6
Apr
2012

Riforma del lavoro. La buona fede e la cattiva vista (da lontano): il caso delle startup

Il disegno di legge presentato dal governo dovrebbe avere l’obiettivo di promuovere la crescita economica rendendo il mercato del lavoro più dinamico, eppure i policy maker e il dibattito pubblico si sono dimenticati di un fattore importante in una prospettiva di futuro, innovazione e, appunto, crescita: quello delle startup.

Sebbene l’occupazione in questo settore sia in costante espansione, la riforma tenderà a limitarla rendendo svantaggiosi fiscalmente i contratti temporanei e introducendo nuovi limiti alla loro adozione con il risultato di ridurre quella flessibilità che è condizione imprescindibile degli investimenti in startup.

I contratti a termine vengono penalizzati da una aliquota aggiuntiva dell’1,4 %, da una maggiore esposizione a impugnazione giudiziaria, da una più rigida disciplina in tema di rinnovo dei contratti, da nuovi obblighi di comunicazione e dalla stretta sulle Partite iva con introduzione di obblighi di conversione a contratto a tempo indeterminato.

I contratti temporanei sono insomma disincentivati ed è questo un ostacolo per le startup che non possono infatti che adottarli: il tasso di rischio di una startup è molto elevato e richiede un capitale inziale che non sarebbe mai così alto da rendere sostenibile l’assunzione dell’ulteriore rischio di licenziamenti con il conseguente pagamento di indennizzi che comporterebbe la scelta di contratti a tempo indeterminato, il tipo di contratti verso cui la riforma vuole “pungolare” (è un caso che gli americani chiamerebbero di “nudging”).

Si tratta pertanto di una pretesa lontana dalla realtà, incompatibile con le condizioni basilari dell’imprenditoria connessa a startup con alto tasso di tecnologia e innovazione. È prevedibile che verrà così compromessa in modo strutturale la competitività con gli altri Paesi (in primis Israele, Stati Uniti, Svezia, Finlandia, Cina, India, Brasile) in un settore strategico in cui l’inevitabile conseguente incentivo a delocalizzare produrrà ulteriore disoccupazione soprattutto giovanile: un costo opportunità per le prospettive della crescita che sembra non essere stato preso in considerazione dal governo.

Una svista non da poco se si pensa che ciò che non si vede è un intero settore che negli Stati Uniti ha trainato la crescita netta di posti di lavoro, come dimostra un report  della Kauffman Foundation, e che anche in Italia soltanto in Lombardia è previsto che nei primi tre mesi dell’anno saranno stati 9700 i posti di lavoro creati da startup (un terzo delle assunzioni previste in questo periodo) secondo la Camera di Commercio di Monza e Brianza.

Si tratta di numeri attuali e di una potenzialità per lo sviluppo futuro. Ma le potenzialità sono invisibili, così come i posti di lavoro che non verranno creati mai, e del resto i giovani aspiranti imprenditori non hanno la visibilità dei gruppi di pressione più influenti.

C’è la buona fede sì, ma le conseguenze non intenzionali potrebbero rendere la riforma ostile all’innovazione: la pianificazione – o il “nudging” in questo caso – ha sempre conseguenze indirette e distorsive, questa volta sulle startup e i processi di innovazione, la base proprio della crescita che si vorrebbe promuovere.

Così il governo dei “tecnici”, seppur in buona fede, persegue idealmente la “lotta alla precarietà” mostrando vicinanza più alla retorica politica che non alle realtà operative dell’imprenditoria, concordando un compromesso al ribasso (però si proclama finita l’epoca della concertazione) sulla flessibilità in uscita e promuovendo una maggiore rigidità all’ingresso con elementi persino peggiorativi: le imposte distruggono sempre ricchezza (reale e potenziale) mentre la regolamentazione introdotta dalla riforma impone una direzione che nel caso delle startup è opposta ai processi di innovazione che aprirebbero più opportunità di lavoro di quante ne possano creare nuove “rozze” tasse sui contratti di lavoro.

Come per il decreto sulle liberalizzazioni (che in realtà in molti settori ha introdotto più una revisione della pianificazione dell’offerta che non aperto il mercato), è difficile parlare di liberalizzazione del mercato del lavoro per una riforma che non aumenta in termini assoluti la libertà di impresa (gli aumenti di flessibilità in uscita e di rigidità all’ingresso si bilanciano) e non abbassa ma eleva la tassazione sul lavoro, primo fattore che limita la libertà d’impresa e la libertà economica di tutti i lavoratori.

I paesi con il più alto tasso d’innovazione (The Global Innovation Index) li ritroviamo anche nelle prime posizioni dell’indice delle libertà economiche.

