8
Mar
2014

Dati causa e pretesto? (seconda parte)

Il tema del divario di genere – qui affrontato sotto il profilo dei primi risultati dell’applicazione della legge Golfo-Mosca, dei benefici derivanti da una maggior presenza delle donne in posizioni apicali e, al contempo,  degli scarsi poteri decisionali comunque a esse attribuiti –  può essere altresì esaminato individuando alcune delle cause che ne sono alla base.

Come in un altro scritto venne evidenziato,  le donne compiono scelte di studio che preludono a professioni meno retribuite rispetto a quelle cui conducono i percorsi universitari intrapresi dagli esponenti dell’altro sesso. Nonostante la figura n. 6 dimostri che il preesistente divario in termini di istruzione è stato ormai colmato (secondo quanto riporta Almalaurea, non solo il numero di donne che si iscrivono all’università e giungono al termine degli studi è maggiore rispetto a quello degli uomini, ma le prime si laureano anche in tempi più brevi e con voti più elevati dei propri colleghi), tuttavia, come si rileva dalla figura n. 7, il genere femminile continua a privilegiare le facoltà umanistiche, a discapito di quelle tecniche, che di norma  consentono l’accesso ad attività più redditizie.

Figura 6:

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figura 6figura 6

Fonte: CNEL

Figura 7:

Composizione degli iscritti per genere e facoltà universitaria 2010

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figura 7

La figura n. 8 dimostra, tuttavia, un incremento delle iscrizioni femminili alle facoltà suddette. Il processo spontaneo così avviato sta avvenendo in misura contenuta in termini sia quantitativi che temporali e, pertanto, bisognerà attendere prima che i relativi effetti sul mercato del lavoro possano essere concretamente riscontrati.

Figura 8:

La quota di donne tra l’a.a. 1198 e il 2007/2008 nelle facoltà tradizionalmente maschili

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Posto, dunque, che le scelte universitarie possono condizionare l’evoluzione dell’attività professionale, è importante individuare le cause alle quali può ricondursi la tendenza delle donne verso facoltà determinate. Con specifico riferimento alla matematica, il Rapporto OCSE PISA 2012 dimostra che la differenza tra generi è in media di undici punti a favore dei maschi; in Italia essa è addirittura di 18 punti.

Sempre a specifiche propensioni femminili può riferirsi un altro fattore importante al fine di valutare i motivi in base ai quali le donne stentano a ricoprire posizioni di vertice (anche in ambiti diversi da quelli strettamente aziendali, qui un esempio), in mancanza di quote a esse destinate. Come nello studio dal titolo “Gender differences in competition emerge early in life” si dimostra, esse dispongono di una attitudine alla competizione molto meno spiccata rispetto a quella maschile. In generale, tendono a evitare situazioni di sfida, nelle quali comunque il loro rendimento è decisamente più scadente rispetto a quello dei rappresentanti dell’altro sesso. Come qui si rileva, ciò può dipendere da cause diverse, in particolare da strategie cognitive e risposte emotive determinate anche dall’educazione familiare ricevuta. In un recente paper della Banca d’Italia, oltre all’esposizione di diversi esempi di contesti nei quali la rilevata scarsa inclinazione a “gareggiare” si è evidenziata, si nota come ciò non dipenda  unicamente di “preferenze” genetiche (nature), ma altresì  dal contesto esterno (nurture). Gli effetti sarebbero, peraltro, differenti anche a seconda che la competizione sia tra uomini e donne o tra sole donne (in questo caso, la propensione in discorso sarebbe più elevata); a seconda che il contesto sia “presentato” come più o meno competitivo (in quest’ultimo caso, i risultati paiono migliorare); inoltre, attività tipicamente femminili o lavori in gruppo ridurrebbero l’effetto “scoraggiante”. Quindi, si conclude che “questi risultati possono contribuire a spiegare il minore accesso ai vertici nel mondo del lavoro se i passaggi di carriera hanno la natura e le caratteristiche di una competizione tra più soggetti in cui quello che conta è la performance relativa”.

Se la competitività è fondamentale in molti ambiti professionali, dove l’inclinazione alla “gara” anche con esponenti di genere diverso consente risultati migliori a parità di risorse tra chi si confronta, anche la minore propensione al rischio (v. figura n. 9) può essere tale da indurre le donne a compiere scelte che privilegino la tranquillità professionale a discapito di altri obiettivi, una buona carriera in primis. Come qui si scrisse, un investimento professionale di carattere parziale, ovvero orientato al minimo rischio per la propria sfera privata, così come qualunque investimento poco rischioso, prelude spesso a risultati lavorativi dello stesso livello, quindi non eccezionali.

Figura 9:

Preferenze tra diversi tipi di investimento finanziario (%)

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Fonte: CNEL

A sfavorire l’ascesa professionale può concorrere anche la circostanza che le donne quotidianamente spendano più tempo degli uomini in compiti domestici e di cura (figura n. 10). Il fatto che nelle regioni meridionali l’asimmetria sia più marcata sembra confermare che la stessa è legata a scelte di matrice culturale, più che a fattori discriminanti. Tuttavia, la rilevata asimmetria di ruoli si va progressivamente riducendo, come qui si evidenzia: vi è, quindi, un processo che tende spontaneamente al livellamento delle differenze esistenti.

