5
Feb
2018

L’acqua in bottiglia fa male?

Ben venga l’obbligo per i distributori di mettere a disposizione degli utenti maggiori informazioni su consumo, struttura dei costi, prezzo al litro e livello qualitativo dell’acqua potabile; l’importante, però, è che resti chiaro – anche al decisore pubblico – che l’acqua del rubinetto e l’acqua imbottigliata (a prescindere dal modo in cui questo avviene) sono e restano prodotti diversi.

Un italiano beve, in media, 208 litri di acqua in bottiglia per anno: un record in Europa (dove la media è di 106 litri a testa) e nel mondo, secondo solo a quello dei messicani (244 litri) (fonte dati: La Stampa). Sarà per questo motivo che, annunciando l’intenzione della Commissione europea di rivedere i termini della direttiva c.d. “sulle acque potabili”, il commissario Frans Timmermans ha fatto espressamente riferimento alla nostra esperienza nazionale, puntando il dito contro quella che egli ha definito «una cultura che resiste» alla scelta di consumare l’acqua del rubinetto, in luogo di quella imbottigliata. L’obiettivo di ridurre (in maniera abbastanza draconiana) il consumo di acqua in bottiglia sembra portare con sé risparmi importanti (si stima una possibile risparmio di 600 milioni di euro a fronte di una riduzione del 17 per cento del consumo di acqua in bottiglia, in tutta Europa) e un ampliamento della possibilità di scelta per i consumatori (che così potrebbero scegliere, secondo le loro convenienze, cosa bere e come farlo).

L’Istituto Bruno Leoni si è occupato in più occasioni delle attenzioni che il decisore pubblico (in specie italiano) ha posto alla materia in esame. In due paper (uno di Serena Sileoni, l’altro di Luciano Capone), a cui rimandiamo per maggiore completezza e profondità d’analisi sul punto, si è messo in luce come, oltre alle diverse obiezioni di natura “economica”, ve ne fosse una su cui si sorvolava troppo facilmente: il fatto, cioè, di presentare al consumatore la scelta tra acqua del rubinetto (detta anche, più tecnicamente, “potabile”) e acqua in bottiglia (cioè “minerale”) come sostanzialmente alternativa, presupponendo un’identicità dei prodotti che, invece, non esiste. Di fatti, anche per espressa previsione di legge (torna utile a questo proposito l’art. 2 del d.lgs. 176/2011, di attuazione della direttiva 2009/54/CE), le acque minerali sono quelle che, “avendo origine da una falda o giacimento sotterraneo, provengono da una o più sorgenti naturali o perforate e che hanno caratteristiche igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute”, e che dunque si distinguono dalle ordinarie acque potabili “per la purezza originaria e […] conservazione, per il tenore in minerali, oligoelementi o altri costituenti ed, eventualmente, per taluni […] effetti”. Come è facile intuire, dunque, dal momento in cui per le acque potabili le “caratteristiche igieniche” e le “proprietà salutari” non sono richieste, le acque minerali in bottiglia si caratterizzano come prodotto intrinsecamente diverso (e superiore) rispetto alle comuni acque distribuite dalla rete idrica.  Per usare le parole di Sileoni, “tale scelta può essere dovuta non solo all’abitudine, quanto pure alla consapevolezza della differenza tra i due tipi di acque e a una precisa selezione dell’acqua minerale migliore per il proprio organismo”. Preferire l’acqua “potabile” a quella in bottiglia (e viceversa) è, ancora una volta, questione di libere scelte del consumatore ed è apprezzabile la volontà di potenziare gli investimenti sulle reti di distribuzione, anche ai fini dell’effettività di questa scelta. Resta però un dubbio di fondo: se i prodotti – acqua del rubinetto v. acqua in bottiglia – sono tra loro diversi, perché il legislatore europeo sembra voler incentivare il ricorso alla prima, in opposizione alla seconda? Accanto all’idea di garantire l’accesso all’acqua potabile – quale diritto “fondamentale”, come riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali UE – la risposta, specialmente rispetto al caso italiano, sembra risiedere nell’annoso problema degli imballaggi di plastica, che rappresentano un forte ostacolo alla promozione del modello della c.d. “economia circolare” (fondata sulla riduzione del consumo di risorse non ri-utilizzabili), da tempo sponsorizzato dall’Unione Europea. Ma se è davvero un problema di imballaggi, l’opposizione – “qualitativa” – tra acqua del rubinetto e acqua in bottiglia è allora fuori luogo: più opportuno sarebbe cercare soluzioni (compatibili con l’ordine di mercato) in grado di incentivare il ricorso ad altre forme di imbottigliamento; certamente, come ogni processo innovativo, questo richiederebbe tempo e presupporrebbe, soprattutto, un’opzione preferenziale mostrata dai consumatori: la questione “culturale”, allora, più che al consumo di acqua in bottiglia in luogo di quella “potabile”, andrebbe riferita alla propensione per il tipo di imballaggio (la plastica). Di conseguenza, la scommessa dovrebbe essere quella di rendere o ancora più efficiente l’impiego della plastica (per cui non tanto usarne “meno”, quanto usarne “meglio”, come già le aziende fanno per obblighi di legge) o più conveniente il ricorso ad altri materiali (e questo non solo “monetariamente”, ma anche in termini di richiesta di impegno al consumatore: per quest’ultimo, smaltire la plastica è operazione alquanto semplice, diverso sarebbe – in ipotesi – ricorrere al c.d. “vetro a rendere”…).

