12
Dic
2013

Poste: Letta si è deciso a quotarla, ora bisogna separarne le attività per liberalizzare

Negli interventi sulla fiducia in Parlamento ieri del premier, tra le novità – poche a dire il vero: eccezion fatta per la netta polemica anti Cinque Stelle, Letta ha preferito la prudenza – sicuramente c’è quella che riguarda le Poste. Mentre sino a pochi giorni prima Poste Italiane non figurava nella lista all’attenzione del governo per il programma di dismissioni di quote – senza perdita di controllo – di svariate società pubbliche, ieri Letta l’ha esplicitamente citata. E’ allo studio un collocamento azionario che ne apra ai privati il capitale, ha detto Letta. Anche per Poste senza perderne il controllo pubblico. E, infine, il premier ha aggiunto che nel collocamento una quota sarà riservata ai 150mila dipendenti postali. Cosa che è subito stata apprezzata da Bonanni della Cisl, l’organizzazione tradizionalmente forte in Poste, e dalle altre confederazioni.

Si tratta di capire ora che cosa ci aspetta, quale sarà il modello seguito, in vista di quali obiettivi. Di modelli sin qui seguiti da grandi Paesi ce ne possono essere almeno due. E a seconda di quale Letta e Saccomanni indicheranno, si capirà davvero a che cosa si mira. Diciamola tutta: se quotando Poste il governo Letta avesse in mente di piazzare sul mercato una quota dell’ attuale maxi conglomerato postal-finanziario aggiungendo in sovrappiù al suo perimetro il trasporto aereo e financo la rete di Telecom Italia, come vorrebbero alcuni spifferi giornalistici, allora saremmo al delirio: un’ipotesi da combattere sulle barricate.

Prima ricordiamo a tutti che cosa è Poste Italiane oggi. L’enorme carrozzone pubblico che perdeva 4.500 miliardi di lire nel 1993 divenne a quel punto da Amministrazione Autonoma Pubblica un Ente Economico Pubblico, primo passaggio di maggior disciplina contabile, e poi nel 1998 una SpA, il che ne rafforzò gli obblighi economico-finanziari. Tra il ’98 e il 2002 la guidò Corrado Passera, con una forte ristrutturazione – 22mila dipendenti in meno – e una focalizzazione del business che portò le perdite da 800 miliardi l’anno vicine al punto di equilibrio. Dal 2002 il capoazienda é Massimo Sarmi, confermato nel 2005, 2008 e 2011. E da un decennio il bilancio registra utili crescenti, fino a oltre 1 miliardo nel 2012. Su ristrutturazione e crescita degli utili, non poco ha contribuito il regime regolatorio di vantaggio concesso a Poste, mentre procedeva gradualmente la piena liberalizzazione europea di settore avvenuta solo nel 2011

Poste Italiane, rimasta al 100% del Tesoro, è oggi un enorme conglomerato, con oltre 24 miliardi di fatturato. Solo 4,6 vengono (a bilancio 2012) dai servizi postali e commerciali, in discesa anno dopo anno (erano 5 miliardi nel 2009). Ben 13,8 miliardi provengono dai servizi assicurativi – con il gigante PosteVita, che ha collocato quasi 5 milioni di prodotti in oltre 10 anni di esistenza con una raccolta di circa 55 miliardi di euro, e con la molto più modesta Poste Assicura, compagnia attiva nel ramo danni e con raccolta di alcune decine di milioni. Altri 5,3 miliardi vengono dai servizi finanziari, soprattutto attraverso BancoPosta Fondi, la società di gestione del risparmio che amministra un patrimonio di oltre 40 miliardi di euro, e una raccolta nell’ordine dei 400 miliardi tra conti postali, libretti e buoni fruttiferi. Poste è un colosso di raccolta del risparmio e assicurativo grazie alla più capillare rete territoriale presente sul territorio italiano, con oltre 14 mila sportelli. Ma non ha la piena licenza bancaria. Per due ragioni. L’ABI ha sempre puntato i fucili, contro un concorrente tanto temibile. E con ragione, finché sulla raccolta postale – avviata ad alimentare Cassa Depositi e Presiti – vale la piena garanzia pubblica, della quale non gode la raccolta bancaria.

