28
Nov
2020

Margaret Thatcher, il coraggio della necessaria impopolarità

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Amedeo Gasparini

Trent’anni fa Margaret Thatcher usciva da Downing Street. Si concludeva l’era che in Gran Bretagna portava il suo nome. Dopo undici anni di governo e tre elezioni di fila vinte – un capolavoro politico senza precedenti – si chiudeva un’epoca. Una liberazione per alcuni, un dramma per altri.

La signora Thatcher non ha mai fatto mistero dei suoi metodi sbrigativi, così come del fatto di circondarsi di yes men, nonché di aver avuto sempre bisogno di avversari. Da Primo Ministro credeva di essere una missionaria della libertà e difendere il singolo individuo: una guerriera che doveva disintegrare il Socialismo e far trionfare il Conservatorismo (liberale) in tutti i campi, a partire da quello economico.

Thatcher era una radicale: le sue battaglie erano battaglie di principio. Anche a costo di non ingraziarsi gran parte l’opinione pubblica – cosa che fece, tuttavia, con l’operazione nelle Falkland – perseguì la sua azione politica con coerenza e vigore.

Un episodio significativo che bene illustra quanto la Signora quasi tenesse ad essere impopolare per portare avanti idee e principi in cui credeva, fu quando in un’intervista disse che la società non esisteva e che questa non doveva essere una “scusa” o una spiegazione ai problemi delle persone. Le dure parole di Thatcher, poi strumentalizzate e decontestualizzate, erano un invito assolutamente impopolare ad ognuno di prendersi le proprie responsabilità. «Ci sono individui, uomini e donne, ci sono famiglie e nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone e le persone, prima di tutto, pensano a loro stesse».

E a proposito dell’ottica della sua intransigenza, spiegò che «la gente ha avuto troppo in mente i propri diritti acquisiti, senza pensare ai propri doveri, ma non esistono diritti acquisiti senza prima avere assolto i propri doveri»; quale politico, di destra o sinistra, oggi, direbbe una cosa del genere? Chi avrebbe il coraggio di sfidare i sondaggi e dire anche verità scomode all’elettorato?

Nella sua azione politica controversa, in oltre un decennio di governo Thatcher si è contraddistinta per tutta una serie di riforme: scomode, ma mai demagogiche, dunque non a favore del popolo, ma nell’interesse del medesimo nel lungo termine.

Errori nella conduzione ed applicazione di ricette apparentemente lacrime e sangue? Tanti, ovviamente; ma per capire quanto fossero necessarie le misure impopolari della Signora occorre ricordare cosa fosse la Gran Bretagna prima del suo arrivo a Downing Street. Considerando lo scenario apocalittico domestico, l’isola di Sua Maestà era a tutti gli effetti il grande malato d’Europa: inflazione e interessi a due cifre, pound debolissimo, rivolte studentesche, terrorismo in Irlanda del Nord, alto tasso di criminalità, pile di spazzatura per le strade, scuole chiuse, ospedali che operavano solo in casi estremi, sindacati onnipotenti con fortissimo potere contrattuale nonché in grado di bloccare ogni riforma del governo, scioperi selvaggi e non annunciati, cadaveri non seppelliti nei cimiteri, nazionalizzazioni massive con gravi ricadute sul debito pubblico, posti di lavoro pubblici creati in maniera spropositata e a deficit. Era il frutto anche di uno smodato e opportunistico uso di ricette “keynesiane”.

Con le elezioni del 3 maggio 1979 i conservatori ripresero Number 10. “One small step for Margaret Thatcher, one giant stride for womankind” titolò il Guardian.

Thatcher si era presentata come la leader che avrebbe posto fine alla cosiddetta English desease, una combinazione di potere sindacale, scarsa efficienza nella gestione dello Stato e visione negativa del ruolo dell’impresa privata. E ci riuscì.