L’innovazione va d’accordo con la libertà economica. La libertà è limitata dalle tasse. Le tasse non scendono se non si taglia la spesa pubblica.

You may also like

Start-up, ma soprattutto bottom-up
Digitale e Intelligenza artificiale
Il piano strategico nazionale per l’intelligenza artificiale
Maratona Pnrr. Una transizione digitale per molti, ma non per tutti?

10 Responses

  1. Francesco P

    La riforma del lavoro proposta dalla professoressa Fornero era ben pensata per le grandi e stabili organizzazioni, ma peccava in origine di scarso pragmatismo perché non considerava tre fattori importantissimi per la nostra economia: 1) le micro e le piccole imprese senza delle quali addio terziarizzazione dei servizi 2) il modello di filiera che ha permesso e permette il successo del made in Italy 3) le start-up che oggi giocano un ruolo importante nella innovazione.

    L’innovazione è tanto tecnologia super-complessa quanto genialità nel creare nuovi prodotti semplici, ma largamente apprezzati dal pubblico.

    Purtroppo la riforma del lavoro “snaturata” mantiene i limiti di rigidità iniziale e non fa fare passi in avanti rispetto all’articolo 18 per quanto concerne la licenziabilità di coloro che sabotano l’azienda ed i colleghi. L’articolo 18 è stato impiegato troppo spesso per salvare il posto di lavoro ai peggiori; questo avveniva anche quando l’azienda per ristrutturarsi doveva “disfarsi” dei migliori usando vari stratagemmi.

    Tasse, rigidità e burocrazia sono l’anticamera del Medio Evo. Vi sembro esagerato? Senza una rapida e drastica correzione di tendenza credo proprio che l’Italia rischi di avvitarsi in una spirale dalla quale non si esce più. Se si interviene prima del collasso, si riesce a raddrizzare la situazione. Viceversa quando il collasso è avvento non si risolve più niente. Non siamo l’Argentina con risorse naturali enormi che è riuscita a tirarsi su in dieci anni! Gli scenari economici sono cambiati, il centro focale dei commerci si è spostato sulle sponde Pacifico e siamo in un Europa in cui non siamo i benvenuti.

    Siamo ormai al bivio; le due strade, quella buona e quella cattiva, divergono di 180 gradi.

  2. Concordo completamente con il contenuto di questo contributo.
    Riporto a conferma la mia testimonianza diretta.
    Sono un giovane imprenditore di 34 anni, circa un anno e mezzo fa ho creato una piccola societa.
    Ho potuto assuere 3 persone solo grazie a contratti a progetto o di formazione perche’ i costi sociali dei contratti a tempo indeterminato avrebbero inciso troppo sullo start up dell’azienda.
    Dopo un anno e mezzo di attivita’, allo scadere dei “progetti” stiamo assumendo a tempo indeterminato i dipendenti.
    Ma un’azienda medio/piccola in start up ha assoluta necessita di accedere a contratti di lavoro flessibili e a basso costo per almeno due ragioni:
    1. Ridurre i costi – in start up nel bel mezzo del peggiore scenario macro economico piu’ necesarri che mai
    2. “conoscere” i propri dipendenti – la flessibilita’ in uscita e’ necessaria per garantire che non vi siano inefficienze che in una start up di una azienda medio/piccola non sono sostenibi.
    Pertanto reputo in quest’ottica la riforma Fornero poco attenta alle esigenze delle aziende in start up.
    Cio’ non mi stupisce: il contesto legale, bancario, fiscale, burocrtico in Italia e’ contro la nascita di aziende medio/piccole

  3. andrea picone

    come ho detto in altri ambiti..la riforma del lavoro non può scontentare gli industriali…gli unici che devono prendere la decisione di assumere o meno. Gli altri purtroppo non contano.

  4. roberto

    Egregio Reali,

    condivido l’ analisi e aggiungo: nelle ultime quattro righe del Suo articolo vi è il sunto della soluzione.Però continuano a non ridurre la tasse sul lavoro dipendente, continuano a peccare di approssimazione (professori ?!! , vedi Fornero e i dati degli esodati ), continuano a posticipare decisioni da applicare immediatamente , (tagli e non “contenimenti”) .
    Da imprenditore Le dico; magari potessi pagare i migliori e tenermeli a tutti costi, non servirebbero i contorsionismi contrattuali attuali e futuri, flessibilità etc.
    Grazie
    RG

  5. Francesco Ferrari

    Fino a quando in questo Paese non sarà rimosso il clima ostile per chi intraprende sarà difficile ricreare le condizioni per una ripresa dell’ economia. Le pregiudiziali ideologiche sono un freno medievale !

