14
Lug
2010

Viva la diga!

In uno straordinario articolo del 1994, il premio Nobel Douglass North spiegava che le istituzioni hanno un ruolo fondamentale nel determinare le prospettive di crescita economica di un paese. Per sortire gli effetti sperati, però, le norme – intese sia come leggi formali sia come norme informali – devono essere credibili e stabili. Tante volte, nel passato, noi dell’Istituto Bruno Leoni abbiamo sottolineato come i problemi italiani non derivino solo dal fatto che abbiamo cattive norme, ma anche da quello che abbiamo norme che cambiano continuamente (e normalmente peggiorano). Il caso delle concessioni idroelettriche è al limite del paradosso perfino per gli standard italiani.

L’idroelettrico è la principale fonte rinnovabile impiegata nel nostro paese per la generazione elettrica: secondo i dati Terna, nel 2009 era installata una capacità idroelettrica complessiva di oltre 21 GW (esclusi gli autoproduttori), pari a circa il 21 per cento della potenza totale disponibile. La maggior parte di questa capacità si trova, per ovvie ragioni morfologiche, in Lombardia (27 per cento), Piemonte (16 per cento) e Trentino Alto Adige (14 per cento). Il contributo che questa fonte offre ai consumi nazionali può difficilmente essere ignorato: quasi il 15 per cento della produzione italiana (pari a quasi 320 TWh), tutti carbon-free. Le grandi centrali idroelettriche sono tutti gioielli tecnologici che abbiamo ereditato dal passato, quando l’acqua era la nostra principale fonte per la generazione elettrica (solo negli anni Sessante la sua quota scenderà al di sotto del 50 per cento del totale prodotto, come spiega GB Zorzoli nel suo godibilissimo Strano mercato, quello elettrico).

Al momento della liberalizzazione, questa “rendita” – tanto importante – è stata assegnata, tramite concessioni, all’ex monopolista Enel, alle Genco che ne vennero scorporate e successivamente privatizzate, alle municipalizzate che si erano sottratte al destino della nazionalizzazione nel 1962, e ad altri soggetti. L’articolo 12 del decreto Bersani, tuttora in vigore, prevede che le amministrazioni interessate si mettano in moto, almeno 5 anni prima della scadenza delle concessioni, per bandire le procedure a evidenza pubblica per il rilascio delle nuove condizioni.

Houston, abbiamo un problema: tra il 2010 e il 2013 scadranno 34 concessioni di grande derivazione per una potenza efficiente totale di 830 MW (di cui 380 MW in Lombardia e 370 MW in Piemonte). Le prime scadenze avverranno alla fine di quest’anno. Non solo nessuno ha dato seguito per tempo alla richiesta di predisporre, con 5 anni di anticipo, i bandi e le procedure di gara. Non solo non lo hanno fatto neppure con 4 e con 3 e con 2 e con 1 anni di anticipo. Non solo tutto è ancora fermo. Peggio ancora, sono da tempo in discussione, e attualmente giacenti in Parlamento, diverse proposte di revisione dell’articolo 12 del decreto Bersani che hanno l’effetto immediato di gettare nel panico i titolari attuali e potenziali delle concessioni, e quello più vasto di gettare il paese nel ridicolo e la sua credibilità alle ortiche.

Prima di vedere nel dettaglio le proposte, però, occorre ricordare ulteriori elementi di complicazione. Primo: nel 2000 la Commissione aveva aperto, a carico dell’Italia, una procedura di infrazione a causa della preferenza al concessionario uscente, garantita dal Bersani. Secondo: a sanare la questione, creando autentica eguaglianza tra i concorrenti, ha provveduto la Finanziaria 2006, che prevedeva da un lato l’abolizione di tale corsia preferenziale, dall’altro un transitorio di 10 anni per implementare le modifiche. Terzo: nel 2008 la Corte costituzionale giudica illegittima la misura contenuta nella Finanziaria 2006, non per ragioni di sostanza ma per faccende formali. Morale della favola: tutto all’aria. Quarto: il federalismo demaniale trasferisce alle regioni il demanio idrico. Quinto: la manovra finanziaria in via di conversione crea un nuovo sovracanone ambientale a favore dello Stato, la cui entità è commisurata ai canoni vigenti. Morale numero 2: altra confusione sotto il cielo, e nuove tasse in arrivo.

