4
Ago
2023

L’imprenditorialità negata: nebbie e inganni dell’ideologia. Parte 5

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo De Filippis.

La vera posta in gioco: la funzione imprenditoriale

In relazione ai cambiamenti sopraggiunti, la critica della retorica sul “lavoro precario” risulta pienamente confermata. A maggior ragione in quanto la destabilizzazione dei rapporti sociali, la connessa diffusione di forme di lavoro atipiche, nonché la proliferazione di bullshit job (lavori del cavolo, inutili e privi di senso) o di aree di vero e proprio supersfruttamento sono non solo e non tanto fenomeni spontanei ma anche e soprattutto conseguenza delle scelte (in materia di finanziarizzazione forzosa dei rapporti sociali, in primis) delle forze politiche che hanno quasi ininterrottamente governato (con il beneplacito delle organizzazioni sindacali) e ora si dolgono di ciò che hanno contribuito a determinare.

Cionondimeno, questa retorica viene rilanciata e rafforzata, con riguardo speciale al tema del pagamento delle imposte.

Il segretario generale del principale sindacato italiano, Maurizio Landini, dichiara ripetutamente e in ogni sede di essere stanco di vedere che i lavoratori dipendenti sono gli unici contribuenti cha pagano regolarmente il dovuto. Autorevoli opinionisti (Ferruccio De Bortoli, Milena Gabanelli, tra gli altri) lo affiancano su questa strada. Perché? Il dato reale che il pagamento di imposte e contributi previdenziali sia competenza, responsabilità e onere delle organizzazioni datoriali è stato già richiamato. Tuttavia, c’è dell’altro alla base della propaganda insistente, una motivazione più radicale: la negazione del ruolo dell’impresa.

Infatti, l’ingegnosa deduzione di una basilare funzione economica, la generazione di valore, da una convenzione contabile (l’appostamento nel bilancio statale e dell’INPS di imposte e contributi), cioè la confusione tra la cosa e la sua rappresentazione, assolve la funzione di cancellare, nei discorsi e ottativamente pure nella realtà effettuale, la funzione dell’impresa. Questo è il punto centrale. Si tratta di una novità  che allontana gli autori e i divulgatori di questo tipo di narrazione dall’economia classica e dalla stessa teoria economica marxiana.

La pretesa di disgiungere ciò che nella realtà esiste in un rapporto inscindibile, capitale e lavoro, è per Karl Marx una sciocchezza. Egli è stato innanzitutto un teorico della centralità dei rapporti di produzione e dello sviluppo delle forze produttive. Per lui, “il lavoro stesso è produttivo solo in quanto è assunto nel capitale, ove il capitale costituisce la base della produzione …“ e, di conseguenza, “lasciar sussistere il lavoro salariato e nello stesso tempo sopprimere il capitale è dunque una rivendicazione che si autocontraddice e si autodistrugge” (Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pag. 296).

Sul tema specifico, il filosofo di Treviri, Luigi Einaudi e Giuseppe Di Vittorio, per menzionare riferimenti marcatamente disparati, la pensano esattamente allo stesso modo. Maurizio Landini, invece, intende distinguersi: per lui, il lavoratore dipendente genera valore a prescindere dal capitale. Altrimenti non potrebbe essere sostenuta la tesi fantasiosa  ma ideologicamente accattivante che esso  svolga un ruolo nel pagamento delle imposte.

La questione del contributo della Pubblica Amministrazione allo sviluppo economico richiederebbe una trattazione specifica; qui ci si limita ad osservare incidentalmente che le teorie sul valore pubblico (cos’è, come si produce e come si valuta) possono costituire un’interessate e promettente base di riflessione. Il focus della presente analisi critica è principalmente il rapporto tra capitale e lavoro all’interno dell’impresa.

Orbene, è empiricamente verificato che la raccolta di salariati e attrezzature (assieme ad altri asset) all’interno di un capannone, o in qualsiasi spazio adibito allo scopo, non produce assolutamente niente; la precondizione della produzione di qualcosa e della generazione di valore è l’esistenza di un’organizzazione e di un piano. Ma nemmeno l’ammissione teorica di questa precondizione è sufficiente a spiegare il processo economico reale; occorre che si esplichi compiutamente una funzione trascurata o data per scontata dallo stesso Marx: l’imprenditorialità.


Essa non si esaurisce nella dimensione giuridico- amministrativa (ad esempio, rapporti di proprietà, deleghe e procure) e nemmeno in quelle finanziaria (ad esempio, apporti e titolarità di capitale, remunerazione e partecipazione agli utili) o sociologica (ad esempio, funzione e collocazione formale nel sistema organizzativo aziendale, rapporti con diversi o analoghi sistemi e ruoli, connotazioni categoriali di riconoscibilità) ma si configura primariamente come combinazione, in un progetto dinamico e autoriflessivo focalizzato sulla  creazione di valore, di fattori interni ed esterni, di variabili materiali e immateriali, di apprendimenti diversi (individuali, organizzativi e/o di reti, in quanto ai soggetti, nonché relativi a processi, prodotti-servizio o sistemi, in quanto agli oggetti), di azione locale e visione globale, di presente e futuro (immaginazione prospettica di situazioni e rapporti traducentesi in azioni reattive, proattive o precursive).

Senza l’espressione concreta della funzione imprenditoriale, il sistema aziendale di cooperazione non prende forma o deperisce, il networking territoriale e planetario (la nuova generale condizione d’esistenza dell’impresa e della cooperazione finalizzata) non si sviluppa e la generazione di valore non avviene. Come l’esperienza dell’Unione Sovietica ha, in uno stadio precedente di sviluppo economico, ampiamente dimostrato.


In sintesi, l’illusionismo ideologico e la combinazione di statalismo e finanzcapitalismo sembrano essere parte non della soluzione ma del problema; molto più feconde appaiono la riaffermazione della funzione dell’impresa e la combinazione di imprenditorialità e lavoro. 

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