15
Mag
2009

Matteoli e il gioco delle tre carte

E’ stato siglato ieri al ministero delle infrastrutture e dei trasporti il protocollo d’intesa per il contratto unico della mobilità  grazie al quale saranno riuniti nell’ambito dello stesso inquadramento contrattuale i lavoratori del trasporto pubblico locale e quelli delle ferrovie.  I sindacati gioiscono: il riallineamento, va da sé, sarà verso l’alto. Meno contenti dovrebbero essere gli impiegati nel settore privato che vedranno ulteriormente crescere il divario che separa le loro retribuzioni da quelle degli addetti dei trasporti. Non così accade in Gran Bretagna dove il trasporto pubblico è in larga misura un settore come tutti gli altri, soggetto alla disciplina del mercato e con un costo del lavoro in linea con quello delle altre aziende. In Italia già oggi il divario fra i due ambiti è rilevantissimo.  Il costo medio per addetto in un’azienda di una grande area urbana è superiore ai 40mila euro all’anno (con una produttività inferiore del 40% rispetto a quella britannica). Assai curioso il commento del Ministro Matteoli, secondo il quale: “il protocollo rappresenta un passo fondamentale soprattutto per il trasporto pubblico locale. Basti pensare alla situazione del pendolarismo, dove c’e’ molto scontento. L’accordo puo’ migliorare i servizi e abbassare i costi”. E’ vero il contrario. Utenti e addetti hanno, come evidente, interessi contrapposti. Non è possibile difenderli entrambi. O, meglio, si può. Facendo pagare, come al solito, il soggetto più debole: il contribuente.

14
Mag
2009

L’Italia, la Cina e una raffica di cattive notizie

Sono in giro per una serie di incontri e convegni, in licei, cooperative, armatori, i Giovani di Confindustria, il Forum della PA con Brunetta, e via continuando. Per questo mi scuso di esser mancato un giorno, e ne approfitto per un post al volo. Mi ha molto sorpreso dieci minuti fa leggere l’editoriale di Nouriel Roubini sul New York Times di oggi, perché è raro che le sue tesi sopra le righe mi convincano. Ma mi sono ritrovato esattamente nel ragionamento che avevo esposto ieri agli studenti del Sacro Cuore di Milano e oggi al parlamentino nazionale degli juniores di Confindustria guidati da Federica Guidi. Si tratta delle conseguenze che potrebbe avere per tutti i paesi grandi esportatori in semilavorati e componentistica a non altissimo valore aggiunto – come l’Italia – un eventuale cambio del tallone monetario del commercio mondiale. In altre parole: dello scioglimento del peg semi fisso tra dollaro e reminmbi, che negli anni alle nostre spalle ha “aggiunto” competitività monetaria, attraverso il collegamento automatico alla svalutazione del dollaro sull’euro, ai prodotti cinesi già avvantaggiati da basso costo congenito. Secondo stime riservate che l’Ice esita comprensibilmente a rendere note, potrebbero essere dolori per almeno due delle famose “4 A” che costituiscono i due terzi dell’export italiano. Per l’automazione e componentistica elettromeccanica, e per l’abbigliamento-tessile-moda, ciò potrebbe costituire un cambio rilevante delle ragioni di scambio, in grado di convincere molte grandi aziende capofiliere – soprattutto tedesche, nel primo settore – a rinviare il più possibile la ripresa di ordini ad aziende fornitrici italiane, in attesa di verificare se non convenga spostare altrove le proprie catene di supply.
Quel che in apparenza è un tema “alto e lontano” – la proposta cinese di una seria modifica dei diritti di prelievo e relativo paniere monetario di riferimento, in sede di Fmi – in realtà potrebbe colpire in profondità le possibilità di ripresa dell’export italiano. Gli americani sono convinti che i cinesi si convinceranno presto a rivalutare, pur di riavviare comunque il proprio export. I cinesi sono persuasi che saranno gli americani per primi a dover mollare la loro pretesa, perché di mese in mese i disoccupati aggiuntivi Usa da ottobre passeranno dagli attuali 5,7 milioni a 7 e oltre entro l’estate, e a quel punto Obama sarà costretto a piantarla e a rassegnarsi, se vuole che i cinesi riprendano ad acquistare asset in dollari, cioè a finanziare a debito il risanamento Usa come fino ad ottobre ne finanziavano la crescita dei consumi.
Purtroppo, se è corretto ipersemplificare in questi termini il braccio di ferro monetario sotteso alla ripresa del commercio mondiale, occorre ricordare che i cinesi possono contare su di uno strumento assai più efficace di quello americano. L’Armata Popolare Cinese mette sui treni e rispedisce in campagna ogni mese dai 3 ai 5 milioni di cinesi risospingendoli all’economia di sussistenza agricola, nel mentre si attua il colossale shift della crescita da estero-trainata a focalizzata su infrastrutture e domanda interna. Gli americani, al contrario non possono certo arruolare milioni di disoccupati nella Guardia Nazionale. Di conseguenza, al il nostro export converrebbe una posizione filocinese anzichenò.
Nel frattempo, una raffica di notizie che mi sembrano smentiscano gli ottimismi di circostanza: il deficit tedesco a 50 miliardi di euro quest’anno da 11 nel 2008 con tanto di addio ai tagli fiscali preannunciati; la cattiva – e giustificata – reazione del mercato alle trimestrali di Unicredit e Intesa; la scontata sconfitta degli imprenditori privati in Assolombarda, vista la sconsideratezza con cui la presidente uscente ha cercato di pilotare la sua successione su un candidato debole come già avevo scritto, con inevitabile vittoria del candidato “pubblico”, Maugeri dell’Eni, che dopo un anno di ridicolaggini su Expò 2015 infligge una nuova bella ridimensionata alle pretesi milanesi; il venir meno della residua finzione di Cai su Malpensa, e scontate chiacchiere dei governatorid el Nord che solo ora riscoprono la necessità di liberalizzare gli slot intanto riassicurati ad Alitalia anche se non li usa; la conferma che nella riscrittura a puntate del rapporto Caio riemerge lo scorporo “tutto pubblico” della rete fissa di Telecom Italia… e poi vi chiedete perché Mike Bongiorno è andato da Murdoch per riprendere a scandire tutte le sere il suo proverbiale “allegriaaaa”: perché qui da noi c’è poco da ridere, e lo sa anche lui.

