8
Lug
2010

Svalutare l’euro. Per chi?

Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC) e volentieri pubblichiamo

La crisi greca ha risvegliato uno dei cavalli di battaglia degli euro-scettici: l’impossibilità di “svalutazioni competitive”. L’Italia è campata nello SME fino all’euro, grazie (“grazie” si fa per dire) alla possibilità di ridurre periodicamente il valore della lira rispetto alle altre valute. Così come il gioco sul cambio era una spia di certi squilibri interni, riuscire a valutare “quanto” dovremmo svalutare oggi l’euro potrebbe rivelare qualcosa dello stato di salute dei vari Paesi.

Si può svalutare la propria moneta perché legata ad un tasso di cambio fisso diventato ormai troppo penalizzante, cioè così alto da deprimere troppo l’export e quindi la crescita economica. Una svalutazione passa così come aiuto all’economia in quanto sostiene l’export (da qui il termine “competitivo”). Ma questo ha dei costi: prezzi più elevati sull’import (ad es. materie prime), perdite per i detentori esteri di debito pubblico che pertanto pretenderanno tassi più alti (e saranno i posteri a pagare il conto), cristallizzazione di strutture produttive non competitive (che non devono rivedere i metodi di produzione, perché il prezzo estero viene abbassato “per decreto”). Chi invoca certe misure non è interessato a tutta l’economia, ma solo al miglioramento della bilancia commerciale, quindi spaccia l’interesse di una lobby per interesse della comunità. La miope urgenza del PIL in rosso comanda.

Ad una situazione di deficit commerciale con l’estero corrisponde la carenza di risparmio privato e pubblico. La logica è semplice: tutto ciò che viene risparmiato sulla produzione domestica viene collocato all’estero, o tutto il consumo eccedente viene soddisfatto con le importazioni.

Questo risultato può essere conciliato con la Teoria Austriaca: manovre monetarie inflazionistiche, e manovre fiscali espansive (specie se accomodate dalla politica monetaria) fanno crescere il consumo a scapito del risparmio, e questo squilibrato boom prima o poi imploderà. L’austrismo nasce guardando ad una economia chiusa, ma può essere estesa ad una economia aperta considerando che il maggior consumo possa venir soddisfatto tramite importazioni, e il minor risparmio compensato da ingressi di capitali; entrambe queste possibilità comportano debiti verso l’estero, che comunque non può crescere all’infinito e risolve solo parte dello squilibrio interno tra investimenti e risorse reali risparmiate, perciò la crisi economica arriverà comunque, forse “più tardi” ma aggravata da fenomeni di “ritiro” dei capitali esteri. Il problema sottostante allora non è solo “commerciale”.

Quanto più pensante è la scarsità di risparmio domestico tanto maggiore è il debito estero; la svalutazione crea una spinta all’export, e gli effetti collaterali di inflazione dei prezzi e rialzo dei tassi riducono i consumi interni e l’import, permettendo così di recuperare capitali (maggiori ingressi, minori uscite, e risorse non più consumate) facendo rientrare l’economia dal proprio debito estero prima di autonomi “credit crunch internazionali”. Ceteris paribus, quanto più espansive sono politiche monetarie e fiscali, tanto maggiore sarà lo squilibrio fondamentale, tanto più grande sarà il deficit con l’estero, e tanto più urgente e profonda la “necessaria” svalutazione.

 Obstfeld e Rogoff (“Perspectives on OECD Economic Integration; Implications for U.S. Current Account Adjustment”, 2000) elaborarono un modello formale per calcolare quanto il dollaro dovesse deprezzarsi perché gli USA ripianassero il loro deficit estero. Il principio del modello non è eretico: per azzerare un deficit con l’estero deve migliorare il saldo commerciale, il che richiede un minor consumo di beni internazionalmente commerciabili; ma questo implica la riduzione (nella stessa proporzione, se i consumi fossero perfettamente elastici rispetto ai prezzi) del prezzo relativo dei beni non internazionalmente commerciabili (il passaggio è spiegato in modello massimizzando una funzione di utilità, ma si può anche argomentare che costringere a un minor consumo di un bene ne fa salire il valore e con esso il prezzo, o ancora più semplicemente che il disincentivo al consumo di un bene passa da un suo maggior prezzo – in questo caso il riassetto deriva dalla necessità di destinare più beni commerciabili all’export invece che al consumo). Data una Banca Centrale che più o meno terrà l’indice dei prezzi costante, la composizione della produzione nazionale tra beni commerciabili e non commerciabili distribuirà il calo del prezzo relativo tra un rialzo del prezzo dei beni commerciabili e un ribasso di quello dei beni non commerciabili. Il rialzo dei primi si attua, in valuta nazionale, con una svalutazione in pari misura del tasso di cambio.

