6
Ott
2016

Quei “capricci” liberisti di chi vuole lavorare di più. Ma non può—di Tommaso Alberini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tommaso Alberini.

Che le liberalizzazioni non piacciano già lo sapevamo. Basta annusare l’odor di stantio proveniente dal famigerato “ddl concorrenza”, da più di un anno e mezzo ristagnante sul fondo di quel frigorifero legislativo che è il Parlamento. Quando poi, per forza di calendarizzazione, si è dovuto votare la norma, la si è accoltellata di emendamenti fino a stravolgerne la coerenza giuridica. Non sorprende, perciò, che anche quest’anno l’Italia non si smuoverà più di tanto dai 67 punti che le sono stati assegnati dall’Indice delle liberalizzazioni 2015 dell’IBL.

Eppure liberalizzare porterebbe vantaggio a tutti. I consumatori assisterebbero ad una diminuzione dei prezzi e ad una crescita del proprio purchasing power, quindi delle propria possibilità di scelta, mentre gli aspiranti produttori vedrebbero aprirsi davanti a sé nuove e allettanti opportunità imprenditoriali. Certo, chi già è sul mercato dovrebbe rimboccarsi le maniche e ingegnarsi per rendere più appetibili di altri i propri prodotti, ma il principio di un mercato libero sta proprio in questo, no? Senza concorrenza non c’è innovazione e senza innovazione, ahinoi, non c’è possibilità di crescita. Che ci sia bisogno di crescita pare una presa in giro doverlo ricordare. Nonostante ciò, i nostri legislatori sembrano non disposti a lasciare che la nostra economia prosperi come potrebbe.

Se ne è discusso anche alla decima edizione del Consumer & Retail Summit, tenutosi martedì a Milano e promosso dal Gruppo 24 Ore in collaborazione con Gdo Week e Mark Up. La fatidica “ripartenza dei consumi” che tanto stenta a decollare passa anche per le liberalizzazioni, si è ricordato, specie quelle del commercio avviate nel 2012 con “Salva Italia” e “Cresci Italia”, soffocate in culla dal veto di Regioni ed enti locali in odor di protezionismo. Nonostante le sentenze di svariati Tar, del Consiglio di Stato e persino della Consulta si è cercato in ogni modo di bloccare l’apertura dei mercati all’ingresso di nuovi competitors, dipingendo come “capriccioso” chi ha osato chiedere, tra le altre cose, di poter scegliere orari e giorni di apertura della propria attività commerciale.

Per Giovanni Cobolli Gigli, dal 2011 presidente di Federdistribuzione, di liberalizzare per davvero non se ne parlerà nemmeno stavolta, nonostante gli annunci che hanno preceduto il varo della riforma della P.A. da parte del governo: “L’attuale Legge Madia delega il Governo ad adottare decreti legislativi per semplificare i percorsi di apertura di esercizi commerciali. Ma nell’art.1 comma 3 è stato inserito un testo che va oltre la delega, prevedendo la possibilità per i comuni di impedire e vietare il nascere di nuove attività commerciali”. Oltre a soffocare, seppure indirettamente, l’emergere di nuova economia, la legge pretende persino di avere voce in capitolo su quello che dovrebbero vendere le attività già esistenti, stabilendo che “l’assortimento dei negozi dovrebbe essere composto per il 70% da prodotti locali”, un riflesso dell’assurdo regolamento della giunta di Firenze che si è deciso di portare a livello nazionale.

La soluzione è banale quanto lampante a chiunque sia dotato di buon senso: smetterla di giocare a Jenga con i diritti di consumatori e produttori e liberalizzare per davvero. Smetterla di costruire torri di cavilli e gingilli normativi e stabilire poche e chiare regole che permettano a tutti di partecipare al mercato. “L’innovazione traina i consumi”, titola giustamente la cronaca sul summit al Sole 24 Ore. E questo lo sapevamo. Senza concorrenza vera, però, l’innovazione rimane al palo. Una bella parola che fa eco alle solite belle intenzioni. Refrigerate. In Parlamento.

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