Oltre alla concomitanza tra ramo finanziario e consegne postali, Poste controlla anche una corposa lista di società attive nei più diversi rami. Per fermarci alle maggiori, PosteMobile opera nella telefonia cellulare con 3 milioni di clienti, Postel lavora alla telematizzazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione, PosteShop vende gadget e oggettistica… e Mistral è la mini compagnia aerea – in perdita – dalla quale germina l’ingresso di Poste in Alitalia, attualmente in corso e senza alcuna analogia al mondo (c’è anche una PosteTributi, una PosteEnergia e così via, ma fermiamoci qui).

Quando abbiamo detto che ci sono almeno due modelli diversi di collocamento sul mercato, ci riferiamo alla Royal Mail britannica, di cui l’11 ottobre scorso è stata collocata una prima metà sul mercato come primo passo in vista di successive cessioni, e alla Deutsche Post tedesca. Per analogie e finalità da perseguire, c’è da sperare che il modello adottato da Letta e Saccomanni sia il secondo.

Il motivo è presto detto. Royal Mail non era e non è un conglomerato di attività maggiormente finanziarie, come Poste Italiane. I dubbi per la sua privatizzazione, alla quale i sindacati erano tenacemente ostili, discendevano sin dai tempi della Thatcher proprio da questo, visto che l’inefficienza postale era forte anche in UK e i biolanci in perdita, duqnue la privatizzazione era assai poco appetibile. Il miglioramento di efficienza conseguito grazie a una fortissima apertura regolatoria al mercato, per la quale solo il 5% delle attività di Royal Mail è nell’ambito dell’ex servizio universale, solo negli ultimi 2 anni ha spinto a realizzare utili, e comunque l’EBIT 2012-2013 di Royal Mail è solo al 3,8% del fatturato, rispetto al 9,8% di Poste. C’è da sperare dunque che Letta si riferisca al modello britannico solo per la quota di 2200 sterline in azioni riservata a ciascun dipendente, praticamente un 10% della prima offerta al mercato, ma che non voglia seguire la via della quotazione dell’attuale conglomerato Poste così com’è.

Per questo la via tedesca è preferibile. Anche la Deutsche Poste integralmente pubblica di fine anni anni Ottanta, oltre al servizio postale, aveva dentro di sé un’enorme raccolta finanziaria, ed era al contempo monopolista delle Tlc. Ne conseguì la separazione di Deutsche Telekom, poi quotata ma non integralmente perdendone il controllo come la nostra Telecom Italia, e di PostBank, la divisione di servizi finanziari anch’essa poi integralmente ceduta al mercato, tanto da venire inglobata tra fine anni ’90 e 2011 nella “privata” Deutsche Bank. Nel 2000 avvenne invece la quotazione di una prima tranche di Deutsche Post, che nel frattempo, rilevando DHL, diveniva un gigante della logistica globalizzata, con 500 mila dipendenti in 200 Paesi. Nel 2005 il governo realizzava una seconda tranche di cessione, spogliandosi di ogni azione e concentrandone il 30% di controllo nelle mani di KfW, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti.

Quel che serve da noi è analogo. Non solo e non tanto per il controllo pubblico da far restare in Cdp, controllo del quale noi faremmo ovviamente a meno, ma non l’attuale governo né l’intera politica italiana, da destra a sinistra oggi unanime nel difendere lo Stato proprietario e gestore.  Quanto perché separare le attività finanziarie da quelle postali-commerciali è il giusto metodo per accelerare l’apertura al mercato innanzitutto del servizio postale. Settore nel quale siamo molto indietro, come testimoniato dal fatto che è il penultimo per apertura alla concorrenza anche nell‘Indice Liberalizzazioni 2013 appena edito dall’Istituto Bruno Leoni.

