15
Giu
2012

Il sommo bene pubblico per gli antiliberisti si chiama Socialismo Municipale

Vi ricordate il referendum contro la cosiddetta “privatizzazione” dell’acqua? In realtà, l’intento di chi voleva “privatizzare” l’acqua, come dicevano i referendari mistificando la realtà, era quello di imporre una regola ferrea, di origine comunitaria, in base alla quale la gestione del servizio idrico (tubi, fognature, depuratori) va affidata al vincitore di una gara pubblica e trasparente, non al parente del politico o al trombato delle ultime elezioni comunali.

Sappiamo tutti che quel referendum ha raggiunto il quorum, cosa che non succedeva dal 1995, sancendo così il NO alla fantomatica “privatizzazione” dell’acqua. Ha vinto la disinformazione e un’atavica diffidenza verso il mercato. Adesso però emergono alcune complicazioni: da una parte gli obblighi comunitari, dall’altra una rete idrica ormai al collasso con perdite per oltre il 38% e un bisogno cruciale di investimenti per almeno 65 miliardi, ben al di fuori della portata del padrone pubblico.

L’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione, fondato nel 2004 da Sabino Cassese, ha realizzato uno studio che certifica il regime di “socialismo municipale” nei Comuni italiani. Non lo chiama così, ma questo è l’esercito delle partecipate, del sottobosco di potere locale dove a farla da padrone sono i partiti e gli amici dei partiti. Le società municipalizzate che gestiscono risorse pubbliche e parapubbliche danno lavoro a 300mila dipendenti(leggete pure “elettori”), fatturano 43 miliardi di euro e oltre un terzo di esse sono in perdita.

Il più delle volte la gestione dei servizi la ottengono grazie all’affidamento in house, cioè senza gara. Sono prescelti o predestinati, come più vi aggrada. Il risultato a valle è che a gestire il servizio non è il migliore ma il più vicino (e gradito) alla politica, e le nostre tasse servono a foraggiare un sistema intrinsecamente corrotto e anticoncorrenziale.

Ecco, il socialismo municipale è tutto questo, l’unico bene pubblico che stiamo effettivamente preservando grazie alla rigorosa difesa del potere discrezionale dei partiti, mentre l’acqua si perde nei mille rivoli di una rete colabrodo così cara agli antiliberisti. Beati coloro che non sanno quel che fanno.

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17 Responses

  1. giuseppe

    Un momento. Lasciamo perdere l’ideologia, il liberismo, il comunismo, e compagnia cantando. Quando ero ragazzino le strade erano piene di fontanelle. E c’erano pure parecchi gabinetti pubblici. Adesso, delle une e degli altri neanche l’ombra. Le due cose in qualche modo sono collegate da una tubatura (virtuale,ma non tanto) E obbediscono al principio dei vasi comunicanti. A me pubblico o privato interessa poco. Ma i privati rimetteranno le fontanelle? I Barboni (e i cani) avranno diritto di bere e…

  2. roberto

    Ops … un appunto all’articolo . Un terzo delle municipalizzate sono in perdita vero . Interessante ,giusto per amor di verità ,sarebbe sapere dove sono localizzate ….
    Diciamo da Bologna in giù? vogliamo essere buoni , facciamo da Roma in giù ? Chiedere al presidente Anci Lombardia che con dati alla mano è di un esaustivo da lasciar senza parole .

  3. roberto

    @Giuseppe :Ecco dove son finiti gli ex Gabinetti da strada !
    Durante il dibattito al senato circa la ormai mitica “SPENDING REVIEW “si apprende ,da Elio Lannutti senatore IDV, che il ministro dello sviluppo economico Corrado Passera (si spera passerà l’incarico al più presto )ha assunto un elenco infinito di consulenti ,con stipendi da 80.000€ ( per il più cretino ) a salire . L’elenco nomi e cognomi stipendio e incarico occupa 34 pagine . Ciuffoli ! Il ministero dello sviluppo si è sviluppato e ha creato posti di lavoro .
    Gli incarichi affidati dal tecnico ministro Passera a questa massa di parassiti sono a dir poco da scompisciarsi . Comunque le qualifiche affibbiate ai consulenti TECNICI del ministro TECNICO variano da “capo gabinetto” a “vice capo gabinetto” nella peggiore delle ipotesi “affianca in capo gabinetto. .
    In questa marea di gabinetti ,cessi con relativi sciacquoni assunti ,sorgono spontanee alcune domande :
    1)“ Ma Passera riesce a pisciare da solo ? O necessita di qualcuno che gli regga il moccolo ?“
    2) Se Passera è un TECNICO ma gli servono consulenti TECNICI che cavolo di TECNICO è ? Si è autocertificato incapace !
    3) Non è che ha piazzato a MIE SPESE amici per riconoscenza ?