I dati che servono per il modello sono i tassi di interesse, la proporzione di beni commerciabili internazionalmente sul totale della produzione (Yt/Y), il rapporto debito su PIL (D/Y) e il Current Account rispetto al PIL (CA/Y). Proviamo a mettere qualche numero più o meno verosimile per alcuni Stati, come in tab.1 (Yt/Y è stimato come rapporto tra export e PIL, a parte il caso degli USA in cui Obstfeld e Rogoff dichiarano il 25%; il tasso minimo è quello di mercato a 3 mesi, il massimo è quello dei titoli di Stato a 10 anni). I Paesi considerati sono Italia (IT) Grecia (GR) Spagna (ES) Portogallo (P) Irlanda (EIRE) Cina (CHI) Francia (F) e Stati Uniti (USA). Ho presentato gli scenari “minimo” e “massimo” come situazioni di necessità minima e massima di svalutazione; lo scenario “atteso” è quello che io considero medio o più plausibile (ed esempio: finanziamento a breve del deficit piuttosto che con titoli a lungo).

tab.1: dati del modello    
    Tassi Yt/Y D/Y CA/Y
IT Minimo 0,66% 25,00% 115% -1,0%
  Massimo 3,94% 23,97% 110% -3,0%
  Atteso 0,66% 23,97% 115% -1,0%
GR Minimo 0,67% 25,00% 115% -6,0%
  Massimo 6,02% 18,82% 110% -10,0%
  Atteso 0,67% 18,82% 115% -6,0%
ES Minimo 0,67% 25,00% 60% -2,0%
  Massimo 3,73% 23,68% 50% -7,0%
  Atteso 0,67% 23,68% 55% -7,0%
P Minimo 0,67% 28,24% 75% -5,0%
  Massimo 4,50% 25,00% 80% -10,0%
  Atteso 0,67% 28,24% 80% -7,5%
EIRE Minimo 0,67% 90,32% 60% 16,0%
  Massimo 4,57% 25,00% 70% 5,0%
  Atteso 0,67% 57,66% 70% 10,5%
CHI Minimo 1,00% 25,00% 30% 7,0%
  Massimo 4,00% 25,00% 40% 4,0%
  Atteso 1,00% 25,00% 35% 5,5%
F Minimo 0,66% 25,00% 70% -1,0%
  Massimo 3,54% 22,90% 80% -3,0%
  Atteso 0,66% 22,90% 80% -2,0%
USA Minimo 0,15% 25,00% 70% -1,0%
  Massimo 3,73% 25,00% 80% -3,0%
  Atteso 0,15% 25,00% 75% -2,0%

 

Da questi dati il modello restituisce la sopravvalutazione della relativa moneta (colonna “stima”, dove i valori positivi indicano quindi la sopravvalutazione nonché la necessità di una “svalutazione competitiva”), come in tab.2 dove i dati sono anche “normalizzati” rispetto al dollaro USA (“stima vs USA”).

tab.2: risultante sopravvalutazione  
  Minimo Massimo Stima Stima vs USA
EIRE -78,8% -0,5% -24,15% -29,45%
CHI -24,8% -12,8% -18,8% -24,1%
IT 3,0% 10,6% 3% -2,3%
USA 2,3% 27,6% 5,3%
F 2,3% 10,0% 6,2% 0,9%
P 11,5% 28,5% 16,5% 11,2%
ES 5,3% 21,4% 19,8% 14,5%
GR 16,5% 49,5% 27,7% 17,4%

 

La grossolanità dei dati sicuramente sporca i risultati, ma questi ci dicono comunque il fatto scontato  che i Paesi in surplus con l’estero dovrebbero procedere non a svalutazioni ma a “rivalutazioni”: il risultato per la Cina non si discosta molto dai proclama americani di uno yuan sottovalutato di circa un terzo, mentre il caso dell’Irlanda varrà finché questa continuerà a risultare esportatore netto. Compensando le svalutazioni potenziali di dollaro ed euro si ottiene un netto di svalutazioni necessarie intorno al 10% per il Portogallo, attorno al 15% per la Spagna, e avviate al 20% per la Grecia, mentre per Italia e Francia tutto sommato il problema non sembra essere il tasso di cambio.

