25
Feb
2021

Il panpenalismo applicato ai rider

Quando ho letto il comunicato della Procura di Milano riguardante l’indagine condotta sul corretto inquadramento dei rider mi sono ricordato – e ne consiglio la lettura – di un lepidus libellus di Filippo Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, edito da Il Mulino nel 2019. Già il titolo è eloquente, ma nelle 88 pagine del libellus, Sgubbi, ex docente di diritto penale e autore di pubblicazioni fondamentali nella materia, mette in evidenza la trasformazione intervenuta nel diritto e nella procedura penale, tanto da alterare le funzioni che non solo la Costituzione, ma prima ancora gli ordinamenti liberali, ripartiscono tra i diversi poteri dello Stato.

Il diritto penale, sostiene l’autore, è divenuto totale “perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua”. Totale “perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale”.

Tanto che le norme sulla sospensione della prescrizione (che cosa farà Marta Cartabia?) somigliano al sistema punitivo degli antichi Tribunali episcopali, “i quali disponevano del potere di irrogare penitenze che potevano durare fino alla morte del trasgressore”’. E ancora, totale “soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male”.

Ne deriva che nelle indagini e nei processi penali le prove non si limitano ad applicare il sillogismo classico dell’illiceità, confrontando il comportamento specifico dell’imputato con la norma di carattere generale, ma la ricerca verte (è la montagna a recarsi da Maometto) anche sull’esistenza o meno della illiceità ovvero di una norma che sanzioni quel comportamento.

E’ il caso di incriminazioni non di origine legislativa ma giurisprudenziale, tra le quali spicca il c.d. concorso esterno nei reati associativi “ove l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza – e quindi ex post – se la propria condotta rientra o meno in tale figura”. La giurisprudenza – che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto – è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo.

“L’apparato penale – spiega Sgubbi – costruito per definire l’area dell’illecito e per legittimare l’applicazione delle sanzioni, diventa il supporto per l’adozione di scelte decisionali di governo economico-sociali”. La “distorsione istituzionale” viene così spiegata: “la decisione giurisprudenziale diventa – secondo l’autore – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente”.

“La magistratura – prosegue Sgubbi – entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari”.

A rileggere oggi queste considerazioni si direbbe che il giurista avesse a disposizione una “macchina del tempo” che gli aveva consentito di spingersi, nel momento in cui scriveva il saggio, fino al 24 febbraio dell’anno in corso dove ha ricevuto un’ulteriore una conferma delle sue tesi. Per di più con una novità: una procura penale non solo si intromette in una vicenda di lavoro (regolata dal diritto privato) e arriva persino ad una conclusione che anticipa la sentenza di un giudice:

È emerso infatti in maniera in equivoca che il rider non è affatto un lavoratore occasionale, che svolge una prestazione in autonomia ed a titolo accessorio. Al contrario, è a pieno titolo inserito nell’organizzazione d’impresa operando all’interno del ciclo produttivo del committente che coordina la sua attività lavorativa a distanza, attraverso un’applicazione digitale preinstallata su smartphone o tablet.

Un tempo le organizzazioni dei lavoratori venivano accusate di propensioni pansindacaliste. Oggi questa deviazione ha ceduto il passo al pangiustizialismo di procure che non rispondono a nessuno e pretendono di avere l’ultima parola anche al posto dei giudici di merito. E il sindacato plaude: “Una bella notizia per la ‘coesione’ del nostro Paese, quella che arriva dall’esito dell’indagine della Procura di Milano”, ha affermato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. “Le persone che di lavoro fanno i rider – sottolinea il numero uno della Cgil – devono essere assunte e avere tutte le tutele contrattuali e di sicurezza che derivano dall’applicazione di un vero contratto nazionale di lavoro”.

“Del resto – ha aggiunto Landini – questi sono i nostri principi costituzionali: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e non sullo sfruttamento”. “Pertanto – conclude il segretario generale della Cgil – chiediamo che si riattivino i tavoli di confronto con le imprese e la loro associazione presso il ministero del Lavoro. Non c’è più tempo da perdere”.

Ovviamente, la mia è un’obiezione che sospende ogni giudizio di merito, in attesa che la giurisprudenza pervenga ad una interpretazione uniforme e consolidata oppure intervengano quelle “tre parole del legislatore che mandano al macero intere biblioteche”. E’ comunque ragionevole affrontare con la dovuta correttezza un settore del mercato del lavoro che non solo presenta caratteristiche proprie e diverse, ma che custodisce al proprio interno interessi differenti difficilmente riconducibili ad una fattispecie omogenea.

Peraltro la dottrina e la giurisprudenza hanno ormai assodato che la natura subordinata, parasubordinata o autonoma di un rapporto di lavoro non è riconducibile alle demarcazioni nette contenute nelle norme del codice civile, ma va ricercata nell’esame specifico dei casi concreti, poiché la medesima opus può essere svolta nell’ambito di rapporti di lavoro riconducibili ad ognuna delle grandi ripartizioni sopra richiamate.

Quanto allo sfruttamento rimando ad un’intervista (di alcuni anni fa) a firma di Nunzia Penelope, su Il diario del Lavoro, a Nicolò Montesi, un rappresentante di una associazione di rider. “Quello che vorremmo far capire – diceva – è che noi non siamo sfruttati: il contratto che abbiamo firmato è molto chiaro, nessuno ci ha obbligato, e le condizioni che abbiamo accettato ci stanno bene”.

E quanto lavora e guadagna Nicolò? Chiedeva Penelope: “mediamente dieci ore al giorno, sei giorni su sette. E porto a casa mediamente 2.500 euro lordi al mese. In certi periodi di picco si può lavorare anche di più”, fino a 3.500 euro.

Il rider aveva le idee chiare anche sul futuro prossimo: “Senta, io ho 22 anni, guadagno bene, tra poco andrò a vivere con la mia fidanzata, che ancora studia. Con duemila euro al mese possiamo vivere dignitosamente. Ma non siamo tutti giovani: c’è per esempio una signora di 55 anni, separata e con due figli a carico, che grazie a questo lavoro riesce ad andare avanti, altrimenti mi dice lei chi l’assumerebbe alla sua età?”.

“Lei mi chiede – affermava Montesi rivolgendosi a Penelope – quali ‘prospettive di carriera’. Non so cosa intende. Io guardo a oggi. Non so se ci sono prospettive di ‘crescita’. So che un nostro collega ha chiesto all’azienda di passare al lavoro di ufficio, e infatti ora lavora lì. A me ora va benissimo come sto e quello che faccio”.

Premesso, dunque, che quanti lavorano nella gig economy abbiano il diritto di fruire di adeguate tutele (le quali, tuttavia, non possono consistere nella solita reductio ad unum del lavoro subordinato) il pensiero, a questo punto, si rivolge al saggio di Alessandro Barbano, Troppi diritti (Mondadori 2018).

Barbano sosteneva che vi sia in Italia una vera e propria ideologia del dirittismo, con radici intellettuali e politiche orientate a sinistra ma capace di infiltrarsi anche nelle altre culture politiche. La subcultura del dirittismo è alla base del “rifiuto” di certi lavori considerati esempi moderni di sfruttamento. Per non parlare dell’invidia sociale – anch’essa imbevuta di dirittismo – che è divenuta la protagonista del vivere civile e dei rapporti tra le persone e che induce a considerare un “privilegiato” a spese degli altri chi è riuscito a guadagnarsi un “posto al sole”.

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