    Esempietto, tanto per render l’idea Giampaolo Arpesella €80.000 annui per coordinare cerimonie ed eventi ! E vai con la spending review . Per 40 000 annui andavo io e organizzavo eventi, eventuno ,eventidue e magari anche il funerale del Passera in stile New Orleans .

  4. Andrea

    @giuseppe
    Una cosa è la distribuzione dell’acqua, altra l’arredo urbano. Non credo che sia la società dell’acqua a mettere le fontanelle, ma il comune che poi paga l’acqua consumata. Questo in linea di principio, visto che così spesso i due soggetti sono parecchio difficili da distinguere.

  5. Claudio Di Croce

    @giuseppe
    Ricordo anch’io le fontanelle – in torinese i turet – e i giardini curati dove era vietato a noi ragazzi andare a giocare per non rovinare l’erba e i fiori – e i vespasiani in diversi punti della mia Torino , città pulita, ordinata ,seria ed elegante con il culto del lavoro , con uno spiccato senso del dovere . Solo che allora i dipendenti municipali – che non erano laureati e non passavano il loro tempo al computer o al bar o in permesso sindacale o di maternità o di paternità e stavano in malattia solo quando lo erano veramente – lavoravano anche loro e questo permetteva la manutenzione . Adesso la manutenzione di strade, giardini , delle poche fontanelle pubbliche rimaste , per non parlare dei vespasiani quasi aboliti , è un optional a cui i dipendenti pubblici non si degnano più di dedicarsi , pur essendo aumentati a dismusura di numero e di costo per noi contribuenti. In compenso abbiano la ” cultura ” cioè una serie infinita di feste, sagre, spettacoli musicali , teatrali ,danze, balli e cotillons , di saltimbanchi vari sempre pagati da noi contribuenti a cominciare dalle inutili e costosissime olimpiadi invernali del 2006 che hanno portato Torino ad essere la città italiana con il più alto debito procapite d’Italia. Però i miei concittadini , come a Napoli , hanno votato per il successore sinistro come colui che chi ci ha portato in questa situazione . Si vede che la ” cultura ” paga in termini di consenso . A me viene sempre in mente la ” saggezza ” latina dei governanti per comnpiacere il ” poppppppolo ” PANEM ET CIRCENSES “E lei non pensa che sarebbe il caso di affidarci a i privati visto lo schifo dei pubblici?