Torniamo all’articolo 12. Le proposte di modifica investono praticamente tutti gli aspetti delle concessioni, dalle basi di calcolo di canoni e sovracanoni alla durata delle concessioni (nel senso delle proroghe), alla ripartizione dei poteri e delle competenze tra Stato e regioni. Morale numero 3: non solo c’è grande confusione rispetto allo stato dell’arte, ma c’è ancora più confusione riguardo alla direzione in cui le cose evolveranno.

Nel mezzo di questa confusione, si è inserita la Lega con una serie di proposte che, se da un lato fanno chiarezza, dall’altro la fanno nel modo peggiore possibile. Il nodo gordiano viene sciolto con la spada dell’esproprio sostanziale delle concessioni e del ricorso a forme di interventismo municipal-provincial-regionale. Come? Lo spiega molto chiaramente Stefano Agnoli in un corsivo sul Corriere della sera di oggi (se qualcuno trova un link, per favore lo segnali nei commenti):

Il testo che finirebbe nella manovra [se l’emendamento leghista approvato in Commissione non fosse in qualche modo rigettato] prevede, in sostanza, una proroga delle concessioni idroelettriche di 5 anni, che potrebbe però allungarsi fino a 12 anni se le aziende titolari cedessero tra il 30 e il 40 per cento dei loro diritti di sfruttamento a cinque province: quelle di Como, Sondrio, Belluno, Brescia e Verbania. Le quote finirebbero in società miste e passerebbero di mano a titolo gratuito.

Il modello che hanno in mente i leghisti è quello delle province di Trento e Bolzano, duramente criticato dall’Antitrust. Secondo l’organismo guidato da Antonio Catricalà,

La stessa costituzione della impresa comune rischia di vanificare quel poco di concorrenza per il mercato che residua in una procedura di assegnazione già altamente imperfetta.

Del resto, l’alternativa realistica alla padella provinciale pare essere la brace regionale: la Lombardia ha aperto le danze, dando chiari segnali dell’intenzione di bandire gare il prima possibile allo scopo non nascosto di aggiudicarsi le concessioni attraverso società veicolo. Il destino dell’idroelettrico, dunque, sembra di essere pubblico, e la domanda appare riguardare più l’identità del particolare soggetto pubblico che chiuderà la fragile parentesi di mercato a cui abbiamo assistito, con tutte le difficoltà e le imperfezioni del caso, nell’ultimo decennio.

La cosa più preoccupante, però, è che tutto ciò avvenga nella sostanziale indifferenza generale e, soprattutto, nella piùtotale confusione anche tra i soggetti pubblici interessati e le proposte tese a sostenerne gli interessi. Quello che accomuna tutte le proposte, però, è il tono à la Sopranos:  sarà meglio che non facciate storie, altrimenti… pota!

4 Responses

  1. Francesco Zanardi

    Le centrali idroelettriche, per ragioni meramente tecniche, sono equiparabili ad un investimento finanziario dal rendimento alto e garantito con rischio zero. I gioielli tecnologici di cui parla Carlo Stagnaro sono, come dice lui, ereditati dal passato: turbine e opere murarie con alle spalle mezzo secolo o più di lavoro, ma ancora all’avanguardia. Infatti la tecnologia idroelettrica è da tempo matura tanto che le turbine di mezzo secolo fa hanno poco da invidiare a quelle di oggi.
    Non mi stupisce che gli enti locali stiano tentando di mettere le mani su queste vere e proprie vacche da mungere, con buona pace delle liberalizzazioni.

  2. stefano

    Mi sa che ci conviene armarci di santa pazienza e di cyclettes dinamate per autoprodurci la corrente.
    Quantomeno guadagneremo in salute fisica e crederemo di pagare meno tasse.
    Coraggio, il meglio è passato. (E.Flaiano)

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