Di là dal valore delle misure assolute ricavate (dipendenti tra l’altro dall’ipotesi di perfetta elasticità del consumo ai prezzi, il cui abbandono incrementerebbe i risultati di un multiplo), ritengo sia da sottolineare che esistono delle differenze rilevanti tra i Paesi considerati: se ognuno avesse una propria valuta, dovrebbe svalutare in misure molto diverse o anche non svalutare per nulla. Soprattutto in questo secondo caso, che tocca Italia Francia e Irlanda, la svalutazione spacciata come “competitiva” appare veramente in tutta la sua inutilità in termini di posizione con l’estero, quindi una scelta di “lobby” alle spese del resto dell’economia.

La partecipazione alla moneta unica impedisce un aggiustamento valutario a seguito degli squilibri con l’estero dei Paesi partecipanti. Niente di nuovo: già all’alba dell’euro i sostenitori delle teorie delle Optimal Currency Areas avevano ammonito riguardo questi problemi e si erano quindi focalizzati sulla necessità (insoddisfatta) di elevata mobilità di capitale e lavoro all’interno dell’area euro. Adesso però vediamo che la distribuzione degli squilibri dei conti con l’estero, specchio dello squilibrio sul risparmio domestico, è alquanto disomogenea. Una qualsiasi “svalutazione” dell’euro è quindi una manovra assolutamente controversa tra i vari partecipanti e pertanto impraticabile, salvo convergenze di lobby, ed ingiustificata nei limiti in cui questi squilibri riguardano il commercio intra-europeo.

Ma tornando all’inizio dell’articolo si vede qualcos’altro: se lo squilibrio con l’estero è da interpretare come conseguenza di una scarsità di risparmio domestico, si hanno stati di gravità veramente diversi tra i Paesi dell’Unione, in cui non a caso spicca la Grecia, e le posizioni di Italia Francia e USA risultano sì squilibrate ma in qualche modo allineate. I Paesi più sulla graticola sembrano sempre e comunque i Paesi con i maggiori squilibri fondamentali attorno al risparmio, quelli che le Teorie Austriache appunto indicherebbero come i più deboli. I Paesi che hanno “goduto” di più della convergenza verso il basso dei tassi di interesse consentita dall’euro sono quelli che presentano i maggiori squilibri sul risparmio (in questi Paesi la riduzione del tasso di interesse di mercato rispetto al tasso di interesse naturale è stata più ampia, quindi maggiori i danni dell’inflazionismo). L’Italia appare però come qualcosa di “strano” (così risultava anche in precedenti analisi ad esempio su IHC) evidentemente la nostra elevata avversione al rischio ha fatto da “cuscino” impedendo alcuni “eccessi” sia prima che dopo.

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14 Responses

  1. Roberto

    Interessante.
    Per aumentare la competitività del proprio export, quindi la via non è la moneta debole.
    C’è la strada o della Cina oggi o del Giappone anni 70/80.
    1) Cina: sfruttamento ed inquinamento. Danno prodotti a costo più basso, ma creano squilibri che sono un costo per la società. Di fatto sono aiuti di stato.
    2) Giappone. Modificarono il metodo di produzione, argomento su cui c’è una ricca letteratura. (poi il crollo finianziario, ma è un ‘altra storia)

    Con tutto il rispetto delle analisi monetarie, di cui io mi sento ignorante ed interessato, la vera crisi è:
    1) in cosa si produce (ad esempio è impensabile che il numero delle auto circolanti in Europa possa aumentare, ma potrebbe diventare obsoleto con auto sicurissime che consumano la metà)
    2) come si produce. Mi pare impressionante il livello di scarsa produttività delle aziende.
    Questo però aprirebbe altri discorsi che mi piacerebbe questo interessante blog affrontasse.

