27
Apr
2015

Su Whirlpool in ITA qualcuno avvisò che numeri non tornavano..

Un numero per rappresentare la crisi crisi italiana del “bianco”, il settore degli elettrodomestici casalinghi fiore all’occhiello dell’Italia del boom: nell’ultimo decennio il numero di pezzi venduto nel nostro Paese è sceso da oltre 30 a poco più di 11 milioni di pezzi l’anno. Continuiamo a esser forti nei forni e piani di cottura ad elevata qualità dei materiali. Ma i decenni gloriosi del gruppo Ignis di Giovanni Borghi, di Zanussi, Indesit e Merloni sono alle spalle. Resiste solo la Candy che nel 1946 fu fondata da Peppino Fumagalli appena scomparso, che creò la prima lavabiancheria elettrica italiana. Per il resto, tutti i gruppi hanno dovuto arrendersi al consolidamento del settore in atto su scala globale. E il fulmine a ciel sereno di Whirlpool, dopo aver perfezionato l’acquisizione di Merloni-Indesit solo l’anno scorso, cioè i 1300 esuberi di cui 800 nel sito campano di Carinaro, è l’ultimo atto di questa storia. Una storia per metà fatta delle tradizionali manchevolezze di pur anzitempo prestigiose famiglie imprenditoriali. Per l’altra metà, di una forte miopia italiana nel valutare OGGETTIVAMENTE gli effetti quando si perde potere di mercato.

Fino alla fine degli anni Ottanta, i re del “bianco italiano” ressero meglio di altri concorrenti europei all’evoluzione e alle difficoltà dei mercati. L’Italia garantiva decine di milioni di pezzi venduti, perché le famiglie erano alla prima ondata di elettrodomestici di massa. Il costo del lavoro italiano era più contenuto rispetto ai concorrenti stranieri, le reti distributive erano efficienti e praticavano politiche commerciali aggressive nell’export esportazione. L’Ariston dei Merloni, la Candy dei Fumagalli e l’Ocean dei Nocivelli erano protagonisti europei, quando la stagflazione e il necessario balzo in avanti di cospicui investimenti in nuove tecnologie da incorporare negli elettrodomestici iniziò a modificare il settore. Poco alla volta, le prime bandiere bianche: Ignis passò all’olandese Philips, la Zanussi alla svedese Electrolux. La Merloni, al contrario, cresceva: all’inizio degli anni ’90 era tra i primi cinque produttori continentali. Dieci anni fa era il secondo produttore europeo, con 16 stabilimenti tra Italia, Polonia, Uk, Russia e Turchia, e 24 sedi commerciali.

Il 2008 ha cambiato tutto. Merloni cerò di decentrare il più possibile in Polonia, con minori costi di lavoro, energetici e fiscali. Ma i capitali necessari per crescere nell’innovazione (oggi gli elettrodomestici sono componenti della domotica casalinga, diventano programmabili a distanza attraverso mobile device e smartphone..), e per fusioni e acquisizioni necessarie a economie di scala planetarie e non solo europee, visto che oggi gli elettrodomestici sono comprati a centinaia di milioni di pezzi in Asia e non più nei vecchi paesi avanzati, quei capitali alla famiglia Merloni mancavano. E’ nata così l’acquisizione per 768 milioni di euro della Merloni-Indesit da parte degli americani di Whirlpool, impegnati in una battaglia globale rispetto a Electrolux. Solo pochi mesi erano passati dall’acquisizione italiana che gli svedesi di Electrolux hanno risposto con gli interessi, rilevando per 3,3 miliardi di dollari gli elettrodomestici di General Electric: in questo modo gli svedesi raggiungono un fatturato superiore ai 22,5 miliardi di Whirlpool, e la superano nello stesso mercato Usa, con un quarto delle vendite. Per avere una proporzione che spiega la resa italiana, Indesit-Merloni non raggiungeva i 3 miliardi di fatturato: impossibile pensare di avere un ruolo mondiale.

