14
Gen
2019

L’agricoltura biologica e il disegno di legge 988

Il fact checking di oltre 200 esperti.

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Flavio Barozzi e Luigi Mariani (Società Agraria di Lombardia).

La nostra formazione liberale ci induce a ritenere che l’imprenditore agricolo debba essere libero di adottare il processo produttivo (convenzionale, biologico, integrato, ecc.) che meglio gli consente di confrontarsi con il mercato, a condizione che tale processo avvenga nel rispetto delle normative e fornisca all’acquirente i prodotti attesi e che il produttore dichiara di rendere disponibili. Ma riteniamo altresì che il legislatore debba favorire l’innovazione della nostra agricoltura per consentirle di confrontarsi ad armi pari con gli agricoltori delle altre parti del mondo e di svolgere in modo efficace e sostenibile il proprio ruolo di produttore di beni di consumo e di generi alimentari in quantità e di qualità confacenti.

Siamo quindi rimasti piuttosto sconcertati dalla lettura del Disegno di Legge 988 “Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico”, approvato dalla Camera lo scorso 11 dicembre e attualmente in attesa di iniziare l’iter in commissione Agricoltura del Senato. Infatti l’idea di fondo cui si ispira il DDL è quella di porre il cosiddetto “bio” al centro del sistema agro-alimentare italiano facendone nientemeno che una “attività di interesse nazionale” e quindi una sorta di asse portante del sistema stesso. A cui peraltro la produzione nazionale derivante da agricoltura “biologica” contribuisce attualmente solo per il 3%, a fronte del 97% derivante da produzioni agricole ottenute attraverso l’agricoltura che vorremmo chiamare “tecnologica”. Indubbiamente questa impostazione, se confermata dalla discussione in Senato, costituirà un successo per la cosiddetta “lobby bio”, che dal DDL forse attende ulteriori fondi per proseguire nelle sue attività.

Inoltre, magari condizionato da qualche influsso determinato da “mode” antiscientifiche oggi in voga, il DDL in discussione si “allarga” rispetto all’impostazione del reg. UE 848/2018, di cui dovrebbe costituire recepimento nazionale, equiparando ope legis l’agricoltura biologica (che pure si riferisce in prevalenza a principi scientificamente fondati, per quanto spesso antiquati) con quella biodinamica, che di fondamento scientifico è viceversa sostanzialmente priva.

Ferme restando le nostre convinzioni e il nostro impegno di tecnici nei confronti della ricerca di soluzioni che coniughino l’efficienza della produzione agricola (sia in da un punto di vista quantitativo che qualitativo) con la sostenibilità ambientale, l’idea di mettere il bio al centro del sistema agro-alimentare italiano appare tuttavia irrazionale e antistorica in quanto:

  1. non esiste alcun settore economico (tantomeno l’agricoltura) che possa aspirare a un reale sviluppo ripiegandosi su tecnologie dei primi del ‘900 (vi immaginate produttori di auto o imprese edili che realizzassero i loro prodotti con le tecnologie di cento o centoventi anni fa? Che garanzie di qualità e sicurezza potrebbero mai dare ai loro clienti?). Ecco, in agricoltura il biologico ripropone tecnologie di fine ‘800, mentre il biodinamico ripropone addirittura rituali a base magica già smitizzati 2000 anni or sono dal grande agronomo romano Lucio Moderato Columella;
  2. si rischia di confondere alcune nicchie (filiere per cibo a prezzi elevati destinati a elites urbane con grandi capacità di spesa) con il core business del sistema agricolo-alimentare: produzione di cibo di qualità e a prezzi contenuti; materie prime di qualità e in partite di dimensioni adeguate per le grandi filiere produttive legate al territorio (prosciutti, formaggi, pasta, ecc.) che non dovrebbero dipendere dall’estero per la materia prima;
  3. il bio appare attualmente insostenibile per ragioni ecologiche a livello globale: la sua ridotta efficienza nell’utilizzo di fattori produttivi limitati e non riproducibili (suolo, acqua, aria) ne determina anzi un impatto ambientale del tutto insostenibile (si pensi solo ad una dato di fatto: posto che l’agricoltura biologica mediamente produce la metà rispetto a quella convenzionale e dunque se adottata su vasta scala per rispondere alle richieste odierne del mercato dovrebbe raddoppiare la superficie coltivata, il che non potrebbe che avvenire ai danni di foreste e praterie naturali); seri dubbi sussistono anche a livello aziendale, sia in termini di sostenibilità ecologica (in quanto dipende dall’agricoltura  convenzionale – cui vorrebbe “fare le scarpe” – per la sostanza organica e i nutrienti) che economica;
  4. si perpetua l’idea che il bio (fondato su un processo produttivo più o meno seriamente certificato, e non su un prodotto di cui sia analiticamente accertata la superiore qualità intrinseca), e che  in genere arriva sul mercato a  prezzi assai più elevati di quelli dei prodotti dell’ agricoltura “tecnologica”,  possa godere di sussidi pubblici aggiuntivi violando in tal modo il principio di libera concorrenza ;
  5. si rischia di dimenticare (qualche “biointegralista” vorrebbe anzi negare) che l’agricoltura su cui investire per coniugare rese elevate, alta qualità e sostenibilità delle produzioni sia costituita oggi dall’agricoltura integrata, che si fonda sullo studio costante e sull’utilizzo razionale delle migliori tecnologie nell’ambito delle genetica (specie e varietà in grado di offrire le migliori performance sul piano quali-quantitativo) e delle tecniche colturali (tecniche di agricoltura conservativa, difesa integrata, uso mirato di fitofarmaci a basso impatto ambientale, agricoltura di precisione per ottimizzare l’impiego degli imput tecnologici, ecc.).
  6. si dimentica che puntare su agricolture a ridotta produttività come quelle bio è un lusso al di sopra delle possibilità di un Paese come l’Italia,  che pur disponendo in base ai dati ISTAT di quasi 13 milioni di ettari di superficie agricola utile presenta livelli di autosufficienza alimentare in costante calo: oggi copriamo solo il 70% del fabbisogno generale e importiamo il 40% del frumento per la pasta e il pane e il 35% dei mangimi zootecnici necessari a produrre alcuni dei nostri maggiori generi da esportazione (i due formaggi grana e i due prosciutti crudi di fama mondiale).