  2. Grazie per gli spunti. Non avevo mai sentito dire che l’inquinamento fosse un aiuto di Stato, ma in effetti, trattandosi di una socializzazione di un costo, l’effetto è lo stesso che sia voluto o meno.

    Sulla parte finale, io credo di poter dire che il problema di “cosa si produce” è centrale, perché sicuramente non si può pensare di produrre quel che si è prodotto dal 60 ad oggi quando il resto del mondo ha imparato a farlo e può, qualsiasi sia la ragione, farlo a costi più bassi. Il mercato delle auto è una di queste produzioni. La “pretesa” di alcuni, imprenditori e dipendenti, di lavorare sempre nello stesso settore in futuro solo perché questo hanno fatto nei passati venti anni o perché “questo vogliono” è fuori luogo, e assecondare questa pretesa proteggendo i mercati ha portato solo all’improvviso sbriciolamento di alcuni distretti una volta che una minima breccia si è aperta nelle protezioni.
    Il fatto che il mercato italiano ad esempio sia stato a lungo protetto ha comportato anche la non necessità di curare la produttività, privilegiando anche con sostegno politico-pubblico la conservazione dei lavori esistenti. Quindi i due problemi che hai indicato sono legati tra loro. Tanto per dirtelo, in Canada è stata condotta una critica alla passata debolezza del dollaro canadese proprio perché non ha “costretto” l’economia ad aggiornarsi e efficientarsi.

    Quel che volevo dire nel pezzo però è altro, e cioè che parlare di svalutare l’euro per stimolare la crescita è una balla di una lobby e comunque le economie sono troppo diverse per accordarsi su un grado di svalutazione, e che per l’italia non c’è un problema di cambio, ma come hai detto tu un problema di sistema produttivo: cosa e come produrre.

  3. @Leonardo, IHC
    Durante gli ultimi decenni dell’Ottocento le autorità americane, per favorire lo sviluppo ferroviario, salvavano le compagnie ferroviarie dagli incendi che le scintille dei motori a vapore causavano sui campi arati circostanti. Questo è decisamente un aiuto di stato. 😀

  4. Francesco Zanardi

    @Leonardo, IHC
    E’ vero che non si può pensare di produrre qui quello che si produceva in passato, ma il punto non è questo: si sta delocalizzando anche la produzione iper-tecnologica, lasciando qui solo la ricerca e la progettazione (destinate nel breve futuro, per forza di cosa, a spostarsi vicino agli stabilimenti di produzione).
    Il famoso I-phone viene prodotto in Cina, gli accumulatori di ultima generazione? Idem, i pannelli fotovoltaici migliori? Anche.
    Parlando di Pomigliano d’Arco qualche testone ha detto: “A Pomigliano mica si produce l’auto elettrica, ma un’auto dalla tecnologia superata”.
    Ebbene, io vorrei chiedere a questo genio che differenza ci sia tra l’assemblare un’auto elettrica, una a scoppio, ed una a pedali quando il lavoro di ricerca, sviluppo e progettazione sono già stati fatti altrove.
    Senza contare che Ferrari e Lamborghini, secondo questo ragionamento, dovrebbero produrre auto tecnologicamente superate.
    Io invito a leggere l’articolo su Newsweek, dove l’ex amministratore di Intel, spiega perché, secondo lui, la produzione di microprocessori dovrebbe essere riportata negli USA (anche se non sono del tutto d’accordo con lui).
    E’ vero che le migliori aziende sono quelle che hanno delocalizzato, ed è vero anche che questo ha portato benefici immensi anche ai loro stabilimenti rimasti in loco, ma quanto deserto queste aziende hanno creato intorno a loro? Se per ogni azienda che delocalizza e si ingrandisce altre due chiudono ed altre tre tagliano il personale il gioco vale la candela?
    Manca, purtroppo, un progetto politico per il futuro, la politica economica della UE guarda avanti massimo 3 mesi. La Banca Centrale Europea fa manovre dalle quali si evince che non sa cosa succederà tra 6 mesi.
    Senza un progetto politico per il futuro non si va da nessuna parte.

