25
Set
2013

Telecom Italia: la privatizzazione dimezzata

La vicenda Telecom-Telefónica domanda diverse chiavi di lettura. Un primo e più generale livello, attinente alle lezioni per il nostro sistema economico nel suo complesso, è stato analizzato magistralmente da Oscar Giannino: non siamo di fronte a una sconfitta del mercato, ma piuttosto alla sconfessione di quel peculiare modello di capitalismo di posizione e di relazione che ha trovato in Italia il suo habitat naturale.

Un secondo interrogativo – sul quale molti degli osservatori hanno concentrato la propria attenzione – riguarda le prospettive industriali del controllo spagnolo. Le preoccupazioni sulle sinergie e sulla capacità d’investimento che Madrid potrà (o vorrà) mettere in campo sono legittime: a patto di confrontarle non con un’inesistente figura di operatore benevolo e in salute bensì con la concreta esperienza della Telecom di sistema, espressione di un desiderio di controllo più che di un’idea di sviluppo del mercato delle telecomunicazioni.

Il che ci porta a una terza questione: il dibattito stucchevole e un po’ peloso sulla nazionalità delle aziende. Fa sorridere che – proprio in un settore come quello delle tlc, che ha sperimentato per anni i benefici degli investimenti esteri – trovi trazione la demagogia sul passaporto delle imprese, depositaria di un duplice equivoco: da un lato, l’idea che lo straniero miri a depredare il nostro tessuto produttivo e non, più banalmente, a diventarne parte e in qualche misura sfruttarlo per fare profitto; dall’altro, la credenza mistica che il controllo italiano automaticamente allinei la strategia dell’azienda all’interesse nazionale, qualsiasi cosa tale espressione significhi.

Quarto: in questo senso, la favola dell’italianità si rivela per quello che è: una patente di contiguità al potere: meglio l’italiano dello spagnolo – ma meglio lo spagnolo di messicani e americani – perché più vicino al palazzo, e più influenzabile dalle sue direttive. L’abdicazione degli investitori nazionali in Telco si può leggere, allora, come la conclusione di un processo di privatizzazione sostanzialmente incompiuto, una lunga stagione in cui numerosi e variegati strumenti – il “nocciolo duro”, la golden share, l’immoral suasion, le minacce di ripercussioni regolamentari, le promesse di rinazionalizzazione – hanno preservato il legame tra l’azienda e la politica, talora oltre il dato formale della sua natura privata e sempre oltre il livello di guardia dell’ingerenza pubblica.

Infine, è auspicabile che il passaggio di mano di Telecom possa contribuire all’igiene del dibattito e alla salubrità del contesto competitivo: politica e opinione pubblica dovranno smettere una volta per tutte di trattare come cosa loro un’azienda privatizzata da oltre quindici anni e, per altro verso, interventi regolamentari e para-regolamentari (si pensi al paventato ruolo della Cassa depositi e prestiti) si potranno valutare nel merito, senza alcuna logica di squadra e senza alcuna esigenza di tutela del campione nazionale. Nulla impedisce che Telecom Italia dimostri sul mercato di essere ancora un campione, ma certamente non sarà più nazionale.

@masstrovato

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1 Response

  1. Francesco_P

    Telecom e Alitalia erano carrozzoni ai tempi della proprietà pubblica e carrozzoni sono rimasti dopo le rispettive privatizzazioni. In pratica sono incapaci di stare sul mercato e delle immense “partite incagliate” per il sistema bancario. Eppure le banche le hanno finanziate fino al punto di rottura in nome di quella enorme sciocchezza che è l’italianità.
    Ora i capitali vengono dall’estero con finanziamenti di banche estere, Sicuramente saranno necessarie delle ristrutturazioni pesanti, in altri termini nuovi disoccupati. Ed è qui che i veti sindacali corporativi potrebbero creare qualche problema.
    Il sistema bancario italiano ha le sue colpe con tutti gli intrecci spuri con la partitocrazia perché ha finanziato per troppo tempo aziende manifestamente incapaci di stare su dei mercati che, peraltro, richiedono dimensioni internazionali per essere affrontati. Queste immense “partite incagliate” hanno finito col sottrarre finanziamenti alle imprese sane dato che il capitale delle banche costituisce un limite invalicabile al volume dei crediti erogati e dei titoli detenuti per investimento. Le regole di Basilea 2 e 3 hanno finito per aggravare i limiti per via della ponderazione del capitale per il rischio.
    Oggi questo mondo è finito perché sono finiti i soldi, ma purtroppo non esiste la volontà di cambiare metodo. Altrimenti le Fondazioni Bancarie avrebbero dovuto cessare di esistere da tempo, Mussari non sarebbe mai diventato il presidente dell’ABI e le nomine dei consigli di amministrazione non sarebbero occasione di scontro fra i partiti.
    P.S.
    Molto stuzzicante questo articolo de Lavoce.info: http://www.lavoce.info/i-politici-ai-vertici-delle-fondazioni-bancarie/
    La presenza di più partiti nei C.d.A. delle Fondazioni finisce par fare di questi enti dei “servitori di due o più padroni”, con l’effetto di moltiplicare le distorsioni del sistema. Al pari delle municipalizzate sono un eccellente luogo ove riciclare i “gli amici ed i compagni trombati alle ultime elezioni”.

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