21
Mag
2009

La crisi lascerà solo un bel po’ d’inflazione

Questa crisi non è servita a nulla e ci lascerà solo un bel po’ di inflazione.

Il discorso del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, è senza dubbio condivisibile. Chi potrebbe sostenere il contrario: ovvero che non servono riforme. «Novità subito per superare la crisi, consolidare la coesione sociale bene assoluto da salvaguardare», ha giustamente detto alla platea di Viale dell’Astronomia l’imprenditrice. «Bisogna  rilanciare la produttività e i salari», ha aggiunto rivolgendosi  in particolare a Silvio Berlusconi seduto in prima fila, ricordando il momento è quanto mai opportuno visto che «il governo può contare su un consenso che  è un patrimonio politico straordinario, da mettere a frutto». Verissimo. Tant’è che Berlusconi ha fatto presente di essere «d’accordo al 100%». E come Silvio tanti altri.  Eppure le riforme non si fanno. Solo l’altro giorno il Premier ha ricordato che i mass media sono tutti disfattisti e pessimisti e l’ordine del giorno è ottimismo e  orgoglio. Come dire: bisogna guardare avanti e incentivare i consumi. Tremonti bacchetta giustamente le banche perché «hanno usato i bond di Stato solo per abbellire i bilanci» senza fare interventi strutturali sul credito e sui mutui. Ma gli spread offensivi applicati dai singoli Istituti restano alo loro posto.  Ha ragione dunque la Marcegaglia, ma sono appelli che cadono nel vuoto. Anzi che si scontrano con un muro di gomma.

Con tali premesse sembra molto difficile intraprendere una strada riformista. Nemmeno i dati sui fatturati del primo trimestre hanno spinto qualcuno a parlare di “nuovo fisco”. Ed era la speranza delle Pmi, degli artigiani e dei commercianti. Il project financing che potrebbe servire per le infrastrutture giace agli ultimi posti della classifica Ue. L’editoria si ridimensiona, ma non cambia. Infine gli asset tossici sono congelati in aree come la bad bank della Merkel. E quando arriverà il disgelo? Viene da pensare che questa crisi non è servita a nulla e probabilmente ci lascerà una bella eredità inflazionistica. Per il 2009 le stime medie del disavanzo dei bilanci pubblici si attestano sul 9% del Pil. Peggio ancora per quanto riguardo il debito complessivo. Nel 2008 i salvataggi delle banche hanno creato un po’ di fango. Lo stock di debito pubblico e privato in Uk è passato dal 40 all’80%. Tanto per fare un esempio. Le continue iniezioni di liquidità delle banche centrali sono al momento intangibili. Ma giusto fra un anno faranno schizzare i tassi d’inflazione secondo l’Ocse di almeno un 6/7%.

20
Mag
2009

Rcs, l’impennata sospetta

Oggi il titolo Rcs è schizzato verso l’alto con un più 46,4%, chiudendo a 1,14 euro. Tutti gli editoriali ne hanno beneficiato, ma a spingere il titolo è stato il deciso passaggio nel giudizio ad outperform di Mediobanca, che ha innalzato il target price da 0,93 a 1,65, mentre Intermonte faceva altrettanto ma più modestamente innalzando l’obiettivo a 1,30.
Il problema che intendo sottoporre non è affatto quello del sospetto conflitto d’interessi, visto che Mediobanca è azionista “importante”, diciamo così, della Rcs medesima. Prendo per buono che a piazzetta Cuccia sia impenetrabile, la muraglia cinese tra le funzioni di analisi finanziaria e gestione di portafoglio. Ma pur ammettendolo, la questione è un’altra.
Il drastico giudizio al rialzo – e conseguente impennata in Borsa – è stato motivato dall’ottima impressione di un piano di risparmi per 200 mio di euro, deliberato dagli azionisti a fronte delle perdite. Eppure, la notizia non era quella: era già nota. La notizia è invece che il nuovo direttore del Corriere della sera, De Bortoli, si è posto con la sua firma a scudo dell’organico redazionale contro gli azionisti, dichiarando per scritto che il loro piano con 90 esuberi è “irricevibile”. A che cosa hanno stappato, allora, gli analisti di Mediobanca e Intermonte e con loro il mercato: a un delicato minuetto? Credono davvero che il nuovo direttore non sapesse del piano, e che rischi ora la sua direzione respingendolo? Macché. Al Corriere lo sanno tutti quale sarà la vera cifra degli esuberi, alla quale si arriverà dopo una bella pantomima collettiva. Solo i prepensionandi che hanno già dichiarato la loro volontà di scivolo anticipato, con ricorso a denari del contribuente e nemmeno un esubero in più sennò il giornale non va in edicola.
Naturalmente, quando è il primo giornale d’Italia a comportarsi così – quello che doveva dare un’identità e un’anima alla borghesia italiana che ne sarebbe priva – risulta difficile prenderlo sul serio se scrive poi che sindacati e dipendenti Fiat dovrebbero dare una mano a Marchionne.

