22
Giu
2010

La cultura poi ti cura con premura

Della riforma degli enti lirico-sinfonici ci eravamo occupati alcune settimane fa (qui), durante il varo del decreto legge che tante polemiche ha suscitato. In quell’occasione si era espresso un cauto apprezzamento per il testo emanato dal governo. Cauto perchè i pochi articoli di cui era composto lasciavano in sospeso diversi punti, tutti da sviscerare con successivi regolamenti. Apprezzamento perchè si affrontava in maniera netta il nodo dei costi, soprattutto quelli per il personale.
Da allora è stato un susseguirsi di contestazioni. Ora che il testo ha cominciato l’iter per la sua conversione in legge, siamo giunti nel pieno degli scioperi. Il ddl è stato approvato da un ramo del Parlamento, e oggi andrà alla Camera per una sua veloce approvazione, che dovrà avvenire entro la fine del mese (allo scadere dei 60 giorni dalla comparsa del decreto in gazzetta ufficiale).
All’Arena di Verona hanno proclamato uno sciopero di 3 giorni (dal 25 al 27 giugno), alla Scala è stata fatta saltare la “seconda” del Faust, e così via giù per lo stivale. Per oggi (22 giugno) i sindacati hanno indetto uno sciopero nazionale unitario, con presidio davanti a Montecitorio.
In realtà, le modifiche approvate dal Senato hanno in parte ammorbidito il testo. Ad esempio, la decurtazione del contratto integrativo (se entro due anni dal varo della legge non verrà firmato il nuovo contratto collettivo) sarà del 25% e non più del 50%. L’impianto della riforma rimane però invariato, e così doveva essere. Non è il caso qui di ritornare sui punti specifici del ddl, già affrontati in un apposito paper dell’IBL.
Se troppo trionfali suonano le parole del ministro Bondi (“Ho fatto quello che dovrebbero fare uomini di governo seri e responsabili, ossia adottare criteri di efficienza e di trasparenza nell’uso del denaro pubblico e proporre una riforma che salvi nel nostro Paese la lirica dalla bancarotta”), allo stesso tempo gridare alla morte della cultura pare così eccessivo da non essere giustificato.
Di morte della cultura, di un governo che mortifica l’arte, si sente parlare ormai da anni, ogni volta che qualcuno prova a scardinare lo status quo (o con riforme o con semplici riduzioni di trasferimenti). Come se, appena si stringono i cordoni della spesa, si arrecasse un grave danno alla cultura. Non si può allora fare a meno di notare come in tal modo si instauri un legame tra sovvenzioni e cultura. Alla domanda su cosa sia la vera cultura, non si potrebbe fare a meno di rispondere: quella sussidiata. Perchè, prima o poi, qualcuno ci dovrà spiegare cosa sia realmente questa cultura che viene ammazzata, a cadenze regolari, dal governo di turno. E’ morta così tante volte la cultura che, in confronto, Lazzaro  è un dilettante dell’arte di resuscitare.
Ma davvero la cultura, per sopravvivere, ha così bisogno delle sovvenzioni del Principe? O non si tratta ogni volte di proteste che lamentano la perdita di una rendita di posizione? Sarà forse una lettura troppo sbrigativa, ma tutti questi scioperi e queste manifestazioni sembrano avere una unica finalità: la ricerca di una rendita.
Quasi mai capita di sentire qualche artista che non cada nei soliti piagnistei. Qualcuno che dica apertamente: non abbiamo bisogno dell’aiuto dello Stato, si può fare cultura anche senza. Ovviamente, è la via più difficile. Vuole dire, arrangiarsi, contare sulle proprie forze e sul proprio valore. E’ più facile nascondersi dietro richieste nobili di investimenti in cultura, come volano per lo sviluppo civile, sociale, educativo di un Paese. Sentire frasi come “La cultura è necessaria come l’acqua che si beve e l’aria che si respira. E poi appartiene a tutti” (Massimo Wertmuller). “La cultura appartiene a tutti”, uno slogan che non se ne andrà mai in soffitta. Oppure, nei giorni scorsi mi è capitato di prendere parte a un convegno in cui l’intervento finale e riassuntivo si concludeva più o meno così: “e ricordiamoci che la cultura non è un bene privato”.