Il DDL, in nome dell’idea di porre il bio al centro del sistema agro-alimentare italiano, presenta diversi aspetti criticabili:

  1. mette in discussione le basi del nostro sistema sementiero (registro varietale e certificazione), presenti in tutte le agricolture evolute, introducendo concetti tecnicamente inquietanti come quelli della “selezione partecipata” ovvero un meccanismo che applicato in modo inconscio per secoli non ha portato alcun beneficio (nel 1910 in Italia i frumenti avevano una produttività pari a quella dell’età augustea); ciò a prescindere da ogni valutazione relativa ad un tema su cui sarebbe interessante aprire una discussione a parte, e cioè quello della tutela brevettuale delle opere d’ingegno, quali sono a tutti gli effetti le nuove varietà frutto del miglioramento genetico fin dai tempi di Nazzareno Strampelli, grande  selezionatore e padre di molte varietà storiche di frumento;
  2. mette in discussione il sistema di formazione agraria universitaria (che senso ha nel XXI secolo definire percorsi formativi fondati su tecnologie di fine’800 o a base magica?) ipotizzando la creazione di corsi di studi in materia agraria che aprioristicamente rifiutano la conoscenza dei potenziali nuovi strumenti messi a disposizione dal progresso tecnico-scientifico;
  3. non affronta deliberatamente il tema dei controlli, che rappresenta invece una delle maggiori criticità dell’agricoltura biologica italiana; i controlli del bio sono infatti fondati su un sistema di certificazione delegato dal Ministero delle Politiche Agricole ad enti privati in cui il controllore è pagato dal controllato: un sistema oggettivamente lacunoso e che non tutela il consumatore, come dimostrano inchieste giornalistiche e ricorrenti scandali sul “falso bio”;
  4. per contro, l’equiparazione del biodinamico al biologico sembra determinare un endorsement pubblico non dovuto verso un soggetto privato che detiene di fatto il monopolio del biodinamico, legato a quella che si configura in sostanza come una multinazionale, tra l’altro con sede in Germania;
  5. introduce attraverso l’imperscrutabile strumento dei cosiddetti “distretti biologici” un sistema di entità partecipative confliggenti e concorrenti con altre previste dal nostro ordinamento (Area vasta- ex Provincie, Comunità Montane, ecc.) che fa molto pensare all’ennesimo “poltronificio” di cui l’Italia non sembra avere particolare bisogno.

Cosa fare per proporre un’alternativa ad un testo che presenta varie lacune, anche a danno dei produttori biologici seri, che pure meritano rispetto ed autentica tutela del loro impegno? Ne abbiamo discusso con diversi colleghi e agricoltori e siamo giunti alla conclusione di esprimere le nostre perplessità, peraltro diffusamente condivise, attraverso un documento in grado di contrastare e se possibile emendare su base scientifica  alcuni aspetti del DDL che appaiono più dettati da un approccio “ideologico” che da un ragionato, approfondito e razionale processo legislativo. Si è così giunti alla redazione di un documento (di cui ci preme sottolineare l’intento propositivo oltre che analitico) contenente osservazioni sul testo unificato sulle produzioni biologiche all’esame del Senato, che ad oggi è stato condiviso da circa 250 firmatari tra agricoltori, agronomi, docenti  ed esperti  dei differenti  ambiti  delle scienze agrarie. Un dato probabilmente significativo della richiesta che parte da chi realmente conosce il settore agricolo di disporre di strumenti legislativi efficaci, razionali e realistici. Strumenti che dovrebbero tutelare chi opera seriamente in un comparto “di nicchia” come quello del bio (che comunque riveste più di un interesse, specie in alcune aree e realtà produttive della nostra variegata agricoltura) senza per questo impedire il progresso scientifico, la libertà di ricerca e quella d’impresa per chi altrettanto seriamente studia ed utilizza le moderne tecnologie nell’ambito della produzione agricola. Il testo integrale è disponibile sul sito agrariansciences.com.

Ringraziamo chi avrà la pazienza di leggerlo e, qualora lo condivida, di sottoscriverlo.

You may also like

Il green deal europeo non è politica ambientale ma (dannosa) politica economica (soprattutto in agricoltura)
Quest’estate andremo tutti al cinema?
Aiuti di stato Alitalia, meglio tardi che mai?
Aiuti di stato, quando l’eccezione diventa la regola

Leave a Reply