19
Mag
2009

La Corte di Giustizia Europea ed i problemi delle farmacie italiane

La Corte di giustizia si è pronunciata oggi su due serie di cause relative al regime di proprietà delle farmacie previsto dalle normative italiana e tedesca, le quali prevedono che gli esercizi di vendita dei medicinali possano essere posseduti soltanto da farmacisti.

Le cause tedesche (C-171/07 e C-172/07, Apothekerkammer des Saarlandes), a cui quella italiana è stata riunita, vertevano sulla possibilità, non prevista dalla normativa tedesca, che soggetti diversi dal farmacista aprissero un esercizio – la vicenda trae origine dall’obiezione di legittimità sollevata dai farmacisti del Land della Saar contro l’autorizzazione accordata dal il ministero alla DocMorris, società per azioni olandese, a gestire una succursale della catena a Saarbrücken.

La Corte di Giustizia afferma che questo “non viola il diritto comunitario poiché la restrizione apportata alla libertà di stabilimento è giustificata dall’obiettivo di tutela della sanità pubblica”, poiché “a suo avviso, il divieto imposto ai non farmacisti di possedere e gestire una farmacia è atto a conseguire tale obiettivo poiché esso è tale da garantire un rifornimento di farmaci alla popolazione che offre garanzie sufficienti in materia di qualità e di varietà”, e ripiega sul diffuso argomento della “natura particolare del bene-farmaco”, il quale necessiterebbe particolari forme di mediazione.

Il senatore del Pdl Antonio Tomassini, Presidente della Commissione Sanità, dichiara:

Esprimo la mia più viva soddisfazione per la sentenza della Corte di Giustizia Europea, che rende finalmente giustizia alla situazione delle farmacie in Italia. Una sentenza che legittima la legge italiana che riserva ai soli farmacisti la titolarità e l’esercizio delle farmacie

Ricordiamo però che la normativa italiana considera “farmacisti” in grado di avviare una farmacia non coloro che hanno conseguito una laurea in farmacia, hanno sostenuto un tirocinio e sono stati abilitati all’esercizio della professione farmaceutica in seguito al superamento di un esame di stato, bensì i titolari di licenze farmaceutiche numericamente limitate. Queste vengono assegnate in base ad una pianta organica, secondo un modello di regolazione istituito nel 1913 da Giolitti, ma totalmente inadeguato alle necessità, al modello di consumi ed all’informazione di consumatori ed operatori di oggi.

Per capirsi, alcuni dati:

  • In circa l’80% dei comuni italiani c’è una sola farmacia: un terzo dei nostri concittadini si trova di fronte ad un monopolista nel momento in cui ha bisogno di un bene importante come un farmaco.
  • Il 28,8% dei comuni con meno di 3000 abitanti non ha una farmacia.
  • Un anno dopo la liberalizzazione dei farmaci da banco, che costituiscono il solo 10% del mercato, erano già state aperte circa 1.664 parafarmacie – sintomo di una ampia domanda insoddisfatta.
  • Le farmacie in Italia sono circa 17.000.  I laureati in farmacia, iscritti all’Albo dei farmacisti sono 75.000.  Circa 35.000 lavorano alle dipendenze di altri farmacisti

Ci troviamo di fronte quindi all’incontro mancato fra un’importante domanda insoddisfatta ed il capitale umano necessario per soddisfarla, a causa di una normativa che impone un modello anticoncorrenziale. E che danneggia una tipologia di consumatori delicatissima: coloro cioè che hanno bisogno di farmaci.

