2
Gen
2018

#republic, di Cass R. Sunstein—Una lettura di Mario Dal Co

“Come possono i social media, l’esplosione delle opzioni di comunicazione, il machine learning, e l’intelligenza artificiale alterare la capacità dei cittadini di governare se stessi?”. È questa la domanda che si pone Cass R. Sunstein nel suo “#republic”.

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

Domande urgenti

#republic.La democrazia nell’epoca dei social media di Cass R. Sunstein (Il Mulino 2017, euro 22) illumina di una luce vivida il sentiero in cui si muove la democrazia liberale, quella in cui si sono sviluppati i social media, diventando il canale di comunicazione popolare privilegiato.

#republic, si apre con una profezia del ‘95, “The Daily Me” avanzata da Nicholas Negroponte, secondo cui era pronta ad emergere una nuova opportunità offerta dalla rete a ciascuno di noi: disegnare la propria “orchestra” della comunicazione, in cui ogni voce ed ogni strumento verrebbe scelto da ciascuno:  “Negli anni ‘90  l’idea del Daily Me poteva sembrare assurda … In realtà ancor oggi non c’è Daily Me, ma ci stiamo arrivando” dice Sunstein, “quando la gente usa  Facebook per vedere esattamente ciò che vuole vedere, la sua comprensione del mondo può essere influenzata in misura poderosa”. Non hai neppure bisogno di crearti Daily Me, altri lo stanno facendo per te, con algoritmi che ti conoscono sempre meglio e ti propongono  ciò che “persone come te” pensano e dicono, non importa se inserendo notizie grossolanamente false o sostenendo posizioni assurde, facinorose e in mala fede. Ciascuno è soddisfatto se gli algoritmi propongono temi e prodotti che lo interessano, che gli sono vicini, che lo rassicurano nelle sue convinzioni, che non mettono in discussione i suoi convincimenti, piuttosto che temi e prodotti che, per il fatto di stare al di fuori della sua orbita di interessi o meglio del suo “profilo”, non lo interessano. Ma questa architettura del controllo dei contenuti da parte degli algoritmi ha -secondo Sunstein- importanti e gravi conseguenze sul funzionamento di una democrazia.

#republic pone, allora, questa domanda centrale “Come possono i social media, l’esplosione delle opzioni di comunicazione, il machine learning, e l’intelligenza artificiale alterare la capacità dei cittadini di governare se stessi?”. La ricerca della risposta a questa domanda è una rilettura di contributi delle scienze sociali e della teoria politica, che prende le mosse dai fondamenti della democrazia americana, dal dibattito tra federalisti e antifederalisti, da quella “radicalità” che si esprime nella Costituzione con il trasferire il potere dalla monarchia, comunque definita, a “We the People” . Ma, ecco il punto, i costituzionalisti  erano avversi alle passioni e ai pregiudizi popolari,  e non volevano che questi si traducessero immediatamente in leggi. Essi caldeggiavano una forma di filtro, che non fosse gestita dal popolo stesso, ma da istituzioni disegnate per promuovere il bene comune.

Sunstein segue Madison (Federalist n. 10): “per affinare ed allargare le visioni del pubblico, filtrandole attraverso un corpo di cittadini scelti, la cui saggezza possa meglio discernere il vero interesse del loro paese e il cui patriottismo e amore per la giustizia sia meno prono a sacrificarsi in nome di considerazioni momentanee o parziali: in questo assetto normativo può ben accadere che la pubblica voce pronunciata dai rappresentanti del popolo, sia più vicina al bene pubblico che se fosse pronunciata dal popolo stesso, chiamato a raccolta per questo scopo” . Questa visione è ancor oggi la più forte obiezione a quanti celebrano i social media come strumenti democratici per inoculare in modo diretto le convinzioni del popolo  nell’arena politica. E’ l’antidoto al trionfo delle “echochamber” della rete che alimentano la polarizzazione dell’attuale confronto politico.