  6. giuseppe

    @Claudio Di Croce
    Stavolta concordo pienamente con Lei! I Comuni trovano le risorse per assumere diecie segretarie (meglio se carine) e non possono permettersi un giardiniere o un fontaniere (non è che esiste e sta seduto in ufficio – non c’è proprio nella pianta organica) Tornando alla mia introduzione, che aveva la pretese di essere ironica e provocatoria, la situazione mi sembra leggermente diversa. Siamo passati da una gestione municipale che, ancorché largamente non informatizzata e migliorabile, era tuttavia collaudata, funzionava non male, e costava anche poco. Il vero guaio è arrivato con le Società miste pubblico-private, che assommano i difetti di entrambe i modelli e non ne ereditano alcun pregio. Ora, prima di parlare di prvato – non me ne frega niente – se Acea è pubblica voglio il privato – se Acea è privata voglio il pubblico – mi piacerebbe ci fosse un minimo di analisi tecnica. E’ corretto potabilizzare tutta l’acqua che arriva nei nostri rubinetti, anche se il 99% finisce nello sciacquone del bagno? Ed è economico? In alcuni casi forse sì, in altri sicuramente no! E se l’acqua scarseggia magari temporaneamente, con quale priorità deve essere distribuita? Priorità sociali o economiche. Alle famiglie (che sicuramente ne hanno bisogno) o alle industrie? (che la sprecano in modo indecoroso, costituendo la spesa per l’acqua un capitolo minimo del bilancio) E’ giusto asciugare completamente fiumi e torrenti risorse idriche che per il trenta per cento vengono disperse nel terreno e per il restante settanta assolutamente mal utilizzate? Mi sembra chiaro che la gestione dell’acqua non può essere una gestione solo economica. Ben vengano i privati. Ma debbono operare con regole ferree. Nonsarei nemmeno contrario che alcuni Comuni decidessero di continuare con il servizio pubblico. Anche qui però ci vuole chiarezza. Il pubblico può avere anche una certa utilità, se serve a calmierare il Mercato. Non deve succedere quel che è successo in Italia (e la responsabilità è di Bassanini) che il pubblico si inventi criteri di meritocrazia che non funzionano. O almeno, aumentano gli stipendi, ma non l’efficienza. Lo Stato Liberale pagava poco i suoi dipendenti (che erano anche molti di meno). Chi vuole guadagnare di più vada nel privato.

  7. paperino

    @giuseppe
    Le fontanelle sono state eliminate anche dalle mie parti, dove eppure basta fare un buco per terra perche’ l’acqua ne esca.
    I motivi dell’eliminazione, oltre a quelli da voi esposti, in una visione storica piu’ ampia e consapevole credo stiano anche nei seguenti punti:
    – fino ad un secolo fa gli spostamenti di persone e merci su terra avvenivano tutti (treno escluso) grazie all’energia biologica umana e animale, che richiedeva frequentissimi abbeveraggi;
    – i punti di ristoro a pagamento, atrraverso le loro lobby, fanno di tutto per far chiudere tali punti gratuiti di abbeveraggio, e non appena sono spariti gli animali hanno avuto facile vittoria quasi dappertutto;
    – come al solito gli interessi privati hanno trovato un per loro insperato fortissimo alleato nella gaglioffaggine dei sempre piu’ soprannumerari impiegati pubblici, ma soprattutto negli adepti all’ecologismo emozionale, secondo i quali per ogni fontana che butta acqua a Torino muoiono cento bambini di sete in africa, o sprofonda Venezia.

  8. Alex F.

    Vendiamo tutte le municipalizzate ai tedeschi, pubblici o privati che siano, ed escludendo gli italiani. Un’infusione di sano spirito teutonico farebbe più che bene all’Italia. A parte la provocazione, <> sì o no? Si “mettano a gara” da sùbito quei servizi pubblici locali finora gestiti da municipalizzate che hanno prodotto sistematicamente perdite negli ultimi anni e fornito servizi “indegni” per un paese civile.

    Saluti dal Friuli Venezia Giulia.

  9. Giovanni

    Una sola frase: FUORI IL PUBBLICO DALLE SPA! Non è capace di fare impresa , perde soldi, fa debiti e genera l’apoteosi di manager incompetenti .
    E questo vale dalle Alpi in giù , nessuno escluso. Cari i miei amici social ( o m5s visto che sembra essere il secondo partito in Italia) , il problema non è che il privato cerchi il profitto nella gestione del servizio pubblico, ma ancora una volta è lo stesso pubblico che nell’ambito delle concessioni ( ndr: i servizi pubblici vengono dati in concessione) NON E’ CAPACE DI ESERCITARE IL PROPRIO RUOLO. Ma a avete capito o no
    chi sta rovinando questo bellissimo paese?