Anche accettando il ragionamento della Corte sulla natura atipica del bene-farmaco, è un non sequitur affermare che la garanzia della qualità del servizio di erogazione di farmaci sia subordinata all’ottenimento di una licenza.

19
Mag
2009

Il prezzo dei politici, Giavazzi, Tremonti e Martin

Stamane Tremonti con la sua strigliata alle banche italiane mi ha provocato un brividino piacevole, visto che riprendeva gli argomenti usati su questo blog commentando le recenti dichiarazioni di Passera, a proposito degli spread praticati dalle banche italiani negli impieghi a imprese e famiglie, rispetto ad altri grandi paesi dell’euroarea. Dichiarazioni che hanno messo al giusto posto le considerazioni svolte invece da Francesco Giavazzi sul Corriere della sera. Lo capisco sempre meno, il nostro professore. Attribuire a Tremonti le pretese di un mullah iraniano perché è tra i pochi a criticare le banche, non mi sembra una genialata. Tanto meno se poi segue la proposta che sia il governo, a sottoporre le banche italiane a stress test analoghi a quelli americani. A parte che quelli americani sono stati a mio giudizio – l’ho argomentato su questo blog – una mano di biacca sugli attivi contrattata con le banche stesse, invece che una passata di serio disinfettante. Ma immaginate che cosa avrebbero scritto Corriere e Repubblica, se Tremonti avesse disposto lui stress test bancari, di fatto e di diritto spodestando la vigilanza ordinaria e straordinaria sul credito che nel nostro ordinamento spetta solo a Bankitalia? Si sarebbe gridato al golpe bancario berlusconico-leghista, a dir poco. Meglio, molto meglio che sia Bankitalia ad occuparsene. E del resto, come feci in tempo a scrivere su LiberoMercato prima della sua chiusura, i criteri adottati dall’anno scorso nelle ispezioni da parte di via Nazionale seguono il criterio del capitale tangibile nel calcolare la rischiosità delle esposizioni potenziali, secondo criteri più stretti di quelli americani.
Ma è anche vero che se il tiro alle banche rischia di diventare un po’ meno minoritario nel nostro paese, non bisogna mai dimenticarsi che quando si chiede alla politica di emanare più regole, il punto diventa non dimenticare che la politica rischia di costarci ancor più.
Non sto affatto parlando dello stipendio del ministro Tremonti. E’ un discorso generale quello che manca sempre in Italia, sui costi/benefici seriamente analizzati della politica e dei suoi interventi.
E non lo dico da populista. Faccio un esempio controcorrente. A Londra oggi si dimette Michael Martin, speaker della Camera dei rappresentanti, per via dello scandalo “rimborsi pubblici ai deputati”. Bene, su questo condivido in pieno la lettura mercatista avanzata dal capo degli editorialisti del Times, oggi, Daniel Finkelstein. La trovate a questo link. Meglio pagare meglio un politico serio, che credere di innalzarne la qualità e abbatterne i danni pagandolo meno.