In tutta onestà, c’è da rilevare che l’iniziativa dalla Commissione UE è sicuramente più apprezzabile rispetto alle propagandistiche (e ormai così propagandate) “case dell’acqua”. Queste ultime, infatti, quali vere e proprie “frode delle etichette”, finiscono per fornire al consumatore un prodotto identico a quello dell’acqua “potabile”, ma a costi nettamente maggiori: meglio, allora, come suggerito dalla Commissione UE, investire direttamente sulla qualità delle reti idriche e del prodotto da esse veicolato. Ma il consumatore merita di ricevere un’informazione chiara e corretta: ben venga l’obbligo per i distributori di mettere a disposizione degli utenti maggiori informazioni su consumo, struttura dei costi, prezzo al litro e livello qualitativo dell’acqua potabile; l’importante, però, è che resti chiaro – anche al decisore pubblico – che l’acqua del rubinetto e l’acqua imbottigliata (a prescindere dal modo in cui questo avviene) sono e restano prodotti diversi. Solo allora il consumatore potrà effettuare, in piena consapevolezza, la scelta che riterrà più giusta e conveniente.

@GiuseppePortos

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3 Responses

  1. Tenerone Dolcissimo

    Lo scopo della UE è evidente: mettere sullo stesso piano le acque minerali e quella del rubinetto, in modo da legalizzare la situazione de facto esposta dall’autore, ovverosia consentire a chi imbottiglia acqua priva di qualità igieniche o salutistiche di venderla senza dover temere sanzioni amministrative o anche condanne per truffa.
    Insomma una depenalizzazione della frode in commercio, in cambio di cospicue mazzette arrivate a qualche alto burocrate, alla faccia degli stronzzzzoni che ancora credono che la corruzzzzione alligni solamente in Italia.
    Forza … ci vuole più Europa

  2. Antonio Cappa

    “Frode delle etichette” mi pare una sciocchezza grave. Nelle casette dell’acqua il cittadino residente non paga la naturale e paga 5 centesimi/litro la frizzante (e qualora pagasse 5 centesimi/litro anche la naturale, un metro cubo d’acqua di casa non è gratis). Ma soprattutto l’acqua è chimicamente ugualmente “potabile” per entrambi, ma è largamente filtrata, cioè fisicamente non è la stessa cosa, in quanto l’acqua dalla casetta è qualitativamente superiore. E più è vecchia la casa dove uno abita, più la sua acqua “potabile” è fortemente inferiore qualitativamente (salvo che non abbiate anche ottimi filtri meccanici in casa).

  3. Ornella

    Mi sposto di frequente tra Lombardia e Veneto: nella prima regione bevo acqua minerale perché la “potabile” è solo, appunto “potabile”; nell’altra bevo quella di rubinetto perché è solo “buona”.

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