  10. Bartolo da Sassoferato

    Io credo che il tutto stia nel fatto che manchi in questo paese il buon senso o per meglio drie la possibiltà di avere ancora la buona fede in chi ci sta davanti.Mettiamo la società dell’acqua pubblica controllata dal comune e avremo che in alcuni casi funzionerà bene(tipo al mio paese) e in altri servirà solo come ente per l’assistenza di incapaci o comunque spizio di beneficienza indiretta.La mettiamo privata totalmente?Conoscendo l’imprenditoria italiana poco votata agli investimenti,vogliosa di guadagni immeditati e sempre in cerca di un business stabile e facile per garantire gli utili non farà investimenti ma cercherà di ridurre gli stipendi e alzerà le tariffe…ovviamente da qualche parte invece funzionerà bene come per il pubblico citato prima.Qui manca la passione e la voglia di fare bene che viene prima del profitto…un pò come il percorso che fa un calciatore…da piccolo non gli importa del profitto e gioca perchè la cosa gli piace in se e poi crescendo i valori si invertono…giocare non gli importa più e conta solo il profitto.

  11. Vincenzo

    @Claudio Di Croce
    Credo che il suo intervento abbia colto perfettamente la chiave della crisi odierna.
    Fino a non moltissimi anni fa, direi fino a circa 30 anni fa. il settore pubblico, locale o centrale che fosse, “produceva” qualche cosa di utile, fontanelle, giardini, stade, ferrovie o vespasiani che fossero. Lo faceva magari a costi alti, in maniera non efficiente, ma lo faceva.
    A un certo punto il settore pubblico ha smesso di produrre cose utili, concentrandosi invece sull’effimero (ricordate Nicolini? forse lui rappresentò il vero punto di svolta) e sulla burocrazia che intralcia le attività economiche private, e qui molta responsabilità l’ha anche l’Europa – la famosa curvatura delle banane.
    E piuttosto che perdersi in discussioni sterili come euro sì o euro no, spread, tassi, spending review IMU o non IMU, sarbbe probabilmente sufficiente ricondurre la’ttività del settore pubblico verso aree produttive per migliorare la situazione.
    Detto questo un’osservazione sulla gestione pubblica dell’acqua: se gestione pubblica significa affidare la gestione agli amici e agli amici degli amici assolutamente no.
    Se viceversa significa che il profitto che deriva dalla gestione della risorsa viene diviso tra tutti i cittadini, in quanto proprietari del bene, allora sì.
    Nel settore dell’acqua vi è da un lato l’impossibilità di una vera concorrenza, e questo perché concorrenza non significa affidare ora a uno ora all’altro la gestione ma potere scegliere nello stesso momento tra differenti fornitori, dall’altro non esiste l’opzione “zero” ovvero la rinuncia all’acquisto. E’ vero che non possiamo rinunciare neanche all’acquisto di cibo ma nel settore alimentare esistono un’infinità di produttori e si può rinunciare all’acquisto del singolo alimento (ad esempio la carne) per sceglierne un altro il pesce.
    In altre parole laddove un operatore privato non abbia di fronte lo spettro del fallimento nel caso non soddisfi i desideri del consumatore – certamente può poi fallire per propria totale incapacità – la proprietà pubblica intesa come proprietà di tutti i cittadini, è più valida. L’iniziativa privata funziona laddove l’imprenditore sa che deve produrre prodotti graditi al consumatore. Laddove sa che il consumatore è comunque obbligato a comprare e per tale ragione può adattare il prezzo alle necessità dell’impresa e non alla domanda del consumatore, ebbene in quel caso il meccanismo di mercato non funziona

  12. minorityreport

    ARTICOLO PERFETTO FIN DAL TITOLO! Complimenti Annalisa!

    IL RITORNO DEI COSIDDETTI NEOREPUBBLICANI.

    Un celebre sociologo americano, Alvin Gouldner, dichiarò una volta che egli non si era mai voluto occupare di politica perché “politics is about killing people”, la politica ha a che fare con l’ammazzare la gente.
    Chi studia o osserva professionalmente la politica sa, o dovrebbe sapere, che in quell’icastica battuta c’è tanto di vero.
    È, pertanto, preoccupante ciò che la crisi economico-finanziaria sta provocando: le sempre più numerose invocazioni di un ritorno alla Politica con la p maiuscola, del recupero di un comando politico pienamente sovrano contro quella «anarchia dei mercati internazionali» che avrebbe dominato e permeato il mondo, le nostre vite e le nostre menti nell’ultimo trentennio.
    Coloro che si sono gettati nell’impresa di favorire la diffusione, nell’opinione pubblica, di nuovi pregiudizi antimercato devono omettere diversi particolari. Per esempio, il fatto che la bolla immobiliare il cui scoppio provocò la crisi del 2008 fu creata dalla politica e non dal mercato. O il fatto che l’attuale crisi dell’euro ha una origine politica: gli imbrogli del governo greco, le indecisioni di quello tedesco.