Infine, quotare Poste serve anche a risolvere una questione … previdenziale. Certo, coinvolgere i sindacati nel capitale è cosa buona. Ma la quotazione è il miglior metodo per risolvere un problemino “storico” che Poste sin qui si trascinano: l’assegno di quasi un miliardo di euro l’anno – 990 milioni, per la precisione, nel 2013 e nel 2014 – che sin qui il Tesoro gira a Poste per coprire il buco dell’ex gestione previdenziale dei postelegrafonici (sono stati 5,5 miliardi di sbilancio previdenziale a carico pubblico solo negli ultimi 6 anni). Anche a Royal Mail accadeva, e l’Europa l’ha costretta a risolvere il problema, prima della quotazione. Da noi avverrà la stessa cosa, ed è giusto così. E, a proposito, speriamo che oltre alla sorpresa Poste, il governo voglia dirci qualcosa di chiaro anche sul rebus Alitalia, e sulle tante voci che girano intorno alla rete di Telecom Italia…

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10 Responses

  1. ALESSIO DI MICHELE

    Pongo 2 quesiti:

    1) se buona parte del fascino delle PT come prenditore di capitali non derivi secondo voi proprio dall’ essere un pezzo di Stato: io non me la vedo proprio la nonnetta che apre il suo librettino di risparmio in un ufficio di un ente privato, ancorchè con le insegne gialle/blu (curioso: il trionfo dello statalismo ha gli stesso colori della bandiera della Svezia, paradiso della de-statalizzazione intelligente);

    2) se il privato vuole chiudere uffici marginali/licenziare i “pigri” in sovrannumero, chi glieli affitta i carri armati ?

    Che ne dite ?

  2. Pugacev

    Visto che Poste Italiane è un bene di tutti e visti i precedenti in fatto di “privatizzazioni” all’italiana, oltre a farsi venire qualche brivido, ci si dovrebbe chiedere a chi andrebbe il presunto vantaggio di una ulteriore “liberalizzazione” altrettanto all’italiana. Ma poi “liberalizzazione” di cosa? Del trasferire la disponibilità di una grande massa di succulento risparmio degli italiani da un soggetto pubblico a qualche grosso para…monopolista privato globale a rendimento zero? Mi sembra che il risparmio altrui, dagli adoratori del presunto libero mercato, venga ricorrentemente visto come il sangue d’altri da parte del Conte Dracula…
    Poi un punto: in molti piccoli centri l’Ufficio Postale è un servizio sociale e un riferimento, spesso unico, della comunità in particolare degli anziani. Naturalmente capisco che nell’ottica del intoccabile Dio Profitto (senza scrupoli e sulla pelle altrui) in quel caso l’ufficio andrebbe chiuso e possibilmente sterminati addetti e anziani perchè non rendono…

  3. Piero

    1) Cassa Depositi e Prestiti è l’ultima cassa rimasta a dispo dello stato : finiti quelli si entrerà veramente nei conti dei privati (altro che bollo allo 0,2%)..
    2) Assunzioni clientelari x 40 anni : nn potendo Stampare (Altri debiti a Tassi Bassi come Usa/Uk/Jpy perchè Germania nn vuole) questo monte salari verrà ridotto.. saran altri disoccupati nn riassorbilili dal privato neppure nel medio termine.. ed i fatturati domestici delle aziende private caleranno ancor più..
    3) il servizio universale nei paesini nn remunerativi dovrà cmq esser finanziato da stato anche ad azienda privata..
    4) pensioni posttelegrafonici + altri milioni di pensioni regalate x 40 anni (oltre a quelle d’oro che fan acor più schifo of course) = un secondo debito pubblico implicito (nn a bilancio Inps) di 1500 mld (che si somma a quello esplicito di 2100 mld di Btp).. credo bisognerà aspettar altri 10/15 anni ma poi sarà Conflitto Generazionale inevitabile.. sarà la pagina umanamente più brutta e più dura di questo paese dopo la guerra mondiale..

