5
Set
2009

Disoccupazione, che fare?

Negli Stati Uniti ferve un dibattito che da noi è molto più in sordina, quello della ripresa senza occupazione. Per esempio stamane era il titolo di due diversi editoriali, del New York Times e del Wall Street Journal. Certo, negli Stati Uniti il dibattito è potentemente aiutato dal fatto che le rilevazioni statistiche sono più frequenti e meglio impostate tecnicamente. Di settimana in settimana viene per esempio aggiornato il numero delle prime richieste di trattamento di disoccupazione, che dalla prima settimana di luglio a oggi è rimasto drammaticamente ancorato intorno a circa 570mila nuove unità. Da noi, simili rilevazioni e tanto frequenti non esistono. Idem dicasi per i diversi aggregati attraverso i quali misurare la disoccupazione per componente – il 9,7% di disoccupati USA in agosto corrispondono al 13% per gli ispanici, al 15% per gli afroamericani, al 25,5% per la componente sotto i 20 anni; ai 26 milioni di americani oggi che non riescono a trovare un lavoro full time bisogna aggiungere un altro 7% di scoraggiati a cercarlo, cioè altri 17 milioni.  Ma non è solo per l’inadeguata monitorazione statistica che qui in Italia il dibattito stenta a decollare. Perché bisognerebbe avere il fegato di dire alcune amare verità. Del tipo: una verticale impennata della disoccupazione potrebbe essere l’altra faccia della medaglia per imprese che, nella crisi, ristrutturino con decisione i propri prodotti e i propri processi, mettendosi prima e meglio nelle condizioni di potersi meglio riposizionare al ripartire della domanda (nel caso italiano, soprattutto di quella estera, perché è nelle manifatturiere esportatrici che si concentra la crisi double digit di fatturato e ordinativi). Al contrario, difendere a tutti i costi la base occupazionale precrisi può essere anche foriero di minori tensioni sociali, ma significa anche che non attuano ristrutturazioni: la produttività resta inchiodata oggi e per il domani. Ancora più grave, in un paese come il nostro che negli ultimi anni, grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro dalla legge Treu in avanti, ha scelto di estendere la base degli occupati quasi sempre a scapito della produttività.   Read More

5
Set
2009

Rottamare la Große Koalition

Come peraltro ampiamente previsto, lunedì scorso il governo tedesco ha chiuso il rubinetto degli incentivi alla rottamazione. Il bilancio, tra l’euforico e il severo, l’ha fatto il settimanale Der Spiegel qualche settimana fa, dedicando la propria copertina e il suo speciale proprio al cosiddetto Abwrackprämie. Cinque i miliardi spesi, quasi due milioni le auto rottamate. Un modo come un altro per dimostrare agli elettori che il governo tedesco si muoveva con decisione per porre un freno alla crisi– e allargare il buco nel bilancio… L’effetto è stato quello di drogare ancora un po’ il mercato dell’auto, che non soffriva certo di una crisi congiunturale, ma di un chiaro problema di sovraccapacità (si veda Opel e la tassa occulta che grava su tutti i contribuenti tedeschi per farla rimanere in vita). Ora che i sussidi sono finiti e la possibilità di mandare i lavoratori in Kurzarbeit -la cosiddetta “settimana corta”- è prossima alla scadenza, la Germania si ritroverà con i medesimi problemi che tali misure puramente elettorali hanno solo ritardato. Read More

4
Set
2009

Greenspan dei nostri? Macché. Consigli a Giulio

Greenspan era un libertarian e dunque la colpa della crisi è da addossare a quella scuola? L’argomento propalato dai liberal ha un’ottima e secca risposta da parte di Alex Pollock dell’American Enterprise Institute. È proprio come dice lui: se fosse stato un libertarian, Greenspan avrebbe abolito il monopolio della moneta e del suo prezzo relativo, e lo avrebbe sostituito con un meccanismo di libera contrattazione esattamente come si fa con il prezzo delle patate. Le élite e la gente comune la pensano però in maniera sempre più distante, mano mano che la crisi avanza, sui banchieri centrali. Ed è un fatto molto interessante, se solo i politici capissero davvero che cosa c’è alla base di questo fenomeno, e non preferissero invece utilizzarlo per critiche ai banchieri centrali magari solo un po’ demagogiche, come avviene da noi.  Read More

4
Set
2009

Ripresa, commercio, G20: il BDI continua a scendere

Come vedete, il Baltic Dry Index, che misura i noli per le navi Capesize destinate alle rinfuse solide, continua a scendere. Da aprile -maggio, quando la sua ripresa aveva fatto gridare alla ripresa del commercio mondiale, è risceso di circa il 45%. Per quanto si possa immaginare a fattori di correzione dovuti alla congestione dei porti asiatici – gli unici ad andare se non a pieno regime, quasi – non è proprio un segnale incoraggiante. È anche guardando a questi dati, che al G20 londinese odierno prevale la tesi che sia presto per l’exit strategy dalle politiche pubbliche di sostegno all’economia. Di sicuro ne beneficeranno i mercati finanziari, anche se non penso proprio che la bolla in corso faccia un gran bene.