19
Mag
2009

Chernobyl

Aprendo il Festival dell’Energia di Lecce, il presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, ha ricordato di un suo viaggio a Mosca, negli anni Ottanta. In quell’occasione, i dirigenti sovietici gli mostrarono un documentario sul gioiello tecnologico del momento: l’energia nucleare. Il fronte più avanzato di quella tecnologia era la centrale di Chernobyl. Il senso del racconto era che non importa quante precauzioni si prendono e quanto avanzata è la tecnologia: l’atomo è sempre e comunque troppo pericoloso. Quello che Vendola non ha ricostruito è la dinamica dell’incidente, che invece è ben spiegata in due bei libri da Ugo Spezia e da Francesco Corbellini e Franco Velonà. Emerge chiaramente da queste letture che quello di Chernobyl non fu, in senso stretto, un incidente nucleare, quanto piuttosto un incidente del nucleare sovietico. Nel senso che una serie di errori umani e inaccuratezze tecniche portarono al disastro, ma gli uni e le altre non avrebbero potuto presentarsi in alcuna centrale atomica allora in funzione nel resto del mondo, e tanto meno in alcun impianto oggi in esercizio o in progetto. Non solo le misure difensive sono state molto rafforzate, ma anche le modalità di gestione sono assai diverse e orientate a una maggiore sicurezza. Non è un caso, infatti, che Chernobyl rappresenti in assoluto un unicum nel panorama del nucleare mondiale, come ho scritto tempo fa sul Foglio basandomi su un rapporto di Legambiente. Sul nucleare si possono avere idee diverse, e ci sono buone ragioni per essere favorevoli (come gli Amici della Terra e Chicco Testa) oppure contrari (sempre Legambiente e poi Greenpeace hanno due studi interessanti). La questione è ultra-complessa e resto convinto che non la si possa risolvere semplicisticamente con un sì o con un no, perché ogni risposta va qualificata con delle informazioni e scelte relative al contesto in cui si inserisce l’atomo (per esempio: considerando oppure no le politiche di contenimento della CO2? In un mercato più o meno liberalizzato, e come?). Il punto è però che chi chiama in causa Chernobyl, non accusa l’atomo ma il comunismo. E che il comunismo non funzionasse, lo sapevamo anche senza bisogno di una tragedia nucleare.

18
Mag
2009

Draghi versus Consob e Parlamento, e fa bene

La Banca d’Italia poche ore fa ha dato un segnale nella direzione giusta. Per le quote di capitale “sensibili” – cioè tali da dover essere non solo segnalate al regolatore, ma di cui richiedere l’autorizzazione preventiva al loro raggiungimento – le banche italiane seguono da subito una direzione opposta a quella del resto delle società quotate. Recentemente, infatti, il Parlamento ha fatto propria l’intenzione espressa dalla Consob, ritoccando verso il basso le quote sensibili da comunicare all’autorità di regolazione dei mercati, estendendo la possibilità di salire oltre il 30% senza obbligo di Opa per soci di controllo, e raddoppiando la quota di buy back a disposizione di chi esercita il controllo: tutto ciò a scopo “difensivo”, è stato detto, in un contesto finanziario nel quale l’assottigliamento delle capitalizzazioni accresce l’ipotesi di raid ostili, destabilizzando gli attuali “controllori”.
Al contrario la Banca d’Italia ha reso noto di considerare già disapplicata una norma dell’attuale articolo 19 del Testo Unico Bancario, che rendeva necessaria l’autorizzazione da parte di via Nazionale al raggiungimento della soglia del 5% in un istituto di credito. La soglia viene raddoppiata, portandola al 10%. In applicazione della Direttiva europea 2077/44, che doveva essere recepita entro lo scorso 21 marzo ma che – per ragioni che si comprendono purtroppo bene – era ancora ferma in Parlamento. La direttiva, scrive Draghi, ha però «disposizioni di dettaglio, chiare e precise» e Bankitalia ritiene che abbia «diretta efficacia nell’ordinamento italiano».
D’ora in poi, il superamento del 5% di capitale bancario dovrà essere comunque comunicato a Bankitalia ma non più preventivamente autorizzato, mentre la previa autorizzazione scatta per le successive soglie del 20, 33 e 50% delle azioni o dei diritti di voto. In un Paese nel quale tempi e modalità discrezionali delle autorizzazioni preventive di Bankitalia in passato hanno fatto molto e giustamente discutere, è un ottimo esempio che il regolatore per primo si spogli di sue prerogative in materia.
Il comunicato di Bankitalia precisa che tale impostazione è condivisa con il Tesoro. Ci si riferisce però – ritengo – all’immediata vigenza della direttiva per questione di gerarchia delle fonti normative, a prescindere per così dire dal contenuto. Ma resta il fatto che Draghi dà un segnale nella giusta direzione, bypassando il freno parlamentare. Alla vischiosità degli asset di controllo bancari italiani può venire solo del bene da un mercato per l’esercizio della proprietà meno ostacolato e più dinamico: l’esatto opposto di ciò che ritengono tutti i “difensivisti” che, con la scusa della crisi, tengono solo più al caldo la rendita di posizione di chi oggi esercita il controllo.