese (territorio, oltretutto, orograficamente piuttosto simile all’Italia), e ci si metta di buzzo buono, con l’obiettivo di farne la vera ossatura del trasporto di uomini e merci. ci sarà da lavorare per qualche anno, ma i ritorni in termini di interesse nazionale (che è ben diverso – soprattutto qui – dall’interesse dello stato) sarebbero davvero inestimabili.
    e soprattutto (ma so di cadere nell’utopia più estrema, NON lo si faccia all’italiana, o meglio, non lo si faccia come s’è fatto dagli anni ’30 in poi…..

  2. Carlo Stagnaro

    Sono abbastanza d’accordo, anche se penso che un importante contributo all’adeguamento infrastrutturale del paese potrebbe arrivare – e in parte lo sta già facendo – dall’adeguamento della rete stradale e autostradale. Prioritario sarebbe, almeno nelle maggiori città, rafforzare le arterie urbane. Per evitare, però, i problemi che tu indichi, e che sono reali, bisogna sottrarre l’aggettivo, cioè queste “opere” devono cessare di essere “pubbliche”: non dovrebbe essere lo Stato a dire cosa va fatto, quando e con che soldi; dovrebbe essere il mercato a farlo, e dal mercato dovrebbero essere raccolte le liquidità necessarie e da lì dovrebbe arrivare la remunerazione del capitale investito, sul modello autostradale (magari in presenza di una regolazione efficace e di un contesto affidabile). Ma, mi rendo conto, in Italia siamo due passi oltre l’utopia.

  3. Domenico

    Non capisco perchè il moltiplicatore keynesiano non dovrebbe funzionare. Il denaro, a meno che non venga distrutto, anche quando viene “sprecato” finisce nelle tasche di qualcuno che lo spenderà e a sua volta farà spendere. E’ chiaramente un meccanismo che funziona nel breve periodo perchè alla lunga se il capitale non viene ricostituito e incrementato la spesa non sarà più nè sostenibile tanto meno incrementabile. Sono convinto che sprechi ed inefficienze che sempre accompagnano le opere pubbliche, ancorché utili, abbiano motivazioni politiche piuttosto che economiche e che non vi sia nessun interesse nel cambiare le cose da parte di chi avrebbe il potere di cambiarle.

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