    È ovviamente una regolarità della storia: quando arrivano le crisi economiche le opinioni pubbliche si volgono allo Stato, alla politica, per ottenere protezione e il coro degli intellettuali accompagna il movimento teorizzando e salmodiando. Negli anni Trenta dello scorso secolo era di moda la «pianificazione»: il capitalismo laissez faire è finito, dicevano in tanti, si entra nell’era della economia pianificata (dalla politica). Non lo pensavano solo i seguaci di Stalin. Ne erano convinti anche molti che, non essendo comunisti, non volevano che l’Occidente abbandonasse la strada della democrazia. Fu allora la politica a risolvere la crisi? Certamente sì. Ma, fatti i debiti scongiuri, bisogna anche ricordare come, alla fine, ci riuscì: con una guerra mondiale.
    Chiedere alla politica di rimediare a tanti danni, molti dei quali da essa stessa provocati, è necessario. Ma la richiesta è troppo spesso condita riesumando antichi argomenti anticapitalisti. In nome di un rinnovato primato della politica i cui passati disastri vengono pudicamente ignorati.
    Rispetto agli anni Trenta c’è oggi una grande differenza. Allora ci si poteva aggrappare alla pianificazione e al socialismo. Ma, ormai, la pianificazione, insieme all’Urss e al socialismo, e a tante altre cose, è finita, con rispetto parlando, nella pattumiera della storia.
    E allora, con quali panni ideologici si può rivestire, rimanendo «politicamente corretti», l’antico pregiudizio?

    La strada più battuta, a quanto sembra, consiste nel riesumare una vecchia, e di per sé illustre, tradizione di pensiero occidentale nota agli studiosi come «repubblicanesimo» e nell’usarla quale arma contundente contro l’economia di mercato.
    Il neorepubblicanesimo trae le sue fonti di ispirazione e i suoi modelli da precedenti storici (idealizzati) quali la repubblica romana, i comuni medievali, le repubbliche italiane rinascimentali. Ma le vecchie idee sono impacchettate in modo da servire a nuovi scopi.
    Nella «buona repubblica» – così si dice – vige il primato della politica ed è un primato «democratico», fondato sull’uguaglianza e sulla partecipazione. A vincolare la politica può e deve essere soltanto la legge (ma, in genere, i neorepubblicani omettono di aggiungere che la legge, per lo meno nell’Europa continentale, ove vige la tradizione della civil law, è essa stessa una creazione della politica). Secondo l’ideale repubblicano rivisitato, l’economia deve essere imbrigliata e assoggettata dal comando politico.
    La furbizia sta nel fatto che non c’è bisogno di prendersela apertamente con la «democrazia borghese» o formale, come si faceva fino a qualche decennio fa: basta contrapporre al «consumatore» (per definizione vizioso o instupidito dalla pubblicità) il «cittadino» (per definizione virtuoso).
    L’ideologia repubblicana, riveduta e corretta, consente di contrapporre la democrazia al mercato, il comando politico all’anarchia economica, la pubblica virtù ai vizi privati, il bene comune (così come è definito dalla politica) ai gretti, egoistici, interessi individuali.
    L’ideologia neorepubblicana è in sostanza una macchina di riciclaggio di pulsioni anticapitaliste. È il sostituto, o il surrogato, di antichi miti socialisti in disarmo. In essa trovano comoda accoglienza i vecchi argomenti sulla finanza-farina del Diavolo, i nuovi anatemi antiglobalizzazione e la demonizzazione delle lobbies, ree di sporcare con i miserevoli interessi privati (anche quando non ci siano violazioni di legge) la purezza e la trasparenza della «città» repubblicana, di attentare, con la loro stessa esistenza, alla sua virginale virtù.
    Peccato che i conti non tornino proprio: non c’è democrazia senza mercato (anche se ci può essere mercato, Cina docet, senza democrazia), la finanza è il lubrificatore necessario dell’economia, la globalizzazione non è altro che la dinamica proiezione transcontinentale di legami economici, sociali, culturali e le lobbies, infine, sono l’inevitabile anello di congiunzione fra gli interessi generati dal mercato e la politica democratica. Per quanto riguarda poi la libertà di consumo, alimentata dalla famosa «anarchia» dei mercati, essa è una faccia imprescindibile della libertà. Eliminatela o comprimetela ed eliminerete o comprimerete anche la libertà politica. Al posto di una nuova o di una rinnovata cittadinanza avrete ottenuto una nuova sudditanza.