La democrazia deliberativa.

Ma la rilettura di questa impostazione rigorosamente “rappresentativista” della democrazia liberale, si ispira anche al saggio di Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities (Random House 1961), quando afferma “La tolleranza, lo spazio per grandi differenze tra i vicini -differenze che spesso sono assai più profonde delle differenze di colore- che sono possibili e normali nell’intenso vivere urbano…sono possibili e normali solo quando le strade delle grandi città hanno incorporato infrastrutture che consentono ad estranei di convivere in pace…Lenti, non intenzionali e casuali, come possono apparire, i contatti di marciapiede rappresentano il piccolo cambiamento che alimenta la ricchezza della vita pubblica della città”.  Questa intuizione urbanistica, che gli spazi pubblici costituiscano un elemento essenziale della democrazia perché capaci di provocare contatti inattesi e la possibilità di scambi aperti, completa la visione dei padri costituenti, che intendeva garantire l’accesso pubblico alle strade e ai parchi, per la libera discussione dei cittadini, quella che oggi chiameremmo la prima forma di forum pubblico.

A mio modo di vedere, si manifesta qui la tensione tra le due forme di libertà, che la nostra lingua non riconosce, e che in inglese sono liberties e freedom. Le prime sono le libertà degli individui mentre freedom è la libertà della collettività, che deriva dal suo funzionamento istituzionale, ossia  da un equilibrato check and balance tra i poteri dello Stato e da un filtro moderatore degli umori e dei sentimenti popolari. E’ questa la libertà dalla servitù di ogni esercizio del potere che contrasti sia con le liberties degli individui, sia con la freedom della Repubblica.

Se per Montesquieu una repubblica sopravvive solo in una dimensione ristretta e se è costituita da persone con idee omogenee, la  grande repubblica  americana dei Federalisti cresce nella differenza delle opinioni: “lo stridere delle posizioni nel dipartimento legislativo del governo, anche se occasionalmente può ostacolare azioni salutari, spesso promuove decisioni e verifiche e serve a contrastare gli eccessi della maggioranza” (Alexander Hamilton, The Federalist n. 70). Secondo Sunstein è questo il più originale contributo che essi hanno dato alla teoria politica. Coerente con questa visione fu il rigetto di quello che oggi in Italia chiamiamo “vincolo di mandato” ossia della possibilità che gli elettori vincolino i rappresentanti su come votare: “Sono destinate ad ingannare il popolo le parole a sostegno dell’idea che esso abbia il  diritto di controllare i dibattiti nella legislatura. Ciò non può essere considerato giusto, poiché distruggerebbe lo scopo degli incontri tra i deputati. Io penso che quando un rappresentante è stato scelto dal popolo, sia suo preciso dovere incontrare gli altri colleghi provenienti da diverse parti dell’Unione, e consultarsi, e accordarsi con loro sulle leggi che siano a beneficio generale dell’intera comunità. Se i rappresentanti dovessero essere guidati da istruzioni, non vi sarebbe alcun senso nel deliberare” (Senatore Roger Sherman, citato in J. Gales, Annals of the Congress, 1834). 

Pessimismo sull’ossessione del tradimento e sul trionfo dell’ideologia della democrazia diretta