Secondo Thatcher, per stimolare la crescita bisognava fare un enorme taglio della spesa improduttiva (cosa impopolare): fu dunque rivolta. Manifestazioni di piazza, cortei, scontri con i bobbies, vandalismo di ogni genere da parte degli irosi hooligans. Per rimpinguare le casse dello Stato, partì quindi un intenso programma di privatizzazioni: i panettoni di Stato andavano sul mercato e l’Erario si liberò di diversi carrozzoni, molti dei quali non solo non strategici, ma anche in crisi da lustri; British Aerospace, British Telecom, British Gas, British Airways, British Leyland, British Steel, National Freight Corporation, British Airport Authority ed altre.

«Il controllo statale è fondamentalmente un male» spiegava Thatcher, «perché nega alle persone il potere di scegliere e l’opportunità di assumersi le responsabilità delle proprie azioni. Al contrario, la privatizzazione riduce il potere dello Stato e la libera impresa aumenta il potere delle persone.»

In apparenza, i primi risultati delle politiche thatcheriane furono devastanti: i disoccupati salirono a due milioni e mezzo. Ma il Primo Ministro «was not for turning» e alle prime privatizzazioni affiancò un programma di liberalizzazione e deregolamentazione. Nel tempo le riforme diedero frutto e i risultati furono brillanti: inflazione, debito pubblico e disoccupazione scesero.

«Non è lo Stato che rende sana l’economia», disse Thatcher. «Quando lo Stato cresce troppo, le persone migliori sentono di contare sempre di meno. Lo Stato drena la società, non solo delle sue ricchezze, ma anche delle sue iniziative, delle sue energie, della volontà di migliorare e innovare, oltre che di conservare meglio». John Campbell (The Iron Lady) ha spiegato che «per la maggior parte della sua vita il Governo Thatcher non è stato popolare».

Quando si festeggiarono i dieci anni alla vetta dell’Esecutivo, molti – tra cui il marito, Denis Thatcher – le consigliarono di passare lo scettro, ma lei si mise in testa di voler stabilire il record di permanenza a Downing Street. Il 3 gennaio 1988 divenne il Primo Ministro britannico più longevo del ventesimo secolo.

Gli ultimi furono però gli anni peggiori di Thatcher, impegnata in un estenuante braccio di ferro con la Comunità Europea e Jacques Delors – dipinto pubblicamente dalla Lady come un grigio burocrate assetato di potere – e la sconfitta interna sulla poll tax. Messa in questione proprio nel momento di massimo successo geopolitico – quando con Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov aveva dato un contributo decisivo all’eclissi del mondo bipolare – finì sotto attacco dai falchetti del suo partito che la sfidarono alle primarie. Michael Heseltine, già Ministro dello Sviluppo Economico e della Difesa nei suoi governi, approfittò della debolezza della Signora e si candidò come leader conservatore. Thatcher riuscì ad impedirne l’ascesa ma si auto-rimpiazzò malinconicamente con il fido, ma deludente, Major.

Per quanto fosse tremendamente impopolare nelle sue misure economiche draconiane, bisogna ricordare che Thatcher coltivava la sua base elettorale. Il “meno Stato” e “meno assistenzialismo” erano certamente misure impopolari per una parte dell’elettorato; l’altra – quella pro-Thatcher dell’epoca – si identificava politicamente con il pensiero che vi stava dietro.

La Signora sapeva che con la sua politica aveva spaccato il paese in due. La fine della Lady era rappresentata da un mix tra impopolarità nel paese, pressioni nel partito, la débâcle della poll-tax, la rimonta dei laburisti. Non un bell’addio. Thatcher decise di ritirarsi dalla vita pubblica, di viaggiare il mondo e di scrivere.

Le sue politiche controverse rimasero sulla bocca di molti e vivissime all’interno dei dibattiti europei e internazionali per diversi anni, ma Thatcher non si ritenne tanto incisiva quanto avrebbe voluto nell’economia britannica. I risultati per le finanze del Regno furono positivi, ma la deliberata politica dell’impopolarità continua a recarle ancora oggi “danni” d’immagine. Vale la pena di ricordarsi che anche Churchill perse le elezioni dopo la guerra. E tuttavia, col passar del tempo, i più impararono a ringraziarlo per la sua tenacia e il suo senso di responsabilità.

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