  4. marco

    Massimo rispetto per l’autore dell’articolo. ma non vedo la necessità di vendere (anzi svendere come succede in Italia dal 92 in poi ) una azienda pubblica redditizia.L’ennesimo raggiro per far fare l’affare a qualcuno,probabilmente estero,a cui non sembra vero di mettere mani su quella bella torta che rappresenta il settore Bancoposta.Un grande affare per pochi e l’ennesimo fregatura per tanti comuni italiani.E non si tiri in ballo la balla cosmica della necessità di vendere “per ridurre il debito pubblico “. è uno slogan ormai logoro, andando in questa direzione le cose possono solo peggiorare, debito pubblico incluso.

  5. ALESSIO DI MICHELE

    @ Marco & Pugacev: quelli che dicono “svendere” dovrebbero quanto meno ipotizzare un prezzo corretto di cessione, altrimenti siamo tutti buoni, a chiacchiere, a fare quelli che se ne intendono. Detto ciò piantiamola di fare “i fini dietrologi, quelli fanè che le hanno viste tutte ed a loro non la si fa”: le privatizzazioni passate sono state fatte male ? Vero, diamoci da fare per farle bene: sbagliare/rubare non è mica una condanna, oppure è un vizio che può solo peggiorare mantenendo la proprietà pubblica delle aziende: anzi partitica, perchè, facciamocene una ragione: le imprese di stato sono proprietà privata dei politici, COMPRATE COI SOLDI NOSTRI, che oggi si rischia di svendere, ma che, di questo passo, domani varranno zero, ed allora rimpiangeremo amaramente di non avere svendute oggi. Poi perchè “ridurre il debito pubblico” sia uno slogan spero che ci verrà spiegato. E poi: uno stato tossicomane di debiti è normale che corra a vendere i gioielli, anche a poco prezzo: dimentichiamoci di poter fare gli schizzinosi.

  6. adriano

    Ma sì,continuiamo a privatizzare i profitti e socializzare le perdite.Va bene la parola d’ordine ma non capisco cosa serva ai problemi del paese.Si incassa qualche soldo,ci si libera di una gestione di cui non si è capaci e poi?Abbiamo risolto il problema del debito?Abbiamo trovato la formula della crescita?Ieri Christopher Pissarides gridava “fuori dall’euro al più presto” dettagliando la catastrofe.A me pare si debba partire da lì.Invece di aspettare che i nuovi padroni redistribuiscano la ricchezza con ulteriori tasse,cerchiamo le basi per uscire tornando tutti alle monete nazionali o solo noi alla nostra.Facciamo rientrare il debito proponendo un patto ai cittadini per un prestito forzoso e cominciamo a seguire la strategia del ripristino della sovranità per poter se si può ipotizzare anche la monetizzazione del debito.Mandiamo a quel paese i cetrioli di Bruxelles e visto che qualcuno parla di scontro generazionale fra le ipotesi da presentare agli italiani si ponga pure quello del ricalcolo per tutti dei vitalizi col metodo contributivo e si trovi un metodo accettabile per applicarlo senza far morire di fame nessuno.Una nazione che sopporta il sopruso di far pagare ai giovani prestazioni che loro non avranno mai e che non sarebbero dovute secondo la legge che vale per loro,non è degna di chiamarsi tale.

