8
Mar
2017

L’esca fiscale per stranieri ricchi è mal pensata: serve una flat tax per tutti gli italiani

Piano, prima di celebrare la nuova trovata per attirare ricchi stranieri in Italia come fosse un bel segno, la prova che finalmente anche l’Italia ad altissimo prelievo fiscale si mette al passo con i paesi leader del mondo, capaci di attirare cervelli e capitali con tasse più basse. Ad un primo esame, infatti, non sembra proprio.

La norma è prevista nella legge di bilancio per il 2017, e oggi l’Agenzia delle Entrate ha comunicato che sono pronte le procedure attuative. Per chi è residente fuori Italia da almeno 9 anni nei precedenti 10 diventa possibile spostare la residenza qui da noi, versando una somma fissa di regolarizzazione annuale dei redditi che continua a realizzare all’estero: 100mila euro l’anno, più 25 mila per ogni componente del nucleo familiare se titolare di altri redditi, propri o in regime di splitting. La somma è dovuta per ogni anno di residenza in Italia fino a 15 a venire, l’ammissione al beneficio si può richiedere anche telematicamente, rispondendo poi a una serie di domande sul o sui paesi in cui si è risieduto e si continuerà a produrre il reddito. L’Agenzia delle Entrate si riserva un’istruttoria per la risposta affermativa. L’obiettivo è chiaro: attirare ricchi contribuenti, che realizzino all’estero redditi molto importanti da cespiti mobiliari o immobiliari, oltre che da lavoro. Finalmente faremo concorrenza a regimi simili adottati per esempio nel Regno Unito, si dice.

Attenzione, non è una flat tax, come erroneamente la definiscono molti. La flat tax – ci torneremo più avanti – è un’aliquota di tassazione dei redditi piatta, cioè proporzionale invece che progressiva. Qui non c’è aliquota e non conta nulla l’imponibile a cui applicarla. Non è neanche un condono, come altri scorrettamente dicono. Il condono si può applicare – spesso è avvenuto, purtroppo, in Italia – all’emersione di redditi di pertinenza del fisco italiano ma sottratti indebitamente alla sua imposizione: qui si tratta di redditi realizzati altrove, da soggetti che non erano tenuti ad alcun dovere fiscale verso la nostra Repubblica. In gergo tecnico è una lump sum: una somma forfettaria dovuta fuori dalle regole ordinarie del prelievo (ci sarebbe da fare un discorsetto sulla sua efficienza paretiana, caratteristica che deve avere per essere davvero una lump sum, ma è cosa per addetti ai lavori).

Definito bene ciò di cui si parla, e prendendo atto dell’apprezzabile volontà di diventare più attrattivi verso coloro che possano venire a spendere parecchio anche in Italia, dove sono i problemi? Ce ne sono eccome.

Cominciamo da quelli che riguardano i soggetti a cui la misura si rivolge, i ricchi stranieri. Per prima cosa, se diventano residenti in Italia e realizzano un reddito anche qui, ad esso si applicheranno le nostre attuali aliquote, quindi pagheranno tantissimo. Ma soprattutto, ora che possono prendere in considerazione l’offerta concreta italiana, non è affatto detto che possano contare sul fatto che essa vada bene al Paese in cui il reddito lo producono. L’Italia, come tutti i Paesi avanzati, è sottoposta al rispetto di una pila alta così di intese bilaterali in materia sottoscritte con tutti gli altri paesi OCSE, i cosiddetti “trattati sulla doppia imposizione”. Essi disciplinano proprio la regolazione dei rapporti fiscali sovrani sui soggetti d’imposta che stiano, per residenza o attività, “a cavallo” dell’ottemperanza tributaria in ognuno dei due Paesi.

C’è chi applica detrazioni anche cospicue o ritenute basse ai propri espatriati, che continuano però a percepire redditi realizzati nel Paese-fonte. C’è chi applica benefici invece minori, e chi anche non ne applica quasi per nulla: perché se li vuole tenere stretti, i propri contribuenti. Ma una cosa è sicura: qualcuno o molti paesi OCSE potrebbe benissimo considerare questa improvvisa “trovata” italiana come un tentativo improprio di sottrarre loro pingui entrate. E magari allora impugneranno le intese bilaterali con l’Italia. E qualcuno potrebbe anche denunciare Roma davanti alla Commissione Europea per trattamento fiscale anti-concorrenziale, cioè tale da procurare un indebito vantaggio fiscale a chi per esempio continuasse a ricavare redditi da capitale o impresa nel Paese-fonte, rispetto a tutti coloro che invece vi sono residenti e continuano a pagarvi le tasse dovute in quell’ordinamento.  Difficile immaginare dunque un esodo di massa di grandi ricchi dai paesi avanzati in Italia, finché non siano chiariti a livello bilaterale con molti grandi Paesi gli aspetti tecnici della nuova norma italiana.

