Clima e libero mercato, la sfida (im)possibile
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Anita Porta.
Mai come nelle ultime settimane il dibattito sulle politiche ambientali e climatiche è stato così acceso. L’impulso ad agire con rapidità per mitigare il cambiamento climatico è iniziato con il noto quinto rapporto dell’IPCC del 2014 e, poco più tardi, con la Conferenza di Parigi nel novembre 2015, nel corso della quale i grandi della terra hanno sancito un accordo per limitare i cambiamenti climatici “al di sotto dei due gradi”; nel 2018 è poi arrivato un nuovo rapporto, sempre dell’IPCC, illustrante le conseguenze di un cambiamento climatico dell’entità di 1.5 gradi, che ha contribuito -va detto, brevemente – a risvegliare l’interesse e soprattutto la preoccupazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, è stato soltanto con gli scioperi per il clima promossi dalla sedicenne svedese Greta Thunberg che si è cominciato ad assistere ad una vera mobilitazione di massa sulle tematiche climatiche e ambientali.
Le modalità con cui il movimento anti-climate change si è aggregato hanno naturalmente avuto un impatto sul modo in cui le questioni da esso affrontate vengono poste e, soprattutto, recepite dal grande pubblico. Tale approccio si basa fondamentalmente su due assunti. Il primo è che la lotta ai cambiamenti climatici debba necessariamente implicare un elemento di decrescita, sia dal lato-offerta (imponendo dei limiti alla produzione economica), sia dal lato-domanda (limitando i consumi in seguito ad una radicale trasformazione degli stili di vita individuali). Il secondo è che, nel contesto di questa lotta, la parte del leone debba essere giocata dai governi tramite lo strumento della regolamentazione, spesso intesa nel senso della sanzione più che dell’incentivo.
Una lotta ai cambiamenti climatici basata su questi due assunti si rivelerebbe, in primo luogo, insostenibile: non solo sarebbe utopistico immaginare un cambiamento radicale negli stili di vita della maggioranza della popolazione mondiale, dal consumo di carne all’uso dell’aereo, nel breve-medio termine (orizzonte temporale in cui è necessaria un’azione significativa per mitigare il cambiamento climatico); bisogna anche considerare che, fino ad ora, i governi nazionali che hanno tentato in maniera unilaterale e con un approccio top-down di imporre normative volte a ridurre le emissioni sono stati poi oggetto di consistenti pressioni dalla parte della popolazione maggiormente colpita da tali misure, basti pensare alla Francia di Emmanuel Macron e dei gilets jaunes.
A parte rischiare di essere controproducente, questo approccio potrebbe a priori non essere necessario. Esiste un sistema per ridurre le emissioni e mitigare il cambiamento climatico senza doversi affidare a sogni – o incubi, a seconda dei punti di vista – di decrescita: le trasformazioni tecnologiche, unica vera conditio sine qua non per provocare la tanto agognata transizione energetica.
Pochi, fondamentali avanzamenti tecnologici basterebbero a rivoluzionare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo energia. Il primo consiste naturalmente nel raggiungimento della maturità economica, al netto di sussidi, per energie rinnovabili come eolico e solare, che in alcuni Paesi è già una realtà. Di conseguenza, è necessario lo sviluppo di tecnologie che permettano un’integrazione sempre maggiore di energie rinnovabili non-dispacciabili (per le quali la produzione non è sempre disponibile, quali appunto eolico e solare) nella rete elettrica, a cominciare da sistemi sempre più efficaci di stoccaggio di energia elettrica, cioè le batterie. Numerosi scenari di mitigazione del cambiamento climatico si basano poi sulla possibilità di ottenere emissioni negative, ovvero di prelevare CO2 dall’atmosfera; il procedimento, chiamato a seconda delle specifiche Carbon Capture and Storage (CCS) o Carbon Capture and Utilisation (CCU) esiste già, e non è escluso che anche questa tecnologia possa vedere la maturità economica in futuro. Per fare un altro esempio, un contributo sostanziale alla riduzione delle emissioni potrebbe arrivare dall’introduzione, come combustibile per il trasporto e per il riscaldamento e raffreddamento degli edifici, dell’idrogeno, molto più pulito di petrolio e gas.
L’accento sul ruolo dello sviluppo tecnologico nella transizione energetica comporterebbe una riduzione sostanziale dello spazio di manovra dei governi nella gestione del processo: a meno di non credere nella tesi dello “stato innovatore”, le principali transizioni tecnologiche storicamente sono state portate avanti dai mercati, non dai governi. Il ruolo di questi ultimi, semmai, si configurerebbe piuttosto come quello di creare le giuste condizioni, intese soprattutto come incentivi economici a livello regolatorio, perché i mercati possano svolgere la loro funzione innovatrice. Un esempio di questo approccio è costituito, in parte, dalle politiche europee in materia di decarbonizzazione, che negli anni, soprattutto a partire dalla creazione della Energy Union, si sono focalizzate sempre più sull’incentivare gli investimenti in energie pulite.
Il modo in cui si sono sviluppate le politiche energetiche e climatiche in ambito comunitario dimostra che, almeno a livello UE, l’opposizione clima-mercato non è stata percepita, o quantomeno non è stata ritenuta un ostacolo insormontabile. Al contrario, si è stati spesso in grado di disegnare politiche volte a ridurre le emissioni sfruttando meccanismi di mercato. L’esempio principale è costituito dal sistema ETS (Emission Trading Scheme), ovvero la configurazione europea della carbon tax. Nel contesto di tale meccanismo, gli impianti industriali ricevono dei certificati riportanti la quantità di emissioni che sono autorizzati a produrre, che possono vendere o comprare nel caso abbiano bisogno di emettere, rispettivamente, di più o di meno: in questo modo è garantita, almeno a livello teorico, l’allocazione più efficiente di emissioni fra diversi settori e industrie.