14
Mag
2009

Abruzzo: con gli espropri di Bertolaso, si ricostruisce sulla sabbia

Quando un’area viene colpita da un terremoto o da qualche altra calamità naturale, alle rovine materiali rischiano sempre di aggiungersi gravi danni di altro genere. Chi ricorda quanto avvenne in Irpinia, ad esempio, sa bene come le morti e le distruzioni causate dai movimenti tellurici introdussero – a causa delle scelte politiche compiute – ad una crescita esponenziale del potere e di conseguenza all’imbarbarimento della vita sociale. Dopo il disastro naturale, insomma, si è avuto il disastro “artificiale” indotto dai finanziamenti pubblici e dalle spartizioni correntizie.
È di queste ore l’annuncio che per la costruzione delle case provvisorie il capo della protezione civile, Guido Bertolaso, ha predisposto una ampio programma di espropri. Come ha detto Bertolaso stesso, “gli elenchi sono stati esposti nell’albo pretorio e ne abbiamo dato comunicazione attraverso il nostro sito e i quotidiani locali, in quanto sono moltissimi e quindi non potevamo raggiungerli uno per uno”.
Così, però, non si ricostruisce nulla, perché non si rimette in piedi una società minando ancor più il pilastro fondamentale di ogni ordine civile: la proprietà privata. Colpire la proprietà vuol dire “terremotare” i principi fondamentali del diritto e proiettare un’idea di società in cui la realtà è a disposizione dell’Imprenditore per eccellenza: lo Stato.
Purtroppo, fin dall’inizio l’intera gestione del terremoto è stata basata sulla centralità della politica e di un apparato burocratico che si autorappresenta efficiente, invece che sulla valorizzazione dell’autonoma iniziativa delle imprese e delle famiglie della zona. Mettere in discussione in questo modo il diritto di proprietà, così che nessuno possa disturbare il “manovratore”, proietta ombre lunghe sul futuro della provincia aquilana.
Non c’è nessuna voce liberale che voglia farsi sentire?

13
Mag
2009

“Un uomo vuoto senza coraggio politico”

Wolfgang Munchau non usa mezzi termini, sul Financial Times, per definire il presidente uscente della Commissione europea, José Manuel Barroso. E ha ragione da vendere. In questi cinque anni, Barroso è riuscito a distruggere il prestigio della Commissione come istituzione che promuove l’integrazione europea, agganciandosi allo spettro evanescente di Lisbona (la strategia), incassando un fallimento via l’altro su Lisbona (il trattato), assegnando alla competition policy e alle politiche ambientali il compito di definire l’Europa ex negativo rispetto agli Stati Uniti. Per il resto, nulla di nulla. La spinta per l’apertura dei mercati si è rapidamente esaurita, durante la crisi la Commissione non si è vista (e forse è meglio così), e l’unica ragione per cui Barroso rischia la rielezione è che rappresenta esattamente quello che i capi degli Stati membri più forti vogliono a Bruxelles: l’insostenibile ininfluenza dell’esserci.

