23
Nov
2014

L’onore ed il prestigio del Capo dello Stato valgono più della libertà personale dei cittadini?

Nel suo libro “ Difendere l’indifendibile” (Liberilibri edizioni), il libertario americano Walter Block si schiera a favore, oltre che delle prostitute, del tassista abusivo, del bagarino, del presta – denaro, dello speculatore e dello sporco capitalista sfruttatore di manodopera, anche delle figure del calunniatore e del diffamatore, i quali ultimi, a suo giudizio, non dovrebbero mai essere perseguiti penalmente per la libera espressione delle loro opinioni. Block, da libertario qual è, fonda il suo ragionamento sul diritto di proprietà e ritiene che la tutela del buon nome di ciascuno sia impossibile per il semplice fatto che essa dipende dal giudizio che di quel nome hanno gli altri. Ed il giudizio degli altri è proprietà, appunto, di ciascuno di loro. “ Ma in cosa consiste il buon nome di una persona? Come descrivere questa <<cosa>> che non può essere <<presa con leggerezza>>? Chiaramente non è una proprietà che può dirsi appartenente ad una persona come invece si può dire dei suoi abiti. Infatti, la reputazione di una persona è ciò che gli altri pensano di lei; consiste quindi nel pensiero che appartiene ad altre persone. Un uomo non possiede la sua reputazione più di quanto non possegga il pensiero degli altri…poiché in fondo la sua reputazione consiste solo in questo”.
Il libertario americano aggiunge anche un altro argomento contro le leggi che puniscono i diffamatori ritenendo che un regime di ampia libertà metterebbe in guardia il pubblico, il quale non crederebbe più tanto facilmente alla eventuale valanga di menzogne calunnianti e sarebbe costretto a soppesarle attentamente, cosicché il diffamatore perderebbe il potere di rovinare il buon nome di chicchessia.
La conclusione per Block è che non si può mai chiedere nemmeno un risarcimento dei danni per una presunta lesione dell’onore, del decoro e della reputazione, in ragione del fatto che ciò comporterebbe un’inammissibile (dal suo punto di vista) limitazione della libertà di ciascuno di noi di influenzare gli altri per il tramite del giudizio che esprimiamo su chi ci circonda.
Insomma, se fosse stato per Block Francesco Storace sarebbe stato sicuramente assolto, (invece di beccarsi come gli è capitato una condanna a sei mesi di reclusione) dall’accusa di avere offeso l’onore ed il prestigio del Presidente della Repubblica (art. 278.c.p.), per la semplice ragione che un’incriminazione di tal fatta non potrebbe trovare ingresso all’interno di un ordinamento che si fondi su presupposti libertari.
Il ragionamento di Block è molto intrigante, senza dubbio (e per certi versi valido), ma forse da solo non è in grado di giustificare perché l’articolo 278 del codice penale dovrebbe essere abrogato senza ulteriore indugio.
Chi ha sfogliato un manuale qualsiasi di diritto penale sa perfettamente che dottrina e giurisprudenza (anche costituzionale) hanno sempre ritenuto l’incriminazione penale come ultima ratio, da utilizzare per la tutela di beni giuridici fondamentali solo allorché altre forme di tutela risultassero del tutto inadeguate a proteggere i predetti beni. La ragione è semplice ed intuitiva: la pena è privazione della libertà personale, colpisce un bene di rango costituzionale talmente elevato da potere essere considerato secondo solo alla vita stessa. La libertà, pertanto, può essere compromessa solo in presenza di comportamenti che aggrediscono beni di una certa importanza perché diversamente verrebbe violato l’intero equilibrio dei diritti fondamentali e l’importantissimo principio di proporzionalità.
E’ la logica, come molti sanno, del diritto penale minimo, il solo diritto penale che, Costituzione alla mano, potrebbe trovare ingresso in un ordinamento democratico, personalista e pluralista come quello nostro. E’ la logica di un diritto penale che non può incriminare condotte prive di una certa soglia di disvalore sociale proprio perché non sono percepite come particolarmente lesive dalla comunità.
Nel 1994 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 341, sulla base delle premesse appena sopra esposte, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 341 del codice penale nella parte in cui prevedeva per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale la pena minima di mesi sei. Sei mesi, secondo i giudici, rappresentavano una pena troppo elevata in rapporto al rango del bene offeso dall’oltraggio che è l’onore del pubblico ufficiale. L’importanza della libertà personale non poteva consentire una limitazione così grave per una lesione di un bene non altrettanto importante.
In quella occasione la Corte ha ribadito tre concetti fondamentali: da un lato ha detto che il principio di proporzionalità nel diritto penale “ equivale a negare legittimità alle incriminazioni che,…producono attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti ( o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni”, dall’altro, ha affermato che “ La palese sproporzione del sacrificio della libertà personale provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito produce una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27,terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione” . In ultimo, i giudici costituzionali hanno detto che il rapporto fra cittadino ed amministrazione all’interno del nuovo contesto democratico – liberale inaugurato dalla Costituzione repubblicana non deve essere un rapporto d’imperio e che le sanzioni penali che ripugnano alla coscienza sociale meritano di essere cancellate.
