30
Mag
2011

La piovra della spesa pubblica secondo Ferrero (già un secolo fa)

In ogni giornata zeppa di analisi elettorali e di commenti, durante la quale le parole vuote quasi sempre prevalgono sulla riflessione e sull’approfondimento, può essere utile andare indietro nel tempo e abbeverarsi a un autore evergreen: quel Guglielmo Ferrero che nacque nel 1871 vicino a Napoli (a Portici) e per molti anni fu una delle firme principali – assieme a Edoardo Giretti, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto – de Il Secolo, quotidiano di Milano che fu il primo giornale d’Italia e venne chiuso nel 1927 a causa del suo orientamento liberal-radicale.

Nel 1922 sul Secolo Ferrero scrive un articolo che richiama l’attenzione su un dato macroscopico, non molto avvertito nell’Italia di allora – che pure stava precipitando verso la dittatura fascista – e su cui non si riflette neppure ai nostri giorni, che vedono il Paese decadere progressivamente da tanti punti di vista. In questa pagina Ferrero anticipa l’orologio del debito realizzato dall’IBL e punta il dito contro la spesa pubblica, i bilanci statali fuori controllo, la tassazione. Egli vede solo l’uovo del serpente, dato che allora lo Stato italiano era piccola cosa se confrontato a quanto è diventato ora, ma capisce  molto e intuisce ancora di più.

Il grande storico della società romana e dell’età napoleonica parla di “rapacità”, “spoliazione”, “immensità oceanica dello sbilancio”, ecc., evidenziando come un simile processo di espansione dello Stato possa causare solo conseguenze negative.

Non sarebbe una cattiva cosa se chi da domani dovrà reggere Milano o Napoli riflettesse sulle inquietudini di Ferrero e ne traesse un qualche insegnamento.

La testa di Medusa

In mezzo ai proclami imperiosi del nuovo governo, fa impressione la timidezza e l’impaccio delle dichiarazioni, che il Ministro del Tesoro ha fatto ripetutamente agli organi della pubblica opinione, «Sì, faremo economia, ma non bisogna illudersi troppo; le economie sono e non sono possibili; nessun Ministero ne farà quante noi, ma…». Il bilancio dello Stato è la testa di Medusa, a cui popoli e governi non osano più, in tutta Europa, alzare gli occhi. Poiché in Italia incomincia, si dice, una epoca nuova, vogliamo provarci, noi, a guardare la faccia del mostro!

Uno solo tra i grandi Stati belligeranti dell’Intesa è quasi riuscito a pareggiare i suoi conti e a risanare la moneta: l’Inghilterra. Forse perché i suoi finanzieri sono più abili e audaci? No, perché l’arte di spremere i popoli è la sola che tutti gli Stati moderni conoscono a perfezione. La ragione è, purtroppo, nel tempo stesso più semplice e più profonda. L’Inghilterra sola è riuscita a pareggiare i suoi conti, perché l’Inghilterra sola, essendo più ricca ed essendo stata meno impoverita dalla guerra, è in grado di mantenere con uno sforzo supremo tutti gli smisurati impegni assunti durante la guerra. Gli altri Stati non si sono, durante la guerra e nei primi tre anni di pace, impegnati oltre la misura delle loro forze.

Anche questo nodo terribile, che sta per venire al pettine, incominciò ad arruffarsi con la Rivoluzione francese. La rapacità fiscale degli antichi regimi, è una delle tante invenzioni, con cui i governi, figli legittimi o spuri della Rivoluzione francese, hanno cercato di farsi belli con meriti immaginari. Gli antichi regimi davano ed esigevano poco; trascuravano i servizi pubblici, ma risparmiavano i contribuenti, rassegnandosi alle strettezze dei disavanzi cronici. Il difetto delle antiche imposte era non il peso soverchio, ma la cattiva ripartizione. Ma è venuto, tra le folgori e gli uragani, come un arcangelo, il secolo XIX, ed ha fatto finalmente giustizia: ha spogliato egualmente tutti!