  7. marco

    @ Alessio Di Michele. Gentile Alessio, tante aziende pubbliche ,anche redditizie, sono state svendute in passato , cioè vendute al disotto, a volte anche molto al disotto del prezzo che lo Stato avrebbe potuto incamerare,quindi lo Stato , vale a dire noi contribuenti, siamo stati truffati .Non sto qui a fare il relativo elenco delle aziende in oggetto. Non parliamo poi di “errori”, altrimenti cadiamo nel ridicolo, se no crediamo che tutti coloro (Lei saprà meglio di me a quali politici e funzionari mi riferisco ) che hanno partecipato alle massicce privatizzazioni fossero dei poveri sprovveduti, o forse che la riunione sul Britannia, nel 92 tanto per fare un’esempio, sia stata fatta per far vedere ai partecipanti quanto fosse bello il mare a largo di Civitavecchia.Inoltre le imprese pubbliche non sono e non devono essere di proprietà dei partiti, in caso contrario vige una grave forma di corruzione che va abbattuta, va estirpata la corruzione non venduta la azienda. .Non è detto poi che alcune imprese pubbliche ,le poche rimaste , un domani varranno zero, non sta scritto da nessun parte. L’incidenza poi del ricavato dalla vendita delle poche aziende pubbliche non sarà così determinante come si vuol far credere, anche perchè tra Patto di stabilità, Fondo salvastati,interessi sul debito pubblico e senza la sovranità monetaria sarebbe come voler curare una polmonite con un cerotto Salvelox, con la conseguenza di svendere aziende strategiche ai soliti noti e rimanere ( noi contribuenti, quelli come me e Lei) ancora una volta contenti e gabbati,come succede dalla finta rivoluzione di mani pulite in poi Non si tratta di essere schizzinosi . si tratta di non fare più “beneficenza” a mani piene a spese del contribuente italiano, a favore dei soliti noti, Se proprio noi Italiani dobbiamo fare beneficenza , facciamola a, coloro che ne hanno bisogno davvero , soprattutto in questo momento ,dove con il pretesto della inevitabile “austerita’ espansiva” , delle “riforme strutturali “e con la promessa della “luce in fondo al tunnel”, la troika ed il suo governo ci stanno spremendo come limoni ..

  8. Pugacev

    @Alessio Di Michele: oltre a uno stato inefficiente, parassitario e addirittura dannoso esiste allo stesso modo un capitalismo inefficiente, parassitario e dannoso. Quello che, per esempio, privatizza gli utili e socializza le perdite. I due soggetti non sono come si vuol far credere antagonisti ed alternativi ma soci in affari che stanno dalla stessa parte. E le commistioni politiche riguardano tutti e due alla stragrande. Abbiamo poi visto che in termini di utilità per i cittadini l’italico capitalismo da salotto e da giornale è riuscito a fare addirittura peggio dell’apparato pubblico. I due “soci” sono poi nemici giurati dei cittadini che costituiscono la parte produttiva, innovativa, creativa del Paese, che vedono l’uno come sudditi, schiavi e l’altro polli da spennare senza ritegno a proprio imprescindibile uso e tornaconto. Direi che siano alla versione locale della Fattoria degli Animali.

  9. Piero

    ALESSIO DI MICHELE : su aziende nn quotate nn mi pronuncio ; ma su quelle quotate ti posso assicurare che tutte le grosse case di investimento internazionale confrontando la triplice formata da quotazioni/proiezione utili netti/mezzi propri indicano che Italia è sottovalutata mediamente del 50% vs le altre borse mondiali (dati a quest’autunno anche dopo il rally degli ultimi mesi in cui abbiamo recuperato qualcosa) ; il mio dubbio (ed a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca) è che le major della finanza mondiale (15/20 nomi al massimo che fanno il vero gioco ; il mercato nn esite) ci terranno affogati (al di là dei fondamentali da cui possono sganciare le valutazione, anche con le commodity, per parecchi anni se vogliono/gli conviene) nn molleranno la presa sino a che nn saran riusciti a comprar a metà prezzo quel poco che abbiamo ed ancora vale (Eni, Enel, Terna, ed Alcuni Pezzi di Finmeccanica soprattutto x i brevetti).. sotto questo punto devo dire che i liberisti TEORICI (tra cui Oscar) sono disarmanti in fatto di ingenuità..

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