  6. marco

    Caro Giannino, concordo sull’ideologia ma mi fa sorridere questo tuo argomentare, da decenni si possono percorrere le strade di Milano o Torino senza veder nemmeno le luci dei dormitori accese altro che le strade di Cambridge (Ma) con i dorm del MIT illuminati a giorno e le strade colle luci accese fino all’alba dentro ai centri di ricerca sul DNA o dietro targhe posticce di start up di software o biotech o commistioni a piacere dai servizi all’energia. Per fare delle start up ci vogliono degli atenei e dei simboli.
    A Milano han perso il 50% di studenti al poli e a Torino quasi, tutti a fare il triennio di ingegneria gestionale, e non han nemmeno ranking fantascientifici.
    I meglio professori se ne vanno come i meglio studenti-
    Ci restano come simboli i Cayenne e le puledrine in calore
    Che vuoi di più
    Delle trote da pesca turistica non certo di ruscello valdostano!!!

  7. rccs

    Eh, si sa… in Italia non abbiamo gli Zuckemberg perchè i lavoratori sono a progetto sono tassati ben l’ 1.4% in più…

    Le startapp il nuovo mito del liberismo. Che manco si sa cosa sono, ma già fanno categoria (anche se una magari poi fa il suo business sulla rete e l’altra con la coltivazione di piante medicinali). Bah… vittimistmo preventivo, come gli juventini.

  8. giancarlo

    Start-Ups : ieri qui a Roma si è tenuto un lodevole evento sulla creazione d’imprese innovative con ben 4 Ministri tra cui Passera.
    Sono un esperto in materia e mi ha soddisfatto sentire il ministro che annunciava un “Piano Start-Up” che ha già uno spazio sul sito del MISE. Conosco vari memberi del Comitato organizzato da Passera e sicuramente invierò il mio contributo.
    Chiedo a tutti voi e a Giannino di fare lo stesso, inviando gli importanti contributi di questo BLOG su questa materia che ritengo importante.
    A riprova dell’importanza indicherei la qualità davvero ottima raggiunta da molti Start-Up italiani lanciati in questi anni da varie organizzazioni.
    Il problema è il capitale di rischio e come organizzarlo (i VC sono ormai in tutta evidenza superati, anche negli USA…). Anche per il capitale le normative fiscali e legali giocano in grande ruolo.
    Speriamo ci ascoltino ma almeno possiamo dire che Passera le verifiche le sta avviando in modo serio. La Fornero, per ora, sembra effettivamente un anello più debole del previsto.
    Per noi tutti però l’esigenza è di non mollare, si può e si deve cambiare.
    Io riucevo proposta dagli USA ogni giorno, ma l’Italia rimane una fucina assai sottovalutata di “innovation winners”.
    Giancarlo, MrgoodIDEA srl

  9. Francamente mi sembra che l’articolo – e molti dei commenti – agitino una tempesta in un bicchier d’acqua.
    1) la riforma governativa lascia in essere alcuni dei contratti “flessibili” senza particolari obblighi, come i “contratti a progetto”, che si prestano benissimo a essere utilizzati per le start up mentre, francamente, le partite IVA di comodo non hanno proprio ragione di essere;
    2) se si reputa che una start up non possa farcela fare perché il costo del lavoro dei collaboratori passa da 1000 a 1014 euro, è meglio che non parta proprio;
    3) bisogna anche intendersi sulle start up: purtroppo il termine – inizialmente riservato ad imprese fortemente innovative – oramai sembra essersi esteso all’avviamento di qualsiasi tipo di iniziativa, ivi comprese quelle che cercano di trovarsi particolari nicchie di mercato e di essere competitive fondandosi essenzialmente sul minor costo dei lavoratori, grazie ai tanti espedienti resi possibili dalla “precarietà”;
    4) una start up non può essere tale “a vita”: due/tre anni sembrano più che sufficienti per rendersi conto di capacità, competenza, adeguatezza dei lavoratori/collaboratori;
    5) le start up realmente innovative molto spesso associano in qualche modo i collaboratori dell’impresa alle sue sorti, ed è su queste basi che si assicurano la necessaria flessibilità:
    6) affermare che le imposte “distruggono sempre ricchezza (reale e potenziale)” rivela un pregiudizio che persino definire “ideologico” appare improprio e che comunque neanche i sostenitori più accaniti del massimo laissez-faire si sentirebbero di condividere.
    In quanto alla correlazione tra tasso di innovazione e libertà economiche, chiunque si prenda la pena di esaminare quegli indici e quelle classifiche si rende immediatamente conto di quante e quali variabili sfuggano all’analisi.

Leave a Reply