Con il secolo XIX, e massimo dopo il ‘48, dominò quasi dappertutto, in Europa, il nuovo Stato, prodigo e rapace, che prende denari a tutti e li spande a larghe mani tra i suoi favoriti; che gode di largo credito ed ipoteca con quelli l’avvenire, come se gli appartenesse; che moltiplica i servizi pubblici, li dota generosamente, li amplia, li perfeziona, ma che vuole le casse sempre rigurgitanti. Guai se i conti non si chiudono a suo favore! Un disavanzo gli sembra poco meno che la prefazione dell’Apocalisse. Lo Stato insomma, che non ha paura di nessuna spesa, perché è sicuro di trovar sempre nelle tasche dei contribuenti e nei forzieri delle banche quanto denaro gli occorre; lo Stato, che vuole immedesimare la prosperità propria con la felicità universale.

Figlio della Rivoluzione francese, questo Stato prodigo e rapace ha prosperato in Europa dal ‘48 in poi, insieme con la vittoriosa espansione della civiltà quantitativa; perché la nuova era del ferro e del fuoco ha deposto ai suoi piedi ogni anno favolose ricchezze. Dal 1848 al 1914 spese, imposte e debiti sono cresciuti in tutta l’Europa, insieme con la prosperità pubblica. Lo Stato è diventato la prima potenza capitalistica, il pilone centrale della fortuna di ogni nazione. Più che per forza d’armi o per sincero consenso degli spiriti con le sue spesso nebulose ed equivoche dottrine, lo Stato moderno si è retto sino al 1914 per questo suo solidissimo credito. Ma dal credito, dalla potenza che il credito gli conferiva, è nata anche l’illusione che le spese e i debiti degli Stati potessero crescere illimitatamente.

Tra le molte illusioni, che da un secolo hanno esaltato l’energia della civiltà occidentale, una delle più potenti fu questa. Senza questa illusione la guerra mondiale non avrebbe potuto durare più di quattr’anni e il mondo non avrebbe osato di spendere, per combatterla, mille miliardi. Ma l’illusione ha condotto i maggiori Stati dell’Europa alla insolubile difficoltà presente. Che i governi abbiano impegnato i popoli al di là delle loro forze, tutti lo presentono e lo temono. L’universale angoscia, che nessuna ebbrezza della vittoria può vincere, nasce da questo oscuro timore. Ma quanti osano proporsi apertamente e risolutamente il quesito? Chi ha il coraggio di chiedersi se gli Stati belligeranti non hanno presunto troppo spensieratamente di se medesimi, caricando sulle spalle dei popoli un peso sotto il quale anche lo sforzo più estremo si spezzerebbe?

Eppure questo è il nodo delle difficoltà, attorno al quale la scienza dei finanzieri si trastulla da quattro anni, come fosse uno dei soliti noducci, in cui le finanze degli Stati sono inceppate nel secolo XIX. È invece un mostruoso nodo gordiano; e sinché non sarà tagliato, i ministri delle finanze si troveranno inchiodati tra due possibilità; quella di fare economie e quella di imposte adeguate alla immensità oceanica dello sbilancio.

Chi può sperare che si risparmino i miliardi necessari a salvare l’Europa dal fallimento, se gli smisurati impegni presi durante la guerra conservano il carattere di una inflessibile legge di ferro? Se gli interessi non consentono a un concordato equo e savio, in cui essi si salvino insieme alla società? E se questi miliardi non si risparmiano, chi può credere, per limitarsi al caso nostro, che si potranno estorcere all’Italia, anche riformando, come deve esser riformato, il nostro sistema fiscale, massimo se si vuoi ridare alla moneta un po’ del suo valore? Bisognerebbe supporre che sull’Italia impoverita dalla guerra si possano raddoppiare, al ragguaglio dell’oro, le imposte del 1914!

Che cosa accadrà allora se gli Stati si ostinano a voler pareggiare l’impareggiabile? Che dopo aver flagellato a sangue le nazioni, dovranno, per riempire i bilanci, spalancare di nuovo le cataratte, oggi socchiuse, della carta moneta. Lo Stato, il quale paga i frutti dovuti ai creditori, le pensioni promesse, gli stipendi scaduti con una moneta rinvilita ha già mancato alla parola e all’impegno. Adempie solo nella forma; di fatto è già in fallimento. Non sarebbe più leale, un concordato sincero che riconoscesse apertamente l’errore commesso?