Figura 10:

Quota di occupati (15-64 anni, figli esclusi) che svolgono più di 60 ore settimanali di lavoro retribuito e/o familiare per genere, ripartizione geografica e ruolo in famiglia. Anno 2008

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Fonte Istat, Indagine Uso del Tempo

Gli stereotipi culturali rivestono un ruolo importante non solo con riferimento alla ripartizione del lavoro familiare. Come qui si dimostra – in base a un confronto tra quasi 60 Paesi nello scorso decennio, realizzato sulla base della World Values Survey condotta tra il 2005 e il 2008 – convinzioni sociali tradizionalmente nutrite, sotto il profilo religioso soprattutto, incidono in maniera rilevante sulla partecipazione delle donne al lavoro professionale. Come le figure seguenti illustrano (nn. 11 e 12), non si può tuttavia ignorare che in Italia la situazione si sta evolvendo positivamente nel senso del superamento spontaneo di convinzioni consolidate.

Figura 11:

Persone di 18-74 anni per grado di accordo con l’affermazione “è l’uomo che deve prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia” e sesso (anno 2011, per 100 persone dello stesso sesso)

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Fonte: Istat

 

Figura 12:

Persone di 18-74 anni per grado di accordo con alcune affermazioni per singola affermazione e sesso (anno 2011, per 100 persone dello stesso sesso)

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Fonte: Istat

Tra le fonti del divario di genere in ambito professionale, infine, viene di norma richiamata la maternità, la quale concorrerebbe a determinare una minore partecipazione delle donne all’ambito lavorativo e, di conseguenza, una minore presenza delle stesse ai vertici delle aziende. Nel richiamato paper della Banca d’Italia, tuttavia, si rileva che se “in base ai dati aggregati il tasso di occupazione è minore per le donne con figli, in media di circa sei punti percentuali nella fascia di età tra 15 e 64 anni (…) nel lungo periodo e tenendo conto delle diverse caratteristiche personali, e in linea con quanto stimato per altri paesi, non vi è un effetto causale negativo della maternità sull’offerta di lavoro femminile”. Al riguardo, indicative sono le figure di seguito riportate (nn. 13 e 14).

Figura 13: Relazione tra il  tasso di occupazione femminile e il tasso di fecondità totale

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Fonte: Employment rates – OECD Employment Outlook UN World Statistics Pocketbook, 2010; Fertility rates

Figura n. 14:

Relazione tra il tasso di occupazione femminile e il numero medio di figli per donna nelle varie regioni italiane 

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Fonte: Istat 2009 (Mencarini)

Dunque, maternità e attività lavorativa possono seguire ciascuna il proprio corso. Di certo, un ruolo importante rivestono i servizi utili a conciliare vita professionale e familiare (80% di comuni che offrono servizi con il 33% in Emilia Romagna, contro meno dell’8% di comuni e 6% di copertura in Campania), come qui riportato. Nei contesti territoriali dove le politiche di welfare sono più efficaci, è maggiore la partecipazione delle donne al lavoro e, quindi, più elevate possono essere le probabilità che esse arrivino a occupare posizioni apicali.

Anche l’OCSE raccomanda il ricorso a strumenti idonei alla conciliazione: tra gli altri, asili nido, servizi di doposcuola, congedo parentale ai padri e ai nonni, flessibilità dell’orario di lavoro per entrambi i genitori, servizi di consulenza per ridurre i livelli di stress e favorire il benessere dei prestatori di cure. Tali strumenti, operando sulle cause che possono indurre una minore presenza femminile in ambiti professionali, aumentano le opportunità occupazionali del genere meno rappresentato; consentono che altri interessi di natura privata siano comunque tutelati; inoltre, evitano di interferire e limitare la discrezionalità dell’imprenditore nelle scelte attinenti la propria organizzazione. Esse appaiono, dunque, più funzionali a colmare progressivamente il divario di genere al momento esistente di quanto non lo siano le c.d. quote rosa.

Come  visto, queste ultime, oltre a non considerare i problemi connessi al lavoro di tipo familiare, sono altresì inidonee ad incidere sulle differenze psicologiche o culturali: trattandosi di misure normative, per loro natura sono destinate correggere non le cause, ma i risultati. Il compito del legislatore, in uno Stato di diritto, è quello di eliminare inique disparità di trattamento, nel rispetto del principio della non-discriminazione costituzionalmente previsto: non è, invece, quello di forzare cambiamenti che la società nel suo complesso deve restare libera di operare. Pertanto, disporre coattivamente che alle donne venga riservata una certa percentuale di posti ai vertici di aziende non impatta sui motivi del divario professionale e pare atteggiarsi, piuttosto, quale “captatio benevolentiae” nei riguardi della parte lavorativamente meno rappresentata: come si diceva, è una sorta di “ingegneria sociale” finalizzata a forzare determinati risultati che il legislatore suppone, forse, non possano essere diversamente perseguiti.  La parità effettiva tra generi diversi potrà essere conseguita mediante il superamento degli ostacoli che possono frapporsi all’effettuazione di libere scelte, agendo preventivamente sulla consapevolezza dei soggetti interessati che esistono sempre alternative diverse da quelle culturali consolidate nel tempo: è dalla conoscenza che passa ogni istanza di rinnovamento. Le quote rosa non servono a detto risultato.

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

 

 

 

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