Se si vuole impostare una lotta ai cambiamenti climatici che sia efficace e, soprattutto, sostenibile nel lungo termine, a livello sia economico che politico, i governi (e i consumatori!) non dovrebbero aver paura dei mercati; al contrario, dovrebbero stimolare una riflessione sul modo più intelligente di indirizzare i mercati verso la loro funzione naturale, quella di essere generatori di innovazione e trasformazione.
Condivisibile l’idea di ricorrere al mercato, ma il problema sono sempre le basi: si tratta comunque di sconvolgimenti giganteschi di stili di vita e sistemi produttivi.
Perchè, anche se adotti meccanismi di trade o simili, di fatto ottenere un qualche risultato vuol dire sconvolgere il sistema (per definizione), non prendiamoci in giro.
Su questo, purtroppo, vedo che fate vostri i soliti luoghi comuni (sti): il solare non è per nulla competitivo da nessuna parte, senza sussidi (che ovviamente includono certificati verdi ed altri strumenti “impari” rispetto ai combustibili usuali); non lo installa proprio nessuno, se non per farsi pubblicità. E figuriamoci le batterie, per pietà.
Sull’idrogeno leggo qualcosa di profondamente errato.
1) Se parliamo di riscaldamento, parliamo di anidride carbonica, che non è un inquinante ed è quindi del tutto irrilevante che l’idrogeno sia “pulito” rispetto a gas e derivati del petrolio (la “pulizia” riguarda altre sostanze).
2) L’idrogeno di fatto non esiste in natura, va prodotto usando più energia di quella che potrà fornire: è quindi solo un vettore energetico, una “batteria chimica”, e quindi ciò che conta rimane come viene prodotta inizialmente l’energia, se con combustibili fossili, sperpero immane di risorse in rinnovabili alternative, nucleare.
Nucleare che, ad oggi, rimane l’unica strada per contenere realmente la produzione di CO2 senza fare follie economiche o “decrescere”.
Perdonatemi, ma pollice verso. Non se ne può più di leggere le solite cose disancorate dalla realtà (le parole sull’idrogeno non vi fanno fare bella figura).
L’unica posizione sostenibile è quella di riconoscere che la teoria del riscaldamento globale, così come ci è stata venduta, non sta affatto in piedi. Sta in piedi tanto quanto i soliti modellini keynesiani disastrosi.
Ed è quindi irrazionale ed irragionevole pretendere di sconvolgere il mondo (tramite diktat dall’alto o “mercato”, che curiosamente di fatto vuol dire tasse) su qualcosa di così poco fondato e conosciuto.
In subordine, l’unica altra posizione razionalmente sostenibile è nucleare su vasta scala (e magari cominciare a parlare dell’idrogeno come vettore, ma solo dopo aver coperto il 100% dei consumi prettamente elettrici, quindi nel caso tra qualche decennio).
Mi spiace ragazzi, ma questa è la battaglia ideologica fondamentale del XXI secolo, ed è fondamentale stare dalla parte giusta.
Cosa che richiede coraggio, oltre che intelligenza e reale cultura.
Come non essere d’accordo col commento sopra di Davide. Punto per punto, lo stavo per scrivere io su rinnnovaibili, AGW, idrogeno, nucleare.
Mi aspettavo dal LeoniBlog una serietà scientifica maggiore nell’ospitare articoli invece della solita trita e ritrita superficiale disinformazione scientifica che si sente in giro condita da “un po’ più mercato”. Mancava una foto di un blocco di ghiaccio che si distaccava e avremmo completato il quadro…
Invocare qui in questo blog, che ho sempre letto con interesse e ammirazione, tali luoghi comuni su idrogeno, rinnovabili e cambiamento climatico antropico è a dir poco desolante.
Vorrei sapere cosa ne pensa su questi punti Carlo Stagnaro…
Non si fa corretta informazione col politicamente corretto anche perché ricordiamoci tutti che la scienza non si fa a maggioranza, la scienza è basata sul metodo scientifico e non sui modellini dell’IPCC (che ha vinto Nobel per la Pace…sigh!) che non ne hanno mai azzeccata una e che non hanno anche truccato i dati per “spiegare” (non voglio usare il termine dimostrare che ha preciso significato matematico/scientifico) le loro ipotesi.
Spero in un abbaglio del LeoniBlog, monitorerò i prossimi articoli…
Ringrazio Alberto per l’apprezzamento.
In generale, devo dire che su cosa abbia senso fare in campo energetico (non solo trasporti), ammesse ma non concesse certe ipotesi, ho letto anche su queste pagine considerazioni intelligenti da parte di Francesco Ramella.
Non ultimo il briefing paper “Ambiente: si stava peggio quando si stava peggio” recentemente pubblicato sul sito dell’IBL.
Ma il vero punto rimane un altro: avere il coraggio di riconoscere e contestare la estrema fragilità (sono generoso) dei ridicoli modelli IPCC (che difatti dopo 30 anni hanno mostrato di non saper prevedere l’andamento del clima) e della semplicistica, infantile, teoria sottostante.
Perchè il vero problema, su questo argomento, sono le fondamenta.
E ne abbiamo le scatole piene di vedere chiamata “scienza” solo un’accozzaglia di identità ed equazioni ammassate a caso, in modelli che funzionano tanto quanto l’astrologia, senza la minima robustezza statistica.
E’ ora di fare pulizia di queste porcherie.