4
Set
2009

Paolo e Giulio 2

All’ultimo post di Carlo Stagnaro sull’ENI splitting hypothesis, aggiungo solo alcune considerazioni. No, Giulio Tremonti non è insolitamente silenzioso, di fronte alla tesi avanzata giorni fa dalla Lex Column. A onor del vero, bisogna rendere giustizia in questo al ministro dell’Economia: non parla praticamente mai di società quotate, è una regola tassativa che cerca di seguire praticamente sempre, tanto è vero che rifugge anche dalle audizioni parlamentari  in cui si affrontano temi collegati ad aziende, e solo quando i giornalisti lo hanno incalzato energicamente si è di quando in quando fatto sfuggire qualcosa di per altro totalmente generico, ad esempio a proposito della vicenda Fiat.   Read More

4
Set
2009

Paolo e Giulio

Il fondo americano Knight-Vinke, che aveva osato ipotizzare il break up dell’Eni, e il Financial Times, che ne aveva rilanciato le tesi, non trovano sponde in Italia. Il fondo controlla circa l’1 per cento di Piazzale Mattei, e ha posizioni anche in Enel (di cui aveva sostenuto, tra i pochissimi, la mai lanciata opa sulla francese Suez) e in Snam Rete Gas (a sua volta in pancia al Cane a sei zampe per il 51 per cento). La reazione di Paolo (Scaroni) era prevedibile. Quella di Giulio (Tremonti) meno. Vediamo perché.

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4
Set
2009

A Right to Schooling, But Not to Education

Per anni James Tooley ci ha spiegato come in India la presenza di una vasta rete di scuole autenticamente private e sostenute dalle famiglie, spesso accessibili pagando rette modeste, abbia dato un contributo rilevante allo sviluppo del sistema educativo in quella società. (Queste tesi vengono esposte da Tooley anche nel capitolo di un volume antologico prossimamente pubblicato da IBL Libri, La città volontaria.)

Come illustra però un ricercatore del Cato Institute, Swaminathan S. Anklesaria Aiyar, in un articolo intitolato A Right to Schooling, But Not to Education apparso sul South China Morning Post, tutto questo potrebbe finire. Una nuova legge ha virato in direzione statalista l’intero sistema scolastico indiano, obbligando tra l’altro gli istituti privati a riservare un quarto dei posti disponibili a bambini poveri e provenienti dalle caste inferiori.

Il socialismo fa danni ovunque, e più o meno utilizzando le stesse ricette, ma quando questo avviene entro realtà che includono un gran numero di poveri e dove quindi c’è ancor più bisogno di libertà, responsabilità e concorrenza, le conseguenze sono destinate ad essere catastrofiche.

4
Set
2009

L’ultima di Krugman, una boiata pazzesca

Vale la pena della lettura, il saggetto di Paul Krugman sul New York Times Magazine. È una sintesi paradigmatica delle più clamorose forzature e scemenze alle quali possa spingersi la caricaturale volgarizzazione della scuola in cui ci riconosciamo, da queste parti. Poiché gli era capitato di affermare che la scuola di Chicago ormai era roba da Medioevo oscurantista, l’amara marcia indietro rispetto a tante conquiste del pensiero amaramente ottenute, finalmente Krugman si sente in dovere di spiegare per esteso la sua verità. Paradossalmente ma non troppo,  è un’articolessa che parte da toni e domande pressoché tremontiani, chiedendosi come mai l’economia si sia ridotta al nulla capire se non ex post. Lo sviluppo della sua tesi purtroppo avviene con toni e concatenazioni tali da piacere con facilità al lettore sprovveduto. Come sempre capita, la letteratura satirica si legge meglio e più di gusto di quella seria. Eppure anche Krugman, alla fin fine, deve ammettere che i neokeynesiani non ci hanno capito un’acca. Read More