Fin qui i problemi per gli eventuali beneficiari. Ma ora veniamo a quelli nostrani. Che sono ben più importanti. Come fanno a pensare al MEF che questo tributo capitario extra ordinamentale possa reggere a eventuali – ma diamole per scontate – impugnative davanti alla Corte costituzionale, derivanti da eccezioni sollevate con giudizio incidentale davanti a un giudice italiano? Perché la prima cosa che vien da pensare è che i 100mila euro annui a prescindere dall’imponibile siano una misura in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, cioè del principio di eguaglianza (in questo caso eguaglianza di trattamento fiscale rispetto ai contribuenti italiani), e dell’articolo 53, che informa il nostro sistema tributario a principi di progressività del prelievo.

MEF e AgEntrate possono in effetti pensare che nel nostro ordinamento in realtà le aliquote ordinarie sul reddito convivono già con una miriade di cedolari secche, cioè di prelievi proporzionali. Infatti purtroppo è vero: è la proliferazione di queste cedolari che ha stravolto il nostro sistema fiscale, ormai solo fittiziamente progressivo. Cioè progressivo, troppo progressivo, ma solo sul lavoro. E con effetti di drastica accelerazione del prelievo sopra i 28mila euro di reddito, come di enorme differenza dell’aliquota reale al di sotto, ulteriormente aggravati dall’effetto-soglia esercitato dal bonus 80 euro. Ricordate poi che a seconda del contratto di affitto che avete acceso da proprietari sul vostro immobile pagate un’aliquota diversa, proporzionale o progressiva. A seconda di quale sia il vostro cespite di reddito da capitale potete pagare un’aliquota proporzionale del 12,5% (naturalmente solo per i titoli di Stato..), del 20% o del 26%. Quanto al reddito d’impresa, a seconda della sua dimensione e anzianità si può pagare un’aliquota del 5%, del 15% o da quest’anno il 24%, rispetto al 27,5% dovuto l’anno scorso come aliquota legale IRES.

Rispetto a questa casacca di Arlecchino a cui è ridotto il prelievo sul reddito in Italia, che differenza potrà mai fare alla Corte costituzionale la lump sum dei 100mila euro a forfait riservata ai ricchi “impatriati”? Può invece farla, eccome. Perché le cedolari secche che abbiamo elencato prima hanno a che fare comunque con particolari cespiti e sono comunque proporzionali al reddito (talora anche a un mix redditual-patrimoniale, in Italia le follie fiscali non ci fanno mancare nulla). Mentre i 100mila euro riservati ai ricchi stranieri non distinguono cespiti ma li raggruppano tutti, e comunque prescindono dai redditi reali, né sono ad essi in proporzione. Ergo la Corte costituzionale potrebbe eccepire benissimo, su questa imposta sostitutiva extra ordinem. Perché su questa base resta difficilmente comprensibile come un italiano debba pagare sul reddito di immobili all’estero la sua disperante aliquota alta, mentre un neoresidente no. Per non parlare del rischio che qualche criminale italiano approfitti della generosa offerta dei 100mila euro per regolarizzare redditi da patrimoni detenuti all’estero (su questo, prendiamone atto, AgEntrate promette che vigilerà attentamente)

Conclusione. Per come appare, è una misura dalle buone intenzioni ma gravata da enormi possibili e seri problemi. Atra cosa sarebbe proporla in contemporanea a una generale riforma dell’IRPEF, volta a mettere ordine nella pluralità di tassazioni cedolari e razionalizzando l’attuale progressività impropria, per disegnare invece per tutti gli italiani un’aliquota unica di convergenza a cui sottoporre la tassazione di tutti i redditi, senza eccezione. Un’aliquota unica – quella sì allora definibile come flat tax – resa costituzionalmente compatibile con gli articoli 3 e 53 della Carta perché di effetto progressivo, attraverso un disegno appunto progressivo delle detrazioni e deduzioni. Tale da coprire per gettito la spesa necessaria per un welfare efficiente. E capace di assicurare a chi sta sotto la povertà assoluta il minimo vitale, attraverso un’imposta negativa. Ne parleremo un’altra volta. Ma in quel quadro sì, che i 100mila euro agli stranieri sarebbero meno problematici. Perché renderemmo il fisco uno strumento finalmente favorevole e non ostile alla crescita. Ma alla crescita di tutti gli italiani, non di pochissimi agiati neoresidenti in Italia.

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