    I rapporti fra l’economia e la politica sono complessi, fatti di continue influenze e interferenze reciproche, i cui molteplici meccanismi, come riconosce la migliore letteratura scientifica, non siamo ancora riusciti a comprendere fino in fondo. Ma alcune cose le sappiamo. Tre in particolare.

    1. Sappiamo, in primo luogo, che è sbagliato credere che ordine e disordine, rispettivamente, siano il frutto necessario della gerarchia e dell’anarchia. Sicché la politica, essendo gerarchica, sarebbe generatrice di ordine e il mercato, in quanto anarchico, favorirebbe il disordine. Il mercato può benissimo dare luogo a un «ordine spontaneo» (come lo definiva l’economista Friedrich von Hayek), un ordine non pianificato né voluto da nessuno, ma posto in essere dall’incontro e dall’aggregazione di un grandissimo numero di piani e volontà individuali. A sua volta, il comando politico (gerarchico) può risultare un terribile produttore di disordine: guerre, repressioni feroci, anomia sociale. In realtà, la politica è, da questo punto di vista, un Giano bifronte: può, in certe circostanze, favorire l’ordine ma è anche la fonte principale delle esplosioni di disordine.
    Strettamente connessa all’idea sbagliata che collega sempre l’ordine alla politica e il disordine al mercato, ce n’è anche un’altra, altrettanto sbagliata: quella che si sostanzia nel mito del governante onnisciente e onnipotente. Da quando cominciò a influenzare le politiche di certi governi l’ideologia pianificatrice (fondata, appunto, su quel mito) riuscì a provocare solo catastrofi economiche. Come era inevitabile, essendo falso che i governanti siano onniscienti e onnipotenti. L’insieme di informazioni e conoscenze concentrate nelle loro menti è sempre drammaticamente inferiore alla somma delle conoscenze disperse fra gli operatori economici, i consumatori, eccetera. E gli strumenti amministrativi di applicazione delle politiche centralizzate cozzano regolarmente contro la complessità delle situazioni economiche e sociali, provocando cascate di conseguenze non volute e di effetti perversi.
    Anche i governi delle democrazie non sfuggono a questa regola. Uno dei drammi della democrazia è che la retorica democratica obbliga i governanti – se non vogliono perdere le elezioni – a fingere, di fronte al pubblico, sicurezze che non possiedono, a dare a intendere di avere risposte chiare, che non hanno affatto, per le sfide e i problemi che dobbiamo fronteggiare. Guardate alla crisi attuale. Non c’è governante (da Obama alla Merkel, da Sarkozy a Cameron a Berlusconi) che non cerchi di fare credere ai propri elettori di sapere esattamente cosa sta facendo e quali conseguenze benefiche ne deriveranno. Il che significa, semplicemente, che le regole della politica obbligano i governanti a mentire.

