3
Ott
2011

Questa sì che è bella / 2. La privatizzazione del patrimonio immobiliare

Sulla privatizzazione degli immobili pubblici tutti sono d’accordo e nessuno, a parole, è contrario. Quindi, ora che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha annunciato un grande piano di privatizzazioni, è giunto il momento del dunque. O no?

Secondo di una serie di post. Il primo, sulla “privatizzazione” della CO2, si trova qui.

Il seminario sulle privatizzazioni che si è svolto qualche giorno fa al Tesoro aiuta a comprendere meglio la situazione reale in cui ci stiamo muovendo. I numeri non sono nuovi e, sostanzialmente, confermano stime precedenti, compresa la nostra. Dalla privatizzazione degli immobili pubblici in mano allo Stato avevamo stimato di poter ricavare 36 miliardi di euro, leggermente al di sopra dei 25-30 miliardi ricavabili secondo i tecnici del ministero (che ha affidato il censimento del patrimonio e le strategie per metterlo a frutto a Edoardo Reviglio e Stefano Scalera: qui le rispettive presentazioni). La differenza è che i “nostri” 36 miliardi si riferivano al solo patrimonio statale, mentre i 25-30 del Tesoro a tutto il patrimonio di tutte le amministrazioni. Come è possibile?

Per entrare nei numeri bisogna considerare che, dei circa 700 miliardi di euro di valore stimato dell’intero patrimonio fruttifero delle amministrazioni pubbliche italiane, gli immobili valgono circa 420, dei quali 72 in mano allo Stato e il resto ad altri enti pubblici o a regioni ed enti locali. Sebbene anche il patrimonio locale possa (e debba) essere privatizzato, è su quello statale che bisogna muoversi per primo. Se non altro perché (a) nessuno può vendere quello che non possiede e (b) gran parte dell’indebitamento pubblico si trova al livello centrale. In più, rispetto a un rendimento teorico stimato del 6 per cento, il rendimento effettivo del patrimonio immobiliare pubblico è risibile: 0,1 per cento (a livello locale, 0,5 per cento).

Purtroppo, per quel che si capisce il ministero non ha in mente un piano di cessioni quanto un piano di valorizzazione, che dovrebbe assumere la forma del conferimento del patrimonio immobiliare più o meno disponibile a una Sgr pubblica incaricata di metterlo a frutto. La parte di cessione vera e propria riguarda una porzione piccola del patrimonio. Questo significa che, per la maggior parte, il ministero – sotto l’etichetta “privatizzazione” – ha in mente in realtà l’ingresso attivo e diretto del governo sul mercato immobiliare.

Tant’è che il fondo di cui si parla dovrebbe finanziarsi con le “disponibilità degli enti pubblici” e, al massimo, cercando risorse da investitori istituzionali, mentre dovrebbe investire su locazioni passive della PA, concessioni di beni e infrastrutture e valorizzazione dei beni. Al di là della confusa e omnicomprensiva missione del fondo, stiamo forse dicendo che lo Stato intende entrare in competizione (attraverso un suo fondo) con gestori di autostrade e stabilimenti balneari, per ottenere beni e servizi in concessione da se stesso? Se stiamo dicendo questo, siamo su una strada completamente sbagliata, che non è quella della privatizzazione ma quella del lifting allo Stato palazzinaro.

Per operare una corretta politica di privatizzazioni, bisogna invece seguire una strada assai diversa, che in comune con quella disegnata da Tremonti ha solo lo strumento del fondo. Attenzione, però: non un maxi-fondo di dimensioni ingovernabili, ma un certo numero di fondo più piccoli ai quali viene data una dotazione di immobili grosso modo omogenei tra di loro (per area geografica e/o per destinazione di utilizzo). Questi immobili devono provenire principalmente dalle amministrazioni centrali e, laddove possibile tecnicamente e politicamente, dalle amministrazioni decentrate, magari swappandoli col loro debito (come ha proposto Nicola Rossi). Il gestore del fondo deve essere individuato con gara e deve essere privato, ma la differenza rispetto alla proposta del Tesoro è nel passo successivo: una volta che il fondo sia stato costituito, abbia ottenuto il conferimento degli immobili e sia stato affidato a un gestore, esso deve essere collocato tramite un’Ipo in modo da passare in mani privati. Lo Stato non deve gestire meglio gli immobili: deve smettere di gestirli.

E questo porta a un’ulteriore differenza. La cessione degli immobili non deve e non può riguardare unicamente gli edifici “liberi” o, al più, funzionare, come si legge nelle slide di Scalera, a “supporto ai processi di razionalizzazione degli spazi” delle pubbliche amministrazioni. Deve riguardare anche e soprattutto gli immobili attualmente occupati dalle PA. Infatti il problema (e l’inefficienza) non sta tanto nelle stamberghe vuote, ma nell’impiego irrazionale di spazi eccessivi e, spesso, pregiati. In altre parole, gli uffici pubblici non devono essere considerati come un tabù, ma vanno messi essi stessi alla prova del mercato: non è affatto scontato che, per svolgere bene le sue funzioni, l’ente X debba occupare un palazzo duecentesco in centro; probabilmente può fare altrettanto bene muovendosi in periferia in un palazzone Anni Sessanta. Le PA che occupano immobili eccessivi o troppo di pregio non devono essere tollerate; devono essere indotte a pagare per quel che occupano, esattamente come pagherebbe un qualunque privato, oppure a spostarsi altrove. Anche questo è un modo di indurre risparmi strutturali da un lato, crescita economica dall’altro.

