22
Ott
2021

Il neoliberismo fortuna della sinistra. La curiosa ossessione di Letta e Prodi

Enrico Letta pensa che l’esito delle consultazioni amministrative nelle grandi città e la sua elezione a Siena siano una conferma della linea che punta alla costruzione di un’area larga a sinistra (con il M5S ridotto a soggetto gregario) in grado di dire agli elettori “o di qua o di là” in contrapposizione al centrodestra. Ovviamente il successo di questa strategia richiede che la nuova alleanza abbia un’agenda autonoma (anche se non contrapposta) rispetto a quella di Mario Draghi e un “pensiero” politico che riscopra i valori “autentici” della sinistra (nonostante che essa abbia vinto grazie ai voti dei quartieri ZTL).

A benedire questa visione è arrivato Romano Prodi (da qualche tempo molto attivo come se avesse un obiettivo da raggiungere) con la sua nuova dottrina: “il riformismo deve trovare una identità nuova dopo 35 anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali”. Ci fermiamo qui, perché non è nostra intenzione commentare la politica di oggi, ma di contribuire alla difesa del “neoliberismo” e al ruolo che ha svolto, al di là dei luoghi comuni. Infatti, quando uno Stato decide di porre sotto controllo l’inflazione (può darsi che tra poco il problema tornerà di attualità), di tendere al pareggio di bilancio, di tenere a livello di guardia il debito pubblico e, di conseguenza, anche i relativi interessi, di diminuire le tasse e di ridurre la spesa pubblica corrente a favore di quella per investimenti, da parecchi settori della sinistra fioccano le accuse di neoliberismo e il risanamento è accusato di ‘’costare’’ sul piano sociale. Come se la situazione precedente rappresentasse, invece, l’espressione del progresso e della giustizia.

Quando si evoca il neoliberismo (dato per fallito, morto sepolto e, come dice la preghiera, “disceso agli Inferi” senza possibilità di resurrezione) si finisce sempre per evocare anche il fantasma di Margaret Thatcher. Se è questa l’analisi, trent’anni sono pochi perché la “lunga marcia” della Lady di Ferro iniziò almeno dieci anni prima. Infatti, dopo essere stata dal 1975 leader dell’opposizione ai Comuni (e componente del governo ombra), la Thatcher divenne Primo ministro nel 1979 e ricoprì questo ruolo fino al 1990. In precedenza era stata segretario all’Istruzione e si era fatta conoscere per aver abolito la somministrazione del latte ai bambini dai 7 agli 11 anni (che notoriamente sono svezzati da tempo). Per questo motivo la sua fama di persona “crudele” aveva fatto il giro del mondo con il soprannome di ‘’Thatcher ruba latte’’.

Ma l’Iron Lady (a chiamarla così fu un’agenzia sovietica, già nel 1976) non tardò a capovolgere, da Downing Street, la struttura economica e sociale del Paese. Nel Regno Unito, alla fine degli anni ‘70, le imprese private erano controllate dal settore pubblico e quelle pubbliche da nessuno, tranne che i sindacati. La prima società che fu privatizzata vendeva le cucine economiche. Erano arrivati, nel Regno Unito, a considerare strategica anche questo tipo di produzione. Del resto noi in Italia avevamo i “panettoni di Stato”.

Dal 1981 al 1987 il governo Thatcher sottrasse al controllo e alla spesa dello Stato un imponente numero di società partecipate: dalla British Telecom (1984) alla British Gas (1986); dalla British Airways (1987) alla British Petroleum (1983); dalla British Airport Authority alla Associated British Pors, alla Jaguar, alla National Bus Company, alla British Sugar Corporation, alla British Steel, alla British Rail Hotel, Amersham International, alla Cable & Wireless, alla Ferranti, alla Sealing Ferries, ad alcune ferrovie ed alla produzione e distribuzione dell’acqua.

Negli anni del governo Thatcher l’Inghilterra migliorò tutti i suoi indicatori, in particolare, per quanto riguardava il debito pubblico (dal 54,37% al 34,90%), il tasso d’inflazione (dal 17,97% al 5,85% con un minimo del 3,42% nel 1986); il totale della spesa pubblica passò dal 43,16% al 39,73%. Nell’arco degli anni ’80 il PIL pro-capite salì in modo significativo in termini reali, con aumento della ricchezza media di circa 7 punti percentuali. Queste politiche ebbero effetto nel tempo; non provocarono, in Gran Bretagna, una diminuzione del grado di protezione dei cittadini, né smantellarono il welfare state. La spesa pubblica fu ridotta; tuttavia, se nel 1979 alle voci sanità, pensioni ed educazione andava meno della metà delle uscite totali, dopo la cura Thatcher l’impiego delle risorse in queste voci salì al 61%.

