29
Mar
2014

Gamberale e l’eterno ritorno del capitalismo parastatale

Quella che sta per cominciare, per Vito Gamberale, sarà anche una «terza gioventù», come proclama Alessandro Plateroti, intervistandolo sul Sole, ma somiglia pericolosamente alla prima e alla seconda. Alla soglia dei settant’anni, il manager molisano sta per tornare a casa. La lista di minoranza che fa capo alla Findim di Fossati ha fatto il suo nome per una poltrona nel consiglio d’amministrazione di Telecom Italia: con un po’ di fortuna, non sarà una poltrona qualsiasi, bensì quella di presidente. Sapientemente, Gamberale frena: «per il momento punto al ruolo di consigliere: il resto si vedrà».

Quasi vent’anni sono passati dalla precedente avventura di Gamberale in azienda: il monopolio ha lasciato il posto alla concorrenza; l’azionista pubblico si è fatto da parte e un certo numero di investitori privati sono andati e venuti; il mestiere stesso delle telecomunicazioni è cambiato: le reti si sono digitalizzate e la voce è ormai solo una fetta dell’attività degli operatori. Gamberale non è certo il tipo che si lasci impressionare da queste piccolezze.

L’azienda è stata privatizzata? Forse, ma lui – «dopo tanti anni nel settore privato» – ci rientra con lo spirito del «civil servant», per mettersi «a disposizione della compagnia e soprattutto del Paese»; del resto, parliamo di «un’azienda troppo strategica per il Paese, per non interpretarne il ruolo conciliando attese degli azionisti e sviluppo del Paese». (Qualcuno ha detto “Paese”?) Le accuse di conflitto d’interesse, per il suo ruolo in F2i? Disfattisti alla ricerca dei «soliti peli nell’uovo».

E i rapporti con l’azionista di controllo? Gamberale non ha una tradizione di concordia con le maggioranze spagnole in imprese italiane – le sue dimissioni dalla carica di amministratore delegato di Autostrade si consumarono in seguito all’acquisizione dell’azienda da parte di Abertis – ma non si costruisce una carriera dirigenziale di alto livello cavalcando le proprie antipatie. Certo, «Telecom deve lavorare per valorizzare se stessa, per arginare il declino nel Paese, per aiutare il Paese a sentirsi più evoluto». (Giureremmo di aver sentito nominare il Paese…) Però, «se poi, in tutto questo, possono conciliarsi anche interessi di Telefonica, ben venga il tutto». Bontà sua.

A ben vedere, c’è una cosa che Gamberale troverà quasi come l’aveva lasciata: la gestione della rete. Certo, con Open Access è intervenuta una prima forma di garanzia per i concorrenti, ma le discussioni sullo scorporo non hanno prodotto alcunché. Anche su questo, il Nostro ha le idee chiarissime: la separazione è un’ipotesi «surreale», perché «la rete telefonica» – ma mica ogni rete telefonica: solo quella «di un grande incumbent» – «non può essere ridotta ad un frazionamento catastale». Integrazione verticale unica via! Bizzarro punto di vista, venendo dal dirigente apicale di un fondo che di mestiere mette le infrastrutture a disposizione di chi sappia come usarle.

Gamberale sa bene che sulla rete occorre fare qualcosa: ma cosa? Semplice: valorizzarla, senza perderne il controllo. Se proprio fosse necessario. si potrebbe persino valutare l’ingresso di nuovi soci.  (La Cassa Depositi e Prestiti – che avevate capito?) In questo modo, Telecom potrà «investire sull’Italia e sulla modernizzazione della rete nazionale di trasporto in modo da garantire a tutti gli italiani l’accesso a internet ad una vera alta velocità». «Tutti gli italiani», come ai bei tempi andati del monopolio. Per la sua nuova avventura, Gamberale ha già pronto anche il motto: «si tornò al passato e fu progresso». Ci piacerebbe. È, però, raro che i ritorni si rivelino come qualcosa d’altro che insipide minestre riscaldate.

 

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