11
Nov
2020

Proposte “antifragili” in tema di lavoro

Il libro di Pietro “L’intelligenza del lavoro” (Rizzoli, 2020) raccoglie esperienze e proposte in tema di lavoro che hanno il tratto comune dell’”antifragilità”. Se per antifragilità intendiamo la capacità di cambiare e migliorare a fronte di shock esterni, non allo scopo di proteggersi, bensì di adattarsi: l’antifragilità che abbraccia l’imprevisto, l’incertezza, ed è in grado di assumerne positivamente il rischio. E’ proprio in chiave antifragile che Pietro Ichino cerca di immaginare il mondo del lavoro in risposta ai teorizzatori della “fine del lavoro” (oltre che della “fine del mondo”). Perché, per molti aspetti, egli stesso è un esempio di giurista e di politico antifragile.

Lo era nelle speranze del giovane legale nella CGIL degli anni ’70 che invitava gli operai a non subire i bilanci ed i numeri aziendali ma a conoscerli, capirli ed utilizzarli a proprio vantaggio, con la mente aperta verso il modello di mitbestimmung tedesco; lontano anni luce dai “duri e puri” della lotta di classe, dello scontro, della massima tensione e, purtroppo, del sangue per le strade, da quella parte di sindacato che fino agli anni ‘80 ha pubblicamente individuato, come proprio obiettivo primario, quello di uscire dal sistema capitalistico. L’autore, sin dalla pubblicazione, nel 1975, dei due volumi “Diritto del lavoro per i lavoratori” è sempre stato autenticamente dalla parte di questi ultimi: quei milioni di lavoratori italiani antifragili che in questi anni da soli, nel caos del quotidiano, con la fatica dei conti da far quadrare, delle famiglie da tenere in piedi, hanno continuato a re-inventarsi. L’intelligenza del lavoro è l’intelligenza dei singoli lavoratori che, a dispetto di tutto e di tutti, hanno resistito e si sono adattati, visto che, comunque e nonostante tutto, negli ultimi 40 anni, dal 1977 al 2017, non è stata impedita una crescita occupazionale del 18%.

Lo è per aver costantemente sostenuto il mercato contro i monopoli statali. È, infatti, del 1982 il lavoro “ Il collocamento impossibile” contro il monopolio statale del collocamento che ha provocato distorsioni talmente numerose e gravi di cui patiamo gli effetti e paghiamo il caro prezzo anche ai nostri giorni: basti pensare alla totale inefficienza dei centri per l’impiego che, in media, favoriscono l’incontro di solo il 3% della domanda e dell’offerta di lavoro nel nostro paese, un’ inconcludenza accettata anche dai sindacati, senza batter ciglio.

Per questo Ichino immagina un mercato del lavoro nel quale operi un sindacato nuovo. Perché per l’autore del libro “A cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino” (Mondadori, 2005) il sindacato può ancora servire. Ma il sindacato che denomina omega, un sindacato che sappia costituire un’effettiva rete di conoscenze, di competenze, di informazioni e di servizi per i lavoratori, con lo sguardo volto alle esperienze dei “One stop shop” dei paesi nord europei. Il nuovo sindacato omega, a differenza del sindacato alfa, dialoga con l’imprenditore; l’attività proficua delle relazioni industriali potrà riportare, così, al centro del sistema, il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, perché lavoratore e datore di lavoro rischiano insieme, concorrono, insieme, nell’interesse oggettivo dell’impresa: nozione, quest’ultima, sempre rinnegata e rifiutata dal conservatore sindacato alfa che oggi in Italia rappresenta ancora il modello predominante.

L’autore manifesta, inoltre, la sua “antifragilità” anche nell’aver sempre osteggiato l’intervento dello Stato, a favore della libertà di impresa, perché “lo Stato non è un imprenditore” e nel libro stigmatizza un episodio significativo ed emblematico . Il 16 ottobre 2019 il quotidiano Repubblica, commentando la chiusura dello stabilimento Whirlpool, titolava: “Come si uccide una fabbrica” ed il Presidente del consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, in un’intervista al Sole24Ore dichiarava: ”Faremo il possibile per assicurare un futuro a quei 412 posti di lavoro”. Intendeva, forse, indirizzarli, per richiamare un dato importante citato nel volume, a ricoprire una parte del milione e passa di skill shortage? Cioè di giacimenti occupazionali inutilizzati? Certo che no.

Ma le parole pesano. Cercare lettori attraverso titoli sensazionalistici e barricadieri e consenso politico attraverso vuote e paternalistiche rassicurazioni stataliste è molto facile, tanto quanto, di conseguenza, alimentare, fino a promuovere, una cultura anti-impresa, anti-mercato ed anti-capitalista.

Questo modo di raccontare la realtà e di interpretare il ruolo della politica ha dominato non solo in Italia.

Pensiamo al più potente spot elettorale della campagna del candidato democratico alla Presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama, nel 2012, quello che, secondo gli analisti più autorevoli, ha fortemente concorso, a livello mediatico, a decretarne la vittoria . Si tratta del racconto di un operaio, Mike Earnest, che lavorava da trent’anni in una cartiera di Marion, nell’Indiana, ed al quale, un bel giorno, i capi hanno chiesto di montare un palco; lui, certo, non sapeva che su quel palco sarebbero saliti proprio i suoi capi per dire a lui ed a tutti i dipendenti che sarebbero stati licenziati. E che la società che aveva anni prima comprato l’azienda e che oggi la rivendeva, operai compresi, era la Bain Company di Mitt Romney, proprio colui che contendeva ad Obama la presidenza. Chi può dire se all’America sarebbe servito proprio un business leader come Mitt Romney, responsabile, di fatto, di un’operazione economico-finanziaria all’ordine del giorno prima, durante e dopo quella campagna elettorale. Certo quell’attacco frontale fu decisivo. Obama e il suo staff sapevano benissimo di cavalcare l’onda del predominante sentimento anti-business, e strizzare l’occhio ai movimenti ”Occupy” è stato assai facile.

In questo stesso modo, in Italia, che non è esattamente la terra della libertà e delle opportunità, abbiamo inibito la crescita di nuovi imprenditori che entrassero in concorrenza tra di loro ed abbiamo impedito ad imprenditori stranieri di investire e venire a fare impresa: ma questa è la pre-condizione necessaria perché i lavoratori stessi possano ingaggiare il proprio datore di lavoro, possano “scegliersi l’imprenditore”, come recita il sottotitolo del libro e come auspicato da Ichino.

Se, citando l’autore, in tema di diritto del lavoro, “La legge dello Stato ha assunto caratteri di astrusità, di intrusività e, al tempo stesso, di mutevolezza molto preoccupanti” è arrivato davvero il momento di ritornare alla libertà contrattuale, di favorire davvero la contrattazione aziendale, di prossimità, la concorrenza tra organizzazioni dei lavoratori e datoriali. E’ davvero meglio “che cento fiori fioriscano in questo campo” e l’ordinamento statale si limiti a liberare gli spazi per la sperimentazione di modelli diversi di contrattazione e di rappresentanza , che fino ad oggi ci sono parsi improbabili, che certo saranno più rischiosi, ma sicuramente sono più “antifragili”.

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