    2. Una seconda cosa che sappiamo è che i rapporti fra politica e mercato possono essere di due tipi.
    Nel primo tipo, il grosso dei rapporti economici è «racchiuso» entro una unità politica imperiale, i confini politici e quelli economici coincidono: è stata questa la condizione più frequente nel mondo premoderno.
    Nel secondo tipo, confini politici e confini economici divergono: mentre i mercati sono, almeno potenzialmente, mondiali, la politica è frammentata, dispersa in una pluralità di unità politiche (Stati). Questa è la condizione prevalente nell’età moderna.
    Proprio su questo tema Giorgio Ruffolo («la Repubblica», 27 agosto) ha garbatamente polemizzato con me, attribuendo al mio incorreggibile «liberismo» un’affermazione che avevo fatto in un editoriale apparso sul «Corriere» del 13 agosto: avevo lì contrapposto la vocazione universalista dell’economia e quella particolaristica della politica, il carattere internazionale dei mercati e quello nazionale dei governi. Nella mia interpretazione, quella contrapposizione, tipica della modernità, è foriera sia di vantaggi (la società aperta occidentale non sarebbe stata possibile altrimenti) sia di svantaggi (i continui squilibri e le periodiche crisi).
    Io non ho alcuna difficoltà a dichiararmi colpevole, se di una colpa si tratta, di quel liberismo che Ruffolo mi imputa. Ma l’affermazione sopra riportata voleva essere una constatazione fondata sull’esperienza storica, non una presa di posizione normativa.
    I sistemi politico-economici chiusi (e cioè imperiali) finiscono sempre per strangolare sia l’economia sia la libertà. Questo, per lo meno, ne è stato l’esito in tutte le civiltà conosciute. Invece, i sistemi politico-economici aperti (che combinano mercati internazionali e pluralità di Stati), oltre che assai più dinamici e vitali sul piano economico, sono anche in grado di coltivare meglio la sempre fragile pianticella delle libertà individuali.

    3. Da ultimo, sappiamo che quando si permette al pregiudizio antimercato di diffondersi, se non lo si combatte, il risultato è sì quello di rimettere la politica «al posto di comando», di ridare lustro (qualunque cosa ciò significhi) alla Politica con la p maiuscola, ma al prezzo di meno, e non più, democrazia. È un modo sicuro per spianare la strada all’autoritarismo. Perché solo una politica limitata e bilanciata da vive e potenti forze sociali è compatibile con ciò che chiamiamo democrazia liberale. E si dà il caso che il mercato sia, storicamente, insieme alle istituzioni religiose, il più importante generatore di quelle forze. Questa, comunque, è stata l’esperienza di alcuni secoli di storia europea.

    Può essere che nei prossimi anni o decenni – ma la partita è ancora aperta – si vada verso un definitivo tramonto della leadership occidentale. Una leadership in cui ha contato, certo, la politica, ma condizionata e bilanciata da società che il dinamismo del mercato ha contribuito a mantenere passibilmente libere, aperte e pluralistiche. A una perdita di leadership corrisponderebbe anche la fine delle capacità di attrazione e suggestione delle istituzioni occidentali: i nuovi «modelli politico-economici» avrebbero, con buona pace dei neorepubblicani, volti assai più arcigni, assai meno amichevoli nei confronti delle libertà individuali.
    Della politica non possiamo ovviamente fare a meno. Ad essa ci affidiamo nella ricerca di un po’ di sicurezza (anche se, essendo un Giano bifronte, spesso delude la nostra aspettativa). La politica può svolgere passabilmente il suo compito solo se dotata, come diceva Machiavelli, di «buone legge» e di «buone arme». Ma, non di meno, va sempre limitata, tenuta a freno, mediante altre forze e istituzioni sociali. E va maneggiata con circospezione. Come si conviene con i materiali infiammabili o esplosivi.

    Panebianco Angelo (25 settembre 2011) – Corriere della Sera

  13. G.R.Albertazzi

    La sostanza è una sola, i media, ed in particolare i giornalisti, forniscono le notizie in modo distorto, mai una vero e serio lavoro di analisi al fine di spiegare i vari come e perché. Resta solo la visione demagogicamente schierata. Anche nel caso del referendum abbiamo assistito a questo fenomeno e così per tanti altri di cui vi fornisco due piccoli esempi:
    a) Roma; è possibile che la capitale si candidi ad organizzare i giochi olimpici quando non ha ancora individuato un sito idoneo per la nuova discarica?.
    b) Provincia di Rimini; progetto di una metropolitana leggera (indicativamente da Cattolica a Milano Mar) quando non ha ancora risolto il problema degli scarica a mare (leggasi fogne) che in certe giornate ammorbano le acque?

    Ecco, giornalisti dove siete?