Quando, nel Regno Unito, la pressione fiscale era pari al 35,5%; in Italia era al 44% e in Germania al 45%. All’inizio dell’era Thatcher l’aliquota massima sulle persone fisiche raggiungeva l’83%, anni dopo si era dimezzata al 40%; quella minima era passata dal 33% al 23%. L’aliquota complessiva sui redditi delle società di capitali (dal 1980 al 1996) era scesa, nel Regno Unito, dal 52% al 33%, mentre in Italia, nello stesso periodo, era salita dal 36% al 53%.

Margaret Thatcher fu una statista innovatrice, che contribuì al cambiamento della cultura politica del mondo occidentale. Delle idee della Lady di Ferro pochissimi hanno osato ed osano parlare bene; moltissimi le hanno adottate. A pensarci bene, la sua lezione ha maggiormente influito, seppur indirettamente, sulla cultura della sinistra. Con grande fatica, poiché nessun avversario è tanto irriducibile come la Vecchia sinistra.

La Thatcher iniziò a smontare, pezzo dopo pezzo, una economia – come quella del Regno Unito – cronicamente malata di statalismo, inquinata dal più esteso processo di nazionalizzazioni, mai realizzato al di qua del Muro di Berlino; una sorta di DDR d’Occidente. L’azione della premier riuscì ad affermare, in via di principio, che lo Stato non deve sostituirsi ai privati.

Sul versante del mercato del lavoro furono eliminati vincoli soffocanti e riconvertite misure assistenziali per la disoccupazione in provvedimenti promozionali di attività lavorative (come nel Galles dopo la chiusura delle miniere). Ma il successo più importante della Lady di ferro consistette nel ridimensionamento del potere delle Trade Unions attraverso i tre Statutes in materia: l’Employment Act del 1980, quello del 1982 e il Trade Union Act del 1984. I primi due provvedimenti costituivano la fase di transizione verso il nuovo diritto sindacale definito nel terzo, i cui obiettivi miravano alla protezione della sfera dei diritti del singolo lavoratore nei confronti dei poteri dell’apparato sindacale.

La via seguita dalla Lady di Ferro fu quella di attaccare il potere economico dei sindacati, introducendo l’obbligo di sottoporre a referendum la clausole che imponevano l’iscrizione obbligatoria al sindacato per essere assunto ed aver applicato il contratto. Il potere secolare del Tuc crollò come un castello di carta. La premier vinse la sua battaglia con le armi della democrazia.

“Il nostro lavoro consisteva – scrisse anni dopo la Thatcher – nel mettere in discussione l’indiscutibile”. Con questo credo Margaret Thatcher si accinse a misurarsi con tutti i suoi avversari. Cominciò con i minatori, allora diretti da Arthur Scargill. L’industria carbonifera era stata nazionalizzata nel 1947; perdeva denaro a un ritmo sostenuto, tanto che il sussidio statale era salito all’equivalente di 1,3 miliardi di dollari l’anno. Il settore aveva la necessità di un ampio processo di ristrutturazione attraverso la chiusura di miniere e la riduzione del personale. Scargill e compagni rifiutarono ogni compromesso ed intrapresero, nel marzo del 1984 (quando in Italia i comunisti manifestavano contro il decreto di San Valentino sulla indennità di contingenza), una lotta ad oltranza che si trascinò a lungo e fu caratterizzata da aspri scontri sociali (con decessi, feriti e migliaia di persone arrestate).

Lo sciopero acquistò risonanza internazionale (le mogli degli scioperanti andarono in giro per l’Europa a battere cassa). Il sindacato dei minatori ricevette contributi persino da Gheddafi, dai sindacati afghani (allora sotto il dominio sovietico) e dalla stessa Urss. Per fortuna, il governo aveva incaricato la Commissione per l’energia di accumulare riserve; così, nonostante le difficoltà di approvvigionamento, non vi furono i blackout del 1974. Ci volle un anno, ma alla fine il sindacato dei minatori capitolò, perché i lavoratori imposero la fine degli scioperi. I decenni di protezionismo sindacale erano finiti. Lo scontro tra il governo e i minatori entrò nell’immaginario collettivo: ovviamente in modo del tutto unilaterale, per come il cinema volle raccontare quelle lotte. Era tutto un grande Sulcis. Ma noi il nostro l’abbiamo conservato.

A pensarci bene, la lezione della Thatcher ha maggiormente contribuito, seppur indirettamente, a cambiare la sinistra; con Tony Blair. Quella italiana non ha conosciuto la rivoluzione blairiana, perché in Italia purtroppo non c’è mai stata la signora Thatcher ad aprire la strada. Silvio Berlusconi, per quanti sforzi abbia compiuto, non è mai riuscito ad esprimere in Italia una capacità d’innovazione sia pur lontanamente simile a quella della Iron Lady. Paradossalmente, se qualche cambiamento è stato realizzato, lo si deve ad un’ala della sinistra che ora è accusata di concorso esterno in ideologia liberista.

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