Mentre si usano parole vuote e si protesta per i tagli, nessuno affronta il tema del come si spendono o non si spendono i soldi destinati alla cultura. Perchè il grosso problema da risolvere è soprattutto quest’ultimo. Sul “Giornale dell’arte” di maggio, compariva infatti un articolo dal titolo assai eloquente: “Residui passivi, ecco il vero problema” . Nell’articolo si riportava una frase di Francesco Rutelli che, quando ancora ricopriva la carica di ministro dei beni culturali, disse: “Il bilancio dei Beni culturali nel 2001 era pari allo 0,48% (incluso il comparto spettacolo, Ndr), mentre nella proiezione sull’anno 2007, a legislazione vigente e quindi prima della legge finanziaria, scende allo 0,26%. Questa è la prima brutta verità. La seconda brutta verità che dobbiamo parimenti affrontare è che a causa della scarsità di risorse non abbiamo un’adeguata capacità di spesa. Negli ultimi cinque anni, i fondi che si sono tradotti in residui passivi nel bilancio dei Beni culturali sono stati pari a quasi 2,3 miliardi di euro. Questo significa che dobbiamo rivedere in profondità l’organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività culturali”.
Direi che sia dovuto a scarsità di personale è una falsa giustificazione. Nonostante riforme amministrative che hanno riguardato la struttura del ministero, il problema permane ancora oggi: i residui passivi arrivano a toccare quote elevatissime. Non è un caso che anche il Rapporto Eurispes 2010 sull’Italia dedichi un intero capitolo sul tema: “Beni culturali: i soldi nel cassetto ovvero come non si spendono le risorse disponibili”.
Va detto che i residui passivi riguardano maggiormente le spese per i beni culturali che quelle per lo spettacolo. A funzionare male è la macchina pubblica, non tanto quando lo Stato si fa solamente erogatore, ma quando agisce in prima persona attarverso la sua struttura, per preservare e gestire il nostro patrimonio artistico e culturale. Che lo Stato non sia efficiente non è una novità. Se il ministero non è capace di spendere le risorse che ha a disposizione allora perchè non ridurle ulteriormente? Non è una provocazione, ma semplice realismo. Perchè non responsabilizzare chi sta in capo alla pubblica amministrazione? Vuoi risorse, prima cerca di far funzionare i tuoi uffici.
Se questo è un nodo mai risolto, almeno da quando si ha il Ministero per i beni culturali (dalla metà degli anni Settanta), il punto prima richiamato (cultura e sussidi) è ancora più dirimente. Non si può non apprezzare le parole del ministro Bondi quando dice che “il problema della cultura in Italia è che è sempre stata condizionata dai contributi dello Stato e dall’ideologia politica. Quella che dobbiamo sostenere deve fare a meno del sostegno e dell’oppressione dello Stato e dei condizionamenti della politica”. Parole sacrosante, a cui però non sempre seguono i fatti. La tendenza è quella di sostituire a una influenza politica, un’altra di segno opposto.
La cultura deve fare “a meno del sostegno … dello Stato”: chissà se prima o poi sentiremo portare nelle piazze questa frase.

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2 Responses

  1. A proposito di “La cultura appartiene a tutti”, m’e’ venuta in mente la mitica trasmissione “L’arte per tutti” tenuta da Gioele Dix mentre imitava Alberto Tomba a Mai Dire Gol:
    http://bit.ly/9Y2QuC52

    😀

    Meglio lui dei sindacalisti!

  2. Francesco Zanardi

    “La cultura di è di tutti”, sento sempre dire. Personalmente mi chiedo cosa abbiano di popolare le grandi opere liriche o di musica classica, scritte per imperatori, re, nobili, clericali e figli di tutti questi potenti; Non di meno mi chiedo cosa abbiano di culturale certi filmetti per pochi adepti, che incassano meno del necessario per fornire un piatto di pasta ai loro autori.
    La cultura di tutti è quella che la gente la sostiene, andandola a vedere e pagando il biglietto, altrimenti deve morire e nessuno ne sentirà la mancanza, come per i mottetti ed i madrigali: roba da museo.
    Non svanirà mai il ricordo di una prima alla Scala, con il nostro Presidente del Consiglio che si fa bello di fronte al Cancelliere Tedesco, scenografie in oro (pagate da noi) e il meglio della società in prima fila: è cultura popolare questa?

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