  5. @Francesco Zanardi
    L’economia non va male perché si delocalizza, si delocalizza perché l’economia va male.
    Il punto su cui concentrarsi è perché l’economia va male. E i motivi sono sempre quelli:
    1) Stato spendaccione e sprecone
    2) Tasse alte
    3) Leggi dannose o inutili

    Più Tasse = Meno Occupati e Meno Ricchezza Prodotta

    Qui, però, tutti vogliono lo stato sociale e vivere alle spalle degli altri. Non è strano che poi vada tutto male.

  6. @Francesco Zanardi
    potresti aver ragione, ma io non sono d’accordo sul principio, perché noi non siamo in grado che di pensare alle produzioni di cui abbiamo conoscenza, mentre dovremmo permettere che nascano nuove idee, nuove imprenditorialità.
    il tuo ragionamento, con l’aggancio all’attualità, parla di produrre comunque auto; io ad esempio potrei dirti di buttare in cina tutte le auto, chi se ne frega, e trasformare l’italia in un enorme parco giochi per vacanzieri e intellettuali, sfruttare l’ambiente per il turismo (senza però devastare l’ambiente, cosa che in italia…) e per le curiosità culturali. il patrimonio culturale italiano è superiore a quello di qualsiasi continente e ci mettiamo a ragionare di carretti a combustibile fossile… Sarà difficile attuare questa conversione, ma l’alternativa è di togliere qualsiasi attività dall’italia (e dall’europa); la conversione è a lungo termine, persistere sull’auto è a breve termine, e come hai detto le autorità politiche non vedono oltre il loro mandato (o meno), ergo non possiamo affidarci alle autorità politiche per avere un futuro. men che meno possiamo affidarci alle pretese di un “diritto a un certo lavoro” per impostare un paese.

  7. Alberto

    Ottimo articolo…
    La mia opinione da studente di Economia è la seguente:
    alla luce dei “risultati” del modello unico europeo, una possibile svolta di “modernizzazione” sia quella di attuare un tasso di cambio differente per ogni paese membro della Ue in virtù delle peculiarità della sua economia ( più Esportazioni cambio più favorevole), mantenendo comunque il tasso di cambio e i valori susseguenti in una “gabbia”, con un minimo ed un massimo oltre il quale non si può sforare, fissato dalla Bce, e ridare agli stati la possibilità di poter attuare le politiche monetarie che meglio massimizzano l’utilità nel breve e medio periodo, lasciando quindi alla Banca Centrale la gestione del lungo periodo.Tutto questo riferito al commercio con i paesi esterni all’euro area.
    Credo che possa essere interessante la possibilità di “accordare” un tasso di cambio con uno dei paesi esteri con cui un paese dell’unione ha più “achefare”, in modo tale da favorire il commercio tra questa partnership.

  8. Francesco Zanardi

    @Leonardo, IHC
    Sono d’accordo con te e anche, in parte, con Mirco Romanato.
    Mi spiego, spero, meglio di prima: ci vuole una conversione che per forza di cose è a lungo termine, ma noi siamo sopraffatti dagli eventi a breve, brevissimo termine. Purtroppo la nostra classe dirigente non mette palliativi a breve, e nemmeno fa progetti a lungo. Ci vorrebbe un air-bag che assorba l’urto ed un progetto per la ripartenza: non ci sono.

  9. @Francesco Zanardi
    sì non ci sono airbag. la mia posizione purtroppo è questa: le crisi vanno fatte deflagrare ben forte e velocemente. la crisi italiana doveva venir fatta scoppiare probabilmente negli anni 90, ora il botto non potrebbe che essere più forte, e chiaramente spaventa anche me; non di meno mettere pezze e tirare avanti solo sposta il problema caricandolo ulteriormente finché non sarà più rimandabile (quale sia il punto di rottura definitivo, però, io non so dirlo).

