20
Gen
2012

Liberalizzazioni: quelle vere e quelle false

Noi dell’Istituto Bruno Leoni avremmo di che essere contenti: per una settimana siamo andati di moda. “Liberalizzazione” è stata la parola sulla bocca di tutti. Ma davvero questa è “la prima rivoluzione liberale della storia italiana”, come ha affermato qualche entusiasta? E davvero si è fatto di più con questo decreto che negli ultimi vent’anni, come ha suggerito più d’un commentatore su Twitter?

Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: un governo presieduto da un ex Commissario europeo alla Concorrenza, e di cui il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è l’ex Presidente della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ha fatto un forte investimento simbolico sulle liberalizzazioni. Questa è una buona notizia: l’apertura al libero mercato ci è stata presentata come un pilastro dell’azione dell’esecutivo. La decisione del governo sulla rete del gas sembra, nelle linee generali, coerente con questa ambizione, e anche – entro certo limiti – quella sui servizi pubblici locali. E tuttavia, nel merito di altri provvedimenti, non ci vergogniamo ad ammettere che abbiamo qualche perplessità.

Il decreto verrà passato in esame su Chicago-blog dai Fellow dell’Istituto Bruno Leoni, come già fatto per il “salva-Italia”. Tuttavia, vale la pena sollevare già ora almeno tre perplessità di fondo:

(a) la “liberalizzazione” è un processo che dovrebbe portare a un abbattimento delle barriere legali che intralciano l’attività economica, e segnatamente l’entrata di nuovi attori in un certo settore. Che c’entrano, con le liberalizzazioni, iniziative che vanno a determinare nuovi obblighi di legge (non funzionali a un maggior grado di concorrenza)?

(b) perché si è accuratamente evitato di incidere con provvedimenti analoghi alla (giustamente, da più parti invocati) separazione della rete gas, in ambiti – quali i servizi postali e il trasporto ferroviario – in cui un intervento di quel tipo è assolutamente necessario per centrare due obiettivi, ossia stimolare la concorrenza dei newcomer ma anche determinare le condizioni necessarie per la dismissione dell’incumbent pubblico? Perché, insomma, in tutti quegli ambiti nei quali la liberalizzazione poteva essere propedeutica alla privatizzazione, il governo ha scelto di non procedere in quella direzione? Perché, caduti Berlusconi e Tremonti, resta a Palazzo Chigi e in via XX Settembre questa ostilità preconcetta contro le dismissioni, che come ci ha ricordato Oscar Giannino sono fondamentali per abbassare l’asticella del debito?

(c) si è investito molto su alcune categorie-simbolo (tassisti e farmacisti), a livello di comunicazione, ma alla prova dei fatti ci si è limitati a rivedere le attuali forme di pianificazione dell’offerta – senza rinunciare al principio che debba essere lo Stato a programmare l’offerta di un certo bene o servizio. In altri ambiti, si è intervenuto sulle reti distributive: andando in qualche maniera a sovrapporsi con (e a superare) l’evoluzione del mercato. Ha senso? Può essere una liberalizzazione? Non discutiamo di liberalizzazioni proprio perché la pianificazione dell’offerta da parte dello Stato è risultata fallimentare? O siamo convinti che i pianificatori “buoni” riusciranno laddove quelli “cattivi” hanno fallito?

Più di tutto, però, abbiamo una preoccupazione: ci spaventa che da lunedì il dibattito pubblico possa considerare le liberalizzazioni una storia già scritta. Purtroppo molto resta da fare per liberare l’economia italiana. Oggi più che mai è importante non abbassare l’attenzione e non mollare la presa.

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3 Responses

  1. Caro Alberto, ricordiamoci della Rai. A largo Willy De Luca, programmisti, giornalisti, comparse, troupes, cameramen, super e sotto manager, uscieri e via elencando, se ne stanno ben rintanati facendosi scudo con “il tributo” dell’abbonamento, secondo la nuova invereconda versione pubblicitaria del salasso annualmente imposto agli italiani. I quali, brava gente, pagano, maragi sbuffando, ma continuano a pagare. Voi che me siete capaci, cercate di fare un po’ i conti di quanto dalla vendita della Rai potrebbe trarre alimento il, purtroppo negletto, fondo di ammortamento del debito pubblico.
    Sempre con voi
    Julia Giavi Langosco

  2. Caro Alberto, ricordiamoci della Rai. A largo Willy De Luca, programmisti, giornalisti, comparse, troupes, cameramen, super e sotto manager, uscieri e via elencando, se ne stanno ben rintanati facendosi scudo con “il tributo” dell’abbonamento, secondo la nuova invereconda versione pubblicitaria del salasso annualmente imposto agli italiani. I quali, brava gente, pagano, magari sbuffando, ma continuano a pagare. Voi che ne siete capaci, cercate di fare un po’ i conti di quanto dalla vendita della Rai potrebbe trarre alimento il, purtroppo negletto, fondo di ammortamento del debito pubblico. Sempre con voi Julia Giavi Langosco

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