Mi sia consentita una riflessione un po’ amara sulle vicende italiche, stimolata dal saggio di Sunstein. Il richiamo alla visione costituzionale (americana) delle responsabilità diverse che hanno rappresentati e rappresentanti, che devono operare in un dialogo costante e in confronto aperto, ci aiuta a capire che è l’ideologia della democrazia diretta ciò che alimenta l’ossessione del tradimento dei rappresentanti. Non esiste rappresentante, per onesto e trasparente che sia, capace di resistere alla demolizione che l’ideologia della democrazia diretta produce. Soprattutto quando questa ideologia si alimenta in echochamber costruite di proposito da un movimento politico, anzi che costituiscono il suo modo di essere. Ed è per questo stesso motivo che la sinistra (per non parlare dei partiti comunisti), da sempre sensibile alle sirene della democrazia diretta, è ancor oggi ossessionata dal tradimento e deve necessariamente spaccarsi ciclicamente per emendare i “peccati” dei leader traditori nell’acqua lustrale di una rinascita, nell’assunzione salvifica di un nuovo nome con il battesimo di una nuova creatura politica senza macchia. La nostra fragile democrazia potrebbe non resistere all’urto dell’ideologia della democrazia diretta al potere, come ci insegnano le analisi pessimistiche di Angelo Panebianco sui rischi del populismo montante sull’onda lunga dell’abbandono del sistema maggioritario (Il sistema proporzionale: legge elettorale dannosa, Il Corriere della Sera, 5 giugno 2017); o come sostiene Ernesto Galli della Loggia, nel presentare su Avvenire (3 giugno 2017)  il suo recente libro Il tramonto di una nazione (Marsilio 2017): “Il populismo, con la sua esaltazione di improbabili pratiche di democrazia diretta, non ha nulla da proporre al di fuori di questo disprezzo per la classe politica, dietro il quale si nasconde la volontà di liquidare il sistema di rappresentanza”. Il saggio di Sunstein suscita ulteriori quesiti per coloro che vedono con preoccupazione partiti e organizzazioni, ed in particolare il Movimento 5 Stelle, costituirsi intorno alle echochamber e svilupparsi con le cybercascade, che alimentano la polarizzazione politica e la chiusura verso ogni forma di democrazia deliberativa.

Social network, echochamber, cybercascade

Da un lato i social network offrono opportunità impensabili per gruppi minoritari di aggregarsi ed avere voce: è il caso delle donne, anche nei parlamenti, dove tendono ad essere emarginate dai parlamentari dotati di maggior potere. Dall’altro lato i social network favoriscono una radicalizzazione delle posizioni che deriva dalle loro intrinseche caratteristiche, poichè danno voce a quelle posizioni, ma soprattutto perché danno una forma alla distribuzione della voce lungo i rami della rete, secondo gli algoritmi della profilazione degli affini. E’ così che si creano le “ecochamber”. La loro esistenza è stata individuata già nell’analisi della navigazione generale sul web nel 2009: le notizie vengono ricercate nei siti che più sono affini alla propria visione del mondo, ma questa prima avvisaglia diviene una  connotazione dominante nel mondo dei social network che si dilata dopo il 2010. Nell’internet pre-social network il grado di isolamento dei conservatori (ossia la tendenza a cercare conferma delle proprie posizioni frequentando sisti affini) era inferiore al 10%, ovvero tra i conservatori solo un 10% in più della media cercava conferma delle proprie idee. Ma questo grado di isolamento è salito, qualche anno dopo, con Twitter al 40%, portandoci  nella dimensione della radicalizzazione tipica dei social network. Si retweetta solo ciò su cui si è d’accordo o per rafforzare il proprio disaccordo: la polarizzazione che ne consegue produce, per questioni relative a persone molto esposte o per fobie improvvise, l’effetto cascata intorno a molte fake news.

Una ricerca sull’algoritmo di Facebook ha dimostrato che esso sopprime l’8% dei contenuti diversi da quelli profilati per i liberali e sopprime il 5% di contenuti diversi da quelli profilati per i conservatori. In tal modo si crea un bias nell’esposizione a contenuti diversi, che produce echo chamber e può creare effetti a cascata nei momenti critici della comunicazione politica. Citando  la ricerca di  Michela del Vicario et al. (Echo Chambers in the Age of Misinformation, Proceedings of the National Academy of Sciences, 2016), Sunstein giunge alla conclusione che “gli utenti di Facebook tendono a selezionare e condividere contenuti che si accordano ad una specifica narrativa e ad ignorare il resto… con la formazione conseguente di cluster polarizzati… e la proliferazione di narrative distorte fomentate da voci incontrollate, da malafede, e da paranoia”. I gruppi di interesse usano i social network per promuovere le loro idee e le echo chamber finiscono per dare autorevolezza a queste idee e per costruire una trincea difensiva intorno ad esse. L’evidenza delle ricerche citate da Sunstein è ampia e convincente: nella bilancia tra opportunità offerte dai social network alla diffusione delle informazioni e bias che essi introducono nel processo di formazione delle opinioni, il peso degli effetti perversi sembra crescente. 