    Assisto ad un movimento in qualche modo trasversale ai vari partiti, che non necessariamente diventeranno grillini, è una mia impressione ? suggerimenti?

    Buon lavoro a tutti

  14. Luigi

    Cara Annalisa,
    sono veri i difetti che enunci sui rischi di utilizzo improprio delle società che gestiscono i monopoli pubblici locali, ma l’approccio “liberista marxista” non focalizza il punto su ciò che è mercato e ciò che non è. E’ in fatti il marxismo che pone l’accento sulla proprietà dei mezzi di produzione reclamandola per lo Stato: tu fai altrettanto reclamandola per il privato. E’ “liberismo marxista”, perché di liberista non ha le premesse, cioè la verifica di un mercato dove il cittadino consumatore possa scegliere.
    Infatti nessuno garantisce che l’acquedotto gestito dal privato dia un servizio migliore al cittadino: manca il mercato dove il cittadino cambia il fornitore usando la propria libertà. E’ un classico caso di carro messo davanti ai buoi!
    In mancanza di mercato, infatti, prima si definiscono le regole del gioco, cioè, costi standard su cui stabilire le tariffe, paramentri minimi di servizio con penalità automatiche predefinite, poi si verifica chi è in grado di giocare. La selezione pubblico privato avviene così non per scelta ideologica, ma per capacità manifesta di rispettare o meno tali regole.
    Il monopolista privato, infatti, è il più bravo mungitore delle concessioni pubbliche, capace di prendere pure infrastrutture gestite in modo economicamente inefficiente, ma di lasciarle spolpate dopo avere pure aumentato le tariffe.
    Bisogna vedere se i cittadini sono contenti di pagare tariffe basse e avere spa che faticano a pareggiare, oppure di pagare tariffe alte per avere spa gestite da privati che fanno utili. Insomma, bisogna vedere cosa causa le perdite, prima di “ideologizzare”.
    I tifosi e l’azionista del Milan, non sono contenti soprattutto quando la società fa utili, ma quando vince il campionato. In molti casi, infatti, l’utile economico è solo UN parametro per valutare una gestione, non l’unico.

  15. Ricardo

    @Luigi

    Non c’è dubbio, ma quello che descrivi non è altro che il meccanismo di affidamento in concessione con gara europea, esattamente ciò che il referendum ha bocciato. Le tariffe (massime) sarebbero state decise dall’Autorità, così come gli standard si servizio minimi.

    La scelta al referendum non è stata dettata dalle analisi di dettaglio che tu giustamente invochi, ma da una spinta ideologica tra “acqua pubblica” e acqua privata” (un po’ subdolamente fatta passare come “acqua gratis” contro “acqua a pagamento”), quando la vera scelta è stata tra “acqua pagata con le tasse da tutti” e “acqua pagata a tariffa da chi la consuma”

  16. Gianfranco

    Gentile signora, in teoria cio’ che scrive non fa una grinza.

    La differenza tra teoria e realta’ consiste nel semplice fatto che la cultura liberista e concorrenziale di questo paese preveda essenzialmente cartello e sussidi dallo stato quando il privato va in perdita.

    Se non si cambia questa cultura antiliberale propria dei liberali italiani, non ci sara’ mai privatizzazione degna di questo nome.

    Nello specifico avremmo l’innalzamento incontrollato delle tariffe dell’acqua, una rete da ripristinare che tale rimarrebbe, la richiesta di fondi per far sopravvivere un’azienda monoprodotto e monopolistica.

    Questa non e’ diffidenza degli italiani nei confronti delle politiche liberali. E’ semplice presa di coscenza degli italiani di fronte ai liberisti nostrani. Liberisti di nome.

    Saluti.
    Gianfranco.

    ps. Ricardo: l’authority appartiene ad uno degli enti in causa, lo stato. dimostrazione: l’acqua nasce sui monti e non costa niente. una volta messi i tubi, mi spiega che costi deve sostenere, a parte la manutenzione? se lei fissa una marginalita’ tramite un’authority e’ arrivato esattamente al punto dove sono arrivato io: liberalita’ e liberalizzazioni italianistiche.

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