Ma in  Italia nessuno è sembrato rendersi conto della nuova realtà disegnata dalla risposta di Electrolux a Whirlpool. Primo grave errore: perché è esattamente la botta portata su scala globale da Electrolux a Whirlpool, successiva all’acquisizione americana di Merloni-Indesit, a spiegare l’annuncio a sorpresa degli esuberi in Italia. Solo l’anno scorso, infatti, gli americani si erano impegnati a non toccare la base produttiva e occupazionale italiana, fino al 2018. Ma questo valeva prima di essere scavalcati dagli svedesi. Ora il discorso è cambiato, e occorre rifare i conti. E qui veniamo all’illusione della politica, dei sindacati e delle classi dirigenti italiane, quando non si considerano bene gli effetti della perdita di potere di mercato, e del conseguente passaggio proprietario di gruppi italiani in mani straniere. Che non è affatto un male in sé, visto che è meglio difendere base produttiva prescindendo dalle bandierine nazionali proprietarie. A patto di saper fare i conti, sull’economicità e sostenibilità della base produttiva che si intende difendere.

L’anno scorso si disse ottimisticamente che Whirlpool e Merloni erano complementari. Grazie allo shopping italiano, gli americani entravano nel mercato russo dove erano forti gli italiani con un miliardo di ricavi, e rafforzavano inoltre la presenza nel Regno Unito, divenendovi leader. Le basi produttive europee erano equilibrate: Whirlpool con tre stabilimenti tra Francia, Polonia e Slovacchia, Indesit con quattro tra Russia, Polonia, Inghilterra e Turchia. Ma sull’Italia fin dall’inizio un osservatore con un minimo di discernimento avrebbe dovuto capire che le cose non potyevano funzionare come si affermava ottimisticamente nell’intesa allora sottoscritta. Sia Whirlpool sia Indesit avevano da anni in corso chiusure nel nostro Paese. Whirlpool oltre al centro di ricerca e stile ha tre stabilimenti a Varese, Siena e Napoli, quelli di Indesit sono a Fabriano e Caserta, più il centro ricerche marchigiano, e il polo logistico e di ricerca piemontese di None. Con tutto il rispetto, chi qui scrive avanzò qualche dubbio sin dall’inizio, in una trasmissione a radio24, che davvero si potesse credere all’impegno americano di non toccare nulla in Italia sino al 2019.

Ed eccoci al redde rationem. A questo punto il governo – che è di fatto turlupinato, visto che gli impegni furono assunti a un tavolo pubblico – deve affrontare con energia la Whirlpool per capire come i 500 milioni di investimenti promessi si coniughino con gli esuberi e le chiusure annunciate. La vertenza sarà dura, perché Whirlpool deve oggettivamente recuperare margini, rispetto a quando perfezionò l’accordo italiano. Ma bisogna provarci a tutti i costi. Si afferma ora giustamente che il Sud non può subire un altro colpo di queste proporzioni. Ma c’è una lezione che biene prima, e che non riguarda solo la politica: chi non ha i capitali per crescere, è difficile che possa avere l’ultima parola.

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2 Responses

  1. Aristide

    Giova ricordare che 940 degli esuberi dichiarati da Whirlpool erano compresi nel “Piano Italia 2013” di Indesit e quindi “ereditati” dalla precedente gestione.

    Per il resto, ottima analisi.

  2. MG

    ..GLi investimenti di 500M si coniugano eccome con gli esuberi…stanno solo facendo quello che i loro predecessori non hanno saputo, capito o voluto fare quando era il momento anche perche vittime del passaggio generazionale e quindi anche di loro stessi, cioè investire in teconologia innovazione e ricerca avanzatissima, cosa che non genera certo posti di lavoro in proporzione lineare agli investimenti…o meglio li genera globalmente e nel medio periodo..ma non certo in Italia. Con i costi di produzione che ha questo paese, chi crede ancora nelle’quazione piu investimenti piu posti sono solo i politici per “dovere elettorale” e i polli che li votano. Certo che la smania dei politici di questo paese che invece di fare politiche industriali decennali, continuano a fare show elettorali recandosi al capezzale del “moribondo” di turono per creargli attorno un micro paradiso fiscale fatto su misura ma del tutto anacronistico e inutile, fa davvero tanta tristezza…simile ma molto piu simpatica la “calata” in italia delle escort per l’apertura dell’expo.

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