  10. @Alberto
    se ho capito (SE) tu riporresti uno SME. purtroppo quel sistema è fallito e per buone ragioni: un tasso di cambio fisso (che non è l’euro, l’euro è proprio una moneta unica) espone i paesi ad attacchi speculativi praticamente inevitabili con cui ci si rimangia tutti i “guadagni” (fraudolenti per me) del passato.
    Inoltre non si può considerare del tutto “credibile” uno stato che può, se vuole, espandere l’offerta di moneta, cioè inflazionare, a piacere potendo ridurre il valore reale del debito pubblico; chiaramente questo problema è più significativo per i grandi debitori di cui massimo esempio l’Italia, perché hanno più “stimoli” di altri a creare inflazione. i grandi debitori hanno voluto l’euro proprio perché si “delegasse” la politica monetaria a un ente in qualche modo più “duro” perché più prossimo a una storia fatta di intransigenza monetaria e anche fiscale. La BCE è a francoforte, accando alla Bundesbank, non per caso. In assenza di questo “correttivo”, paesi come l’italia avrebbero già fatto la fine dell’argentina un paio di volte.

    io temo che i “risultati” dell’euro siano dovuti ad un effettivo moral hazard fiscale; nessuno ha mai pensato che gli altri paesi l’avrebbero lasciato fallire.

  11. diana

    @Francesco Zanardi

    purtroppo, anche la R&S nei settori TLC e microprocessori è già stata praticamente spostata in Asia (vedi NSN di Cinisello Balsamo)… qui in Europa siamo rimasti solo noi utOnti di PC e cellulari 🙂

  12. Alberto

    @Leonardo, IHC
    ciao Leonardo..la mia idea effettivamente suona simil-Sme.. ma credo un grazie ad un grado di copertura da parte del’ Euroarea e potendo contare su dei margini in cui operare,ben definiti oltre i quali comunque non si potrebbe andare al fine di poter agevolare i paesi ad esportare potendo questi quindi applicare una sorta di Discriminazione perfetta dei cambi ( preso liberamente in prestito e ancora più liberamente parafrasato dalla microeconomia), agevolando quindi i paesi extra Euro con cui si hanno più rapporti commerciali.
    Ovviamente il mio ragionamento è basato partendo da uno stato di equilibrio senza deficit da parte degli stati, potendo ammettere un leggero margine di deficit, il che ovviamente rimane come una “splendida e raggiante utopia” visto lo stato attuale delle cose.
    Tornando alla realtà credo fortemente che questo “abbattimento” in termini di cambio da parte della moneta Europea, abbia qualcosa di straordinario (credo che stiamo vivendo una stagione d’oro per quel che riguarda la teoria economica, e sinceramente da aspirante economista mi rendo conto di trovarmi in mezzo a qualcosa di epocale).
    Ti ringrazio per la possibilità di confronto.

  13. @Alberto
    Il confronto è utile quando è civile a entrambi; poi restiamo ognuno della propria idea e va bene anche così per me.
    Non so a che grado di studio universitario tu sia arrivato, quindi non so se hai già trattato di politica monetaria. C’è una grossa letteratura attorno a questo tema; al tempo della tesi lavorai molto su L E O Svensson, che ho trovato molto utile perché difendendo l’inflation targeting riassumeva moltissima letteratura sui vari regimi monetari e di cambio. A distanza di tempo e con strumenti intellettuali che allora non avevo, ho cambiato giudizio su alcuni passaggi e quindi sulle conclusioni, però quella lettura aiuta a evidenziare le criticità.

    L’idea di un nuovo SME con paesi senza debito può avere un qualche senso… per un po’, anche perché permette di calibrare l’economia con spesa pubblica (visto che il debito è basso). Viene comunque un momento in cui il cambio “ombra” è talmente fuori da quello praticato per cui un attacco speculativo diventa “obbligatorio”. Senza debito pubblico il punto di rottura si allontana sicuramente fino a diventare magari politicamente insignificante, comunque non è una soluzione.
    Chiaramente, lo sai, l’Europa ora ha un problema fiscale, per cui si parla di mondi ideali.

    Con riferimento alla microeconomia però ti farei notare una cosa: il tasso di cambio è un prezzo come qualsiasi altro. Un cambio fisso o amministrato è un prezzo fisso o amministrato, non di mercato, quindi non riflette scarsità e valore del bene (in questo caso la valuta). A livello micro se imponi un prezzo esogenamente alteri il vincolo di bilancio degli operatori quindi imponi un paniere di acquisto che è ottimale secondo un criterio politico ma non è ottimale rispetto ai fondamentali. E la non ottimalità comporta sub-ottimalità delle dinamiche di crescita. Aggeggiare sul tasso di cambio (e con questo non dico che non lo stiano già facendo, perché tramite i currency swap hanno già fatto di tutto) amplia questa distorsione.

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