26
Giu
2010

I dissensi nel G20 sono oggettivi

Al G8 concluso da qualche ora, e al G20 in corso fino a domani  in Canada, le tre macroaree mondiali sono arrivate divise. Il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato venerdì un ultimo appello affinché le divisioni fossero superate, lanciando l’allarme emotivo su ben 30 milioni di posti di lavoro che sarebbero a rischio. Ma le divisioni non dipendono da scarsa buona volontà. Stati Uniti, Europa e Cina alla testa dei Paesi emergenti, a 22 mesi di distanza dal fallimento di Lehman Brothers e a 9 mesi dai primi segni di ripresa, hanno oggettivamente tra loro interessi diversi. Come del resto si comprende ricordando che i Paesi emergenti sono il vero motore della crescita mondiale – quest’anno sarà superiore al 4% – poiché crescono del 7% nel 2010 (la Cina intorno al 10%, e nel 2009 è diventata la potenza leader con il 22% del prodotto industriale mondiale rispetto agli Usa che dal 25% del 2001 sono calati di 10 punti). Senza scendere nel dettaglio, e al prezzo di inevitabili approssimazioni, cerchiamo di capire i punti di maggiore divergenza, per leggeremeglio  il comunicato del G20 che sarà diramat doomani pomeriggio.

La moneta

Gli Stati Uniti e l’Europa non hanno un eguale interesse all’apprezzamento dello yuan cinese. Per gli Usa, che continuano ad avere un pesantissimo deficit commerciale nell’ordine di 250 miliardi di dollari al mese, è vitale il deprezzamento del dollaro – sin qui tenuto su dall’aggancio fisso alla moneta cinese, a cui si è aggiunta negli ultimi mesi la crisi dell’eurodebito. Serve a guadagnare competitività per le merci USA– come avveniva da noi quando svalutavamo la lira – e a diminuire il valore reale dell’ingente massa di debiti delle famiglie e delle banche americane. L’Europa nel 2009 ha pressoché annullato il deficit commerciale verso la Cina. Per noi europei, e soprattutto per noi italiani che abbiamo un forte deficit energetico – tra i 4 e i 5 punti di Piul anno per anno a seconda dei prezzi petroliferi – il dollaro che scende liberamente significa soprattutto il barile che simmetricamente sale, con un’inflazione che aggraverebbe a casa nostra l’iniquità dei costi economici e sociali della crisi.

La “nuova” finanza

Obama è giunto al G20 sventolando l’accordo di venerdì tra Amministrazione, Camera e Senato americani sulla complessa riforma del sistema bancario e finanziario. Viene dagli errori della regolazione finanziaria americana, la crisi che iniziò a manifestarsi sui mercati esattamente tre anni fa. Eppure, dopo 22 mesi di impegno a concordare la “nuova” industria finanziaria con l’Europa e con l’Asia, gli Stati Uniti hanno di nuovo fatto tutto da soli. Pensando agli interessi del proprio sistema bancario, e dettando al resto del mondo il nuovo paradigma. Di qui per esempio la misura che consentirà alle grandi banche di continuare a utilizzare depositi – entro il 3% del capitale di vigilanza – in fondi speculativi. Dai nuovi poteri discrezionali e preventivi ai regolatori per evitare che le banche divengano “troppo grosse per fallire”, alla quotazione sui listini dei prodotti derivati alla responsabilità delle banche verso i risparmiatori, la riforma americana sottrae unilateralmente molti punti essenziali all’agenda multilaterale di una riforma condivisa, affidata al Financial Stability Board guidato da Mario Draghi.

Tassare le banche

E’ più che comprensibile che, di fronte a questo, Europa e Asia siano contrariate. Un punto di particolare frizione riguarda la tassazione delle banche. Gli Stati Uniti l’hanno adottata e riservata a quelle con 50 miliardi e più di asset. Ma serve a finanziare i costi della riforma più che a evitare nuove crisi. Appare anzi elevata la possibilità che rafforzi nelle grandi banche la certezza che verrebbero salvate comunque, inducendo dunque invece di evitare nuovi azzardi morali. L’Europa è divisa anche al proprio interno. Germania e Francia vogliono una tassa sulle banche innanzitutto per guadagnare popolarità di fronte ai rispettivi elettorati, alla luce del molto denaro pubblico speso in salvataggi bancari senza che al momento vi sia prospettiva di un guadagno statale, con la ripresa dei corsi, come in USA. L’Italia sta invece con l’intero blocco dei Paesi emergenti: chi non ha dovuto salvare banche coi denari pubblici è molto più interessato a rafforzare gradualmente il capitale degli istituti di credito, non a tassarli mettendosi a rischio di ulteriori strette degli impieghi e di traslazione a famiglie e imprese del costo aggiuntivo

Rigore o deficit

Obama è fuori di sé per la linea di rigore assunta dall’Europa a seguito della crisi greca e degli eurodebiti. Più volte ha telefonato al premier tedesco Merkel, per indurla a cambiare linea. Ma non ha ottenuto nulla. A Obama non piacciono gli energici piani pluriennali di contenimento del deficit varati da Berlino, Londra e Roma, e dai Paesi nel mirino dei mercati come Grecia e Spagna. Il ritorno al rigore dell’Europa dà argomenti negli USA all’opposizione: critica Obama per l’eccesso di deficit pubblico a due cifre, che ha creato sì molti posti pubblici ma senza per questo incidere sulla crisi dell’immmobiliare, che resta forte, né sin qui rilanciare l’occupazione privata. L’Europa ha una crescita attesa di poco superiore a un punto rispetto a quella americana, tre volte superiore ma appena corretta per altro al ribasso. Tuttavia i rischi che gravano sull’euro restano seri, testimoniati dalla forbice che resta molto elevata dei rendimenti dei diversi debiti pubblici anche dopo l’euroaccordo dell’8 maggio, e dalle recenti nuove impennate di sfiducia dell’interbancario, con le banche dell’euroarea che lasciano in deposito presso la BCE sino a 400 miliardi di euro al giorno. Per alcuni, gli USA spingono sul deficit perché hanno studiato Keynes meglio degli europei. E’ una frottola. Possono farlo solo perché il dollaro resta il tallone monetario del mondo. Nel nostro caso, il rigore è obbligato due volte. Perché il deflusso dei capitali e la sfiducia dei mercati ci colpiscono più di quanto facciano col dollaro. E perché abbiamo uno Stato che, già prima della crisi, gravava sull’economia molto più che in America.

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