In conclusione, il piano di privatizzazione degli immobili sembra essere soprattutto un gigantesco rimescolamento delle carte, il cui scopo ultimo è far emergere liquidità attraverso trasferimenti tra le pubbliche amministrazioni e, solo in misura residuale, comporta la effettiva cessione di parte del patrimonio immobiliare. Se le allusioni dicono qualcosa (si veda il continuo riferimento alle caserme), per giunta, Tremonti sembra intenzionato a privatizzare solo quella parte del patrimonio che, in assenza di un intervento pesante, per esempio, sull’aspetto vincolistico, è sostanzialmente non privatizzabile (per assenza di compratori).

Privatizzare non vuol dire cambiare la natura societaria dell’ente proprietario dell’immobile, senza cambiarne però la natura pubblica. Privatizzare vuol dire far passare beni pubblici in mani private. Come ha detto un signore importante,

In generale in Europa e in Italia, la ricreazione è finita. Non può continuare, deve finire, l’illusione che la spesa pubblica sia o possa essere una variabile indipendente dal Pil.

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7 Responses

  1. Giuseppe Gilardoni - Genova

    Perchè il governo continua a fare il furbastro?…. Finge di marciare a destra per arrivare a sinistra. Proprio loro – pronti ad usare la parola “terroni” con la maggior carica di intenti offensivi – si comportano da magliari e da “gattopardi”! Pensano che chi, come me, li ha eletti sia diventato scemo?

  2. Luciana

    io sono contraria alla privatizzazione perchè i bellisimi palazzi del duecento andranno certamente a persone abbienti e per noi poveracci manco la possibilità di accedervi quando andiamo a prendere un certificato; quando va bene saranno ricconi tipo Della Valle, peggio quando ad acquistare saranno russi e arabi. ma possibile che dobbiamo perdere sempre tutto non sappiamo far a curare i nostri beni?

  3. Piero

    In generale in Europa e in Italia, la ricreazione è finita. Non può continuare, deve finire, l’illusione che la spesa pubblica sia o possa essere una variabile indipendente dal Pil.

    concordo 100%…
    INDISPENSABILE taglio spesa corrente e privatizzazioni (anche se saremo costrette a farle a quasi a prezzi di saldo)..

    aggiungo… NON BASTERA’..

    saremo COSTRETTI anche a vera lotta all’evasione e patrimoniale over 800.000..

    agire solo su uno dei due rami è non solo impossibile (x ragioni di consenso sociale che ha bisogno di equità x digerire i tagli) ma pure inutile (troppo lento vs velocità crisi)..

  4. maumen

    La verità vera è che il difetto delle privatizzazioni dell’IRI e degli enti di Stato è che, a conti fatti, pochissime aziende sono state veramente vendute a privati: esempio ENI e ENEL sono rispettivamente con il 20% ed il 30% di proprietà del Tesoro più il resto delle azioni parcheggiate presso la Cassa Depositi e Prestiti garantiscono il controllo delle società, escludendo qualsiasi interesse da parte di investitori internazionali. Risultato: come si fa a far scendere le tariffe con quella fame di dividendi che ha il Tesoro? E cosa ne è di: INA, Finmeccanica, Alitalia (53%), Ferrovie, Telecom, Autostrade, Autogrill, Aeroporti di Roma (51,2%), Fincantieri (83%), Tirrenia (80%), Cofiri 93,5%, RAI (99,5%), Fintecna (100%), Sasa Assicurazioni (73,8 %); Sasa vita (50%) legate formalmente a privati ma effettivamente a patti di sindacato che di nuovo assicurano al potere politico il controllo di sempre. Qui si è perduta qualsiasi logica industriale per cui ecco la rincorsa alle ca 600 nomine di dirigenti a cui stiamo assistendo.

  5. lionello ruggieri

    Una sola parola: ridicolo. Come ridicola è l’idea che lo Stato paghi a sé stesso affitti per gli immobili che usa spostando soldi dalla tasca destra alla sinistra. Inoltre queste operazioni sono di importi ridicoli ed inutili sia nella valutazione di 36 miliardi che in quella di 25-30, valutazione che non è di poco inferiore a quella dell’autore dell’articolo ma minore di circa il 20 o 30%.

  6. Carlo Stagnaro

    Roberto: sono molto d’accordo con l’idea di Pelanda per gli immobili e, entro certi limiti, le municipalizzate. Non credo sia necessario per le società partecipate dal tesoro, che possono essere tranquillamente vendute.

    Ruggieri: 36 miliardi è un importo piccolo relativamente al debito, ma non irrilevante. Inoltre, come ho scritto, quelle sono le risorse ricavabili in tempi relativamente rapidi dalla cessione di parte del patrimonio immobiliare delle amministrazioni centrali. Il grosso sta “ai piani inferiori” e anche quello può e deve essere in gran parte ceduto.

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