Probabilmente anche sulla scorta di tali argomentazioni il Parlamento ha dapprima abrogato il reato di oltraggio a pubblico ufficiale nel 1999, per poi reintrodurlo, tuttavia, nel 2009, sebbene prevedendo la diminuzione della pena nel minimo secondo le indicazioni della Corte Costituzionale.
Il precedente della Corte del 1994 aveva ragionevolmente fatto sperare che anche il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica potesse cadere sotto la scure del giudizio di illegittimità costituzionale, quanto meno limitatamente alla previsione del minimo della pena pari ad un anno di reclusione, considerato che i giudici costituzionali tradizionalmente si occupano solo di sindacare il quantum della pena e non sempre la scelta del legislatore di considerare reato un determinato comportamento.
Con ordinanza n. 163 del 1996 il Giudice delle leggi, invece, ha detto che le argomentazioni svolte in occasione del giudizio sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale non possono essere estese al vilipendio nei confronti del Presidente della Repubblica perché il vilipendio è una “figura criminosa di antica tradizione” e perché il bene protetto dalla norma assume un “peculiare risalto” all’interno della gerarchia dei beni giuridici.
Il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica è così rimasto in piedi e la Corte ha ritenuto giusto che debba essere punito (in teoria) con il minimo di anni uno di reclusione in considerazione dell’importanza del bene protetto che poi è, appunto, l’onore ed il prestigio della Capo dello Stato.
Ma il convincimento dei giudici costituzionali andrebbe oggi rivisto e la mancata abrogazione ancora adesso del reato di cui all’art. 278 codice penale da parte del Parlamento non pare trovare alcuna giustificazione plausibile.
In primo luogo, proprio perché “ figura criminosa di antica tradizione “ il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Capo dello Stato non può che rappresentare il retaggio di un’epoca in cui i rapporti fra autorità e libertà, fra potere e cittadino erano improntati ad un vincolo di subordinazione, al riconoscimento di uno status privilegiato agli organi statali ed alla mancata affermazione generale del principio di uguaglianza formale. Prima del 1947, infatti, l’art. 278 tutelava l’onore ed il prestigio del Re, del Reggente, della Regina e del Principe ereditario.
Proprio il principio d’uguaglianza, poi, che è servito alla Corte Costituzionale da grimaldello per dichiarare l’illegittimità di disposizioni di legge ordinaria che istituivano privilegi a favore di alcune cariche dello Stato, fra i quali il Presidente della Repubblica, (il c.d. Lodo Alfano), non consente, ancora oggi, che l’offesa all’onore ed al prestigio del Capo dello Stato sia punita nel minimo con la reclusione di anni uno quando l’ingiuria e la diffamazione nei confronti dei comuni cittadini sono punti con la reclusione sino a sei mesi (pena massima) e con la reclusione sino ad un anno (pena massima).
Non si può negare, inoltre, che l’onore ed il prestigio del Capo dello Stato e di qualsiasi altro cittadino non sono per nulla equiparabili alla libertà personale. Esiste, ed è innegabile, una gerarchia dei beni costituzionali: punire l’offesa all’onore con la privazione della libertà rappresenta una violazione del principio di stretta necessità del diritto penale e contrasta col canone della proporzionalità. Onore, decoro e prestigio di ciascun cittadino possono ben essere tutelati sul piano civile con la richiesta di risarcimento danni.
A ciò si aggiunga che il reato che pretende di tutelare l’onore ed il decoro del Capo dello Stato è oggi percepito da quella che la giurisprudenza definisce “ coscienza sociale” come un inutile ed ingiusto anacronismo, emblema di un privilegio che allontana ancora di più le istituzioni dai cittadini, e che nessuno pensa di potere essere rieducato per avere espresso un giudizio, per quanto poco lusinghiero, nei confronti del Presidente della Repubblica.
Ma è tutta l’impostazione del diritto penale minimo, come strumento di tutela dei beni giuridici tipico delle società democratiche e liberali, che viene travolta dalla previsione dell’articolo 278 del codice penale. Luigi Ferrajoli, autore di una fra le più importanti opere di teoria generale in materia penale (Diritto e ragione – teoria del garantismo penale, Laterza), ha spiegato magistralmente che l’incriminazione penale serve a proteggere i deboli. Nel momento della consumazione del reato il soggetto debole è la vittima del reato stesso, per cui il divieto consacrato nel precetto penale vale a proteggerlo, cosi come la reazione dello Stato vale a garantire la tutela dei suoi beni. Successivamente, il soggetto debole diviene il reo che si trova davanti alla potenza degli strumenti di coercizione dello Stato ed il diritto penale in questo preciso momento vale a tutelare i diritti inviolabili dell’imputato/condannato/recluso.
Solo all’interno di questo schematismo il diritto penale ha ragione d’esistere.
Ora, vi pare che un Capo dello Stato, chiunque esso sia, possa mai rappresentare l’elemento debole di una relazione intersoggettiva in cui all’altro capo vi è un comune cittadino?
@roccotodero

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