22
Mar
2019

La nuova Via della Seta, dalla Cina alla Sicilia?

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Bindi e Tim Wörner 

Alte sono le aspettative per la visita del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping nel capoluogo siciliano. È da un paio di anni, ormai, che si parla del mega progetto presentato dall’Istituto Eurispes che prevede la realizzazione di un porto hub da cinque miliardi di euro (più del 5% del Pil regionale) a Palermo. Esso permetterebbe, secondo l’analisi dell’Istituto, l’arrivo e il trasbordo di 16 milioni di container ogni anno. Di conseguenza, il porto della capitale siciliana diventerebbe non solo uno snodo strategico per lo scambio libero nel Mediterraneo, dove transita quasi il 20% del traffico marittimo mondiale, ma anche uno dei più grandi porti d’Europa. Secondo la stima dell’Istituto, il mega progetto potrebbe essere una possibilità per realizzare 465.000 nuovi posti di lavoro, un’occasione per affrontare la crisi della disoccupazione regionale. Inoltre, potrebbe essere anche un impulso per altri investimenti da parte di gruppi privati.

Le critiche però sono tante, anche se finora si tratta soltanto di speculazioni e speranze. Innanzitutto, bisogna capire chi ci sia dietro quei possibili investimenti. Anche se sono capitali privati, vengono coordinati direttamente dallo Stato cinese, per cui si tratterebbe di un progetto di importanza geopolitica, che farebbe parte della cosiddetta “nuova Via della Seta”. Di seguito la Sicilia sarebbe direttamente coinvolta nell’iniziativa globale dei cinesi che prevede il miglioramento del collegamento commerciale con l’Europa, Africa ed Asia e che coinvolge più di 60 paesi in tutto il mondo. Qui si risiede uno dei maggiori problemi e punti critici del progetto stesso: il denaro assicura al regime di Pechino non solo nuove prospettive commerciali, ma anche influenza politica, soprattutto in Africa. Un fatto considerato in modo molto critico sia dall’Unione Europa che dalla Casa Bianca.

Qual è però il vero vantaggio intrinseco di un’operazione del genere, al netto delle analisi geopolitiche? Il fatto che i capitali coinvolti siano privati. Inseriti all’interno di un progetto più grande, certamente, dove una qualche forma di coordinamento governativo (cinese) c’è. Ma pur sempre privati. Infatti, a differenza dello Stato, un privato non può permettersi di buttare soldi sul tavolo con leggerezza. Non ha i contribuenti da spremere, se le cose dovessero andare male. Deve valutare con attenzione la convenienza economica e la profittabilità futura di ogni progetto che si accinge a intraprendere. Deve studiare con attenzione il contesto sociale e culturale in cui un progetto importante come un porto si cala.

Tutto questo è mancato drammaticamente dal dopoguerra a oggi, quando l’unica soluzione adottata per lo sviluppo economico del Mezzogiorno sono stati i finanziamenti a pioggia e gli investimenti scriteriati, per realizzare un’industrializzazione forzata che oggi continua a portare problemi, economici ed ambientali (vedi Ilva). Qualcuno potrebbe dire che è stato un problema di efficienza della pubblica amministrazione, che se gli investimenti fossero stati realizzati seguendo sani criteri di economicità ora il Meridione prospererebbe. Ma lo Stato, per sua intima natura, può davvero essere efficiente?

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