Proposte e conclusioni

Sunstein è molto prudente nelle sue conclusioni e ancor più nelle proposte. Non ha alcuna propensione né fiducia a introdurre ulteriori appesantimenti normativi, ma ritiene che sia possibile e utile attivare l’attenzione pubblica ai temi della democrazia deliberativa, ossia dello spazio di discussione sui temi di pubblico interesse.

Tra I suggerimenti di Sunstein  particolare interesse, a nostro avviso, hanno la regolamentazione volontaria e la comunicazione al pubblico delle regole applicate dai network di comunicazione e in particolare dai social network, secondo il principio di Louis Brandeis (Giudice della Corte Suprema) “ la luce del sole è il miglior disinfettante”.  Sunstein insiste sul ruolo che la sicurezza della rete ha in misura crescente per consentire lo sviluppo di una democrazia deliberativa: la sicurezza della rete è un bene pubblico necessario per assicurare un accesso il più possibile neutrale alle sue risorse.

L’obiettivo generale di Sunstein, è la consapevolezza che cittadino e consumatore non sono concetti intercambiabili e a mio giudizio ciò deriva dal fatto che la libertà del consumatore è una delle liberties del cittadino, ma questi deve avere a cuore anche la freedom della società in cui vive.

Chiudiamo questa lettura richiamando tre citazioni che troviamo nella conclusione  del saggio. John Stuart Mill è chiamato a testimoniare l’importanza dell’incontro e dello scambio tra diversi (Principles of Political Economy, 1848) “E’ difficile sopravvalutare il valore, nell’attuale condizione modesta del miglioramento umano,  di porre in contatto le persone con altre di diverso orientamento…Questa comunicazione è  stata sempre e lo è particolarmente nell’attuale momento storico, una delle fonti principali di progresso.” John Dewey (The Public and its Problems, 1927) ha affermato l’importanza delle capacità individuali che maturano nel contesto sociale, senza le quali la libertà di pensiero rimane un diritto sterile (una delle liberties, ma -che non produce né difende la freedom, secondo la nostra distinzione): “Credere che il pensiero e la sua comunicazione siano liberi semplicemente perché sono stati rimossi gli impedimenti legali che li vincolavano è un’assurdità. La circolazione di questa idea perpetua la condizione infantile della conoscenza sociale. Perché obnubila il riconoscere il nostro bisogno fondamentale di possedere concetti da usare come strumenti di indagine diretta, che sono provati, corretti e promossi per  crescere con il loro uso. Nessun uomo e nessuna mente sono mai stati emancipati dall’essere abbandonati  a se stessi”.

Terza testimonianza: un cittadino uscito dalla grande folla raccolta intorno alla Convention Hall di Philadelphia nell’estate del 1787, alla conclusione dei lavori di scrittura della Costituzione svoltisi a porte chiuse,  chiese a Benjamin Franklin “Che cosa ci avete dato?” e la risposta fu:  “Una repubblica, se saprete conservarla”.

Ci avviciniamo a elezioni nelle quali la capacità di conservare la nostra repubblica non sarà al centro dell’attenzione, nell’illusione che essa sia fondata su una Costituzione che da sola basti a difenderla. Il saggio di Sunstein va letto  da coloro che vogliono rendersi conto dei passaggi stretti che dovremo affrontare nei prossimo futuro.

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