28
Ott
2011

Acqua: il referendum dimezzato

Il voto di 26 milioni di italiani rischia di andare in soffitta? Lo sostiene Andrea Palladino sul Fatto quotidiano, riprendendo una lettera della Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche alla Consulta dei consumatori.

di Lucia Quaglino e Carlo Stagnaro

La Commissione interviene sull’interpretazione del secondo quesito – quello relativo alla “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” – chiarendo che la vittoria dei “sì” non può avere effetti sulle tariffe in essere né, come vorrebbero i referendari, tradursi nell’abolizione di qualunque copertura tariffaria degli investimenti. Il famigerato 7 per cento, infatti, non coincide direttamente con un profitto, ma rappresenta una componente di costo necessaria al finanziamento delle opere. In caso contrario, ossia se seguisse l’interpretazione “integralista” del voto popolare, sarebbe compromesso l’equilibrio economico-finanziario del gestore e il principio di copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio. Non è certo una novità, infatti si era già dovuto scontrare con questa realtà Nichi Vendola, uno dei più attivi promotori del referendum, che tuttavia, da governatore pugliese, ha correttamente scelto di non rimuovere dalle tariffe la componente del 7 per cento, per non compromettere l’equilibrio economico del “suo” Acquedotto pugliese.

Del resto, è difficile credere che, come sembrano sostenere le stime dei comitati per l’acqua, la remunerazione del 7 per cento pesi così tanto sulle tariffe da portare a introiti considerevoli. Se fosse comunque vero, il settore attirerebbe nuovi gestori e, quindi, si creerebbe un contesto maggiormente concorrenziale, che non può che essere positivo. In ogni caso, per quanto possano essere alti gli utili, per ora non è il caso di preoccuparsi, dato che, come si vede nella figura sottostante, in Italia il peso della tariffa dell’acqua è minimo (0,2 per cento) rispetto al reddito disponibile.

 Spesa media per acqua e rifiuti come quota del reddito medio disponibile. Fonte.

Naturalmente, è possibile che alcune tariffe siano state stabilite con eccesso di generosità: ma questo implica un intervento circoscritto, caso per caso, e riguarda la “cattura del regolatore” più che l’impostazione generale del sistema. E’ anche ragionevole discutere se il 7 per cento sia un valore congruo (troppo alto o troppo basso?). Ma un conto è chiedere regole migliori, altra cosa è negare la necessità di una voce tariffaria a copertura degli investimenti.

In aggiunta a ciò, nella lettera del governo alla Commissione europea si ribadisce che saranno liberalizzati i servizi pubblici locali ad esclusione di quello idrico, come previsto dal Decreto Legge n.138/2011, ignorando anche in questo caso l’esito referendario, dal momento che il primo quesito riguardava tutti i servizi pubblici locali. Va detto che, in questo caso, la “realtà giuridica” è nettamente divaricata dalla “realtà reale”: tecnicamente gli italiani hanno votato su tutti i servizi pubblici locali (non solo l’acqua), ma alzi la mano chi lo ha fatto consapevolmente. Comunque, sarebbe opportuno che qualunque intervento tenesse conto del messaggio giunto col voto, e che – già che ci siamo – fosse impostato in modo tale da superare le criticità della legge Ronchi, che era sicuramente preferibile allo status quo ante (e all’incertezza odierna) ma che in nessun senso fu una riforma ottimale. Lo aveva detto, fin dall’inizio, Luigi Ceffalo.

Come più volte ribadito in questo blog prima del referendum (per esempio qui, quo e qua) e come spiegato in questo paper, la lettera della Conviri conferma che il sì al secondo quesito produce solo due principali risultati: creare incertezza sul futuro e produrre disordini legislativi, il tutto senza che ci fosse alcun effetto sulle tariffe in essere né sulla qualità del servizio offerto. Di conseguenza, oggi ci si trova di fronte a una scelta anche più complessa di prima: dare una lettura “integralista” dell’esito referendario, condannando al sottoinvestimento il settore idrico, oppure interpretarlo con buonsenso, nella consapevolezza che interpretare è sempre un po’ tradire?

di Lucia Quaglino e Carlo Stagnaro

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2 Responses

  1. ferdico

    viviamo tempi di cambiamento….l’economia e la sua necessità di aumentare sempre i prezzi ci stà portando alla disgrazia. Sarebbe ora di far contare solo le persone ed il lavoro piuttosto che l’irrealtà della finanza. Il referendum è un fatto reale, le politiche di oggi, sotto il ricatto della finanza, sono l’irrealtà immateriale. Rapporti diretti tra utenti e servizi invece, e beni comuni garantiti…questo vorrebbe un vero paese democratico.

  2. carlo alberto

    io mi sono fatto una personale idea (sicuramente sbagliata)… il referendum se ha avuto un significato è stato proprio quello di sancire la distanza tra persone-consumatori-utenti ed enti-erogatori, che lo spirito referendario voleva “solo pubblici”, quindi servizi “statali” inefficienti e con prezzi non legati direttamente al consumo e alla tipologia dell’utente, ma mantenuti in vita con trasferimenti da altri tipi di prelievi (tasse ecc…).. vogliamo servizi pubblici “gratis” o a prezzi bassi e siamo disposti ad avere elevatissima pressione fiscale?..mah…

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