Gli Stati di Europa si trovano innanzi non ad una difficoltà di ordine economico, ma ad una difficoltà di ordine morale. Tutta l’arte e tutta la scienza dei finanzieri non serviranno a nulla, se i popoli e gli Stati non faranno prima un grande esame di coscienza, se non riconosceranno di aver troppo presunto delle proprie forze, se non saranno disposti ai sacrifici necessari, per riparare questo formidabile errore, che sta minando nelle fondamenta l’edificio dei secoli. Ma questo esame e questo riconoscimento sono un atto della coscienza morale, con il quale la scienza delle finanze non ha nulla a vedere. Guai se i popoli non si accorgono che oggi, per salvare la loro fortuna, la scienza dei finanzieri non basta; occorre anzitutto che essi siano capaci di compiere un grande atto di sincerità e di lealtà. Senza questo coraggio, la scienza delle finanze sarà con la Tattica e la Strategia, il terzo becchino della civiltà moderna. Saprà il nuovo governo dare alla nazione l’esempio di questo coraggio?

Milano, 11 novembre 1922

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2 Responses

  1. È il nostro momento dei giovani volenterosi, eccellenze professionali, per imporre con energia il cambianto organizzato guidato dai nostri valori cattolici e liberali. La proposta meno Stato imprenditore, più Stato autorità per concorrenza e standard di qualità dei servizi pubblici in ogni settore. I servizi pubblici devono costare di meno ed essere più soddisfacenti per i bisogni dell’utenza. La terapia è la solita trasparenza e concorrenza leale, senza dumping o sottocosto, deve sempre imporsi l’offerta economicamente vantaggiosa con i parametri ponderati all’80% per la qualità del progeto ed al 20% per l’offerta economica. Io sono pronto a partire subiti con un squadra di economisti ed econometristi molto valida.

  2. Marco

    Questa mattina, ho avuto notizia di un mio cliente di vecchia data che si è impiccato.

    Il motivo è la crisi economica ma in primis il fisco italiano, era reduce da un’ispezione della GDF, e come un uomo ed un imprenditore, si è fatto carico di tutto indebitandosi terribilmente.
    Avesse fatto come fanno in molti, ossia fallisci, non paghi nessuno fai una SRL a nome di tua moglie e riparti da capo senza debiti e problemi, forse sarebbe ancora vivo.
    La crisi della sua piccola impresa edile non tanto per il lavoro che aveva copioso, ma per i crediti insoluti, per i quali non puoi far nulla perchè la giustizia italiana e quel che è.

    Ed una seconda visita della Guardia di finanza, l’anno fatto appendere ad una corda legata ad una trave di un suo cantiere.

    Come può un’imprenditore come quello, che veniva da me in ufficio sempre sporco di cemento, con le unghie incrostate di polvere e malta, e sempre ad orari improbabili, perchè “noi si lavora fino a tardi” fare una fine del genere schiacciato negli ingranaggi del sistema italiano.
    In cui prima ti danno una mole di adempimenti tali che anche volendo non puoi essere in regola, poi una pressione fiscale tale che chiunque ne avverte l’ingiustizia e se lavori 14 ore al giorno vorresti anche guadagnare qualcosa, infine ti controllano e ti ricontrollano trattandoti peggio di un assassino.
    Infine la giustizia che non è tale, che fa si che sia il moroso a minacciarti l’azione giudiziale.

    Con la crisi che tutto amplifica si sarà sentito solo (le banche non ti aiutano sicuramente ma d’altro canto non sono o non dovrebbero essere finanziate con le nostre tasse per cui fanno bene a fare il loro lavoro), abbandonato e schiacciato dai debiti è stato ammazzato da uno stato tiranno e ladro.

    Si vergognino tutti i politici, per tutto quello che non hanno fatto e che avrebbero potuto fare, abbattere il debito pubblico e la pressione fiscale, la riforma della giustizia.

    Sentano le mani sporche del sangue di chi si è suicidato come il povero G., tutti quei politici che intrallazzano e facendo affari sullo stato italiano e sulla nostra pelle si arricchiscono senza far fatica.

    Cordiali saluti.

    Marco

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