13
Mag
2009

Trento, provincia discount, e i candidati allo scranno

Se di Zurigo fu detto (da Karl Kraus, se non erro) che era grande solo la metà del cimitero di Vienna, ma noiosa il doppio, che si potrebbe dire di Trento? La città è graziosa, con un decoro che ti fa dubitare di essere in Italia, ma talvolta dà l’impressione di essere ormai una realtà parastatale (a causa della “specialità”) in ragione di una spesa pubblica abnorme che ha smorzato lo spirito d’iniziativa e politicizzato ogni cosa. Per tutta una serie di ragioni, verrebbe da pensare che a Trento ci si possa andare solo a riposare e ricaricare le batterie.
E invece – grazie all’assessore provinciale al Commercio, Alessandro Olivi (del Pd) – la città potrebbe diventare un paradiso del consumismo per l’intero Nord Est, a seguito della saggia decisione di liberalizzare sconti e promozioni, sottraendo ogni limite temporale.
La scelta è appropriata e produrrà buoni risultati, incrementando la concorrenza. Svincolare quanto più è possibile l’azione di negozi e altri centri vendita significa infatti favorire lo scambio, che è sempre un’interazione vantaggiosa per tutti i partecipanti (almeno ex ante: perché poi qualche volta ci si può pentire).
È interessante rilevare come stampa e opinione pubblica, in fondo, abbiano reagito bene. Anche sul sito del TG 1, che ha lanciato un sondaggio sul tema, la maggioranza dei visitatori si è espressa favorevolmente. Il mercato sarà pure “fallito” e la crisi sarà pure da addebitarsi alla libertà economica come vuole la vulgata, ma una certa ragionevolezza elementare ancora alberga nella testa di molti, persuasi che ricevere uno sconto anche a novembre e non solo a dicembre non sia qualcosa da demonizzare. E se i commercianti sono divisi, questo si deve al fatto che alcuni di loro temono che i grandi centri commerciali coglieranno l’occasione per scatenare una concorrenza ancora maggiore: a nostro vantaggio.
Secondo l’assessore Olivi, altre province – a partire da quelle limitrofe – copieranno il modello. Può darsi. Ma dato che in moltissime realtà si vota proprio per il rinnovo di queste (sostanzialmente inutili, anche se assai costose) amministrazioni provinciali, perché non pretendere dai candidati un chiaro impegno a seguire le orme di Trento?

12
Mag
2009

Tasse, frottole, lima e sapone

Due pregevoli documenti freschi freschi di elaborazione ristabiliscono per l’ennesima volta un po’ di verità, intorno alle tante sciocchezze che vanno per la maggiore in materia di redditi e tassazione. Il primo è l’audizione avvenuta oggi dell’ISAE davanti alla Commissione Lavoro del Senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul livello dei redditi da lavoro e sulla redistribuzione della ricchezza in Italia negli anni 1993-2008. Il secondo è l’edizione 2008 appena rilasciata dell’annuale rapporto Taxing Wages dell’Ocse.
Tra i tanti spunti interessanti delle tabelle Isae, mi limito a due. Le retribuzioni procapite dei lavoratori dipendenti sono cresciute di poco l’anno, in media non più dello 0,5%. Ma dopo aver in effetti imboccato una curva discendente nel 1995 e una stasi successiva, sono poi risalite. E non è affatto vero che nel frattempo avveniva uno shift a favore di autonomi e indipendenti: a prezzi costanti, dopo il 2001 il loro reddito procapite ha preso a riscendere, riposizionandosi ai livelli della metà degli anni Novanta. La seconda cosa da notare è il calcolo riaggiustato degli effetti del doppio pacchetto di riduzione delle imposte 2003-2005 e delle modifiche delle deduzioni d’imponibile varate dal governo Prodi, al netto però del fiscal drag e in funzione dei diversi decìli di reddito di appartenenza. In termini complessivi, il fiscal drag si è mangiato ben i due terzi dei 2,7 punti percentuali in meno di aliquote medie che avrebbero dovuto rappresentare l’effetto degli sgravi di centrodestra e centrosinistra. E gli sgravi effettivi si sono concentrati soprattutto nei cinque decìli inferiori di reddito, gli altri hanno pagato di più.
Quanto all’Ocse, anche quest’anno è smantellata l’idea che il nostro prelievo complessivo sia “in media”. Sommando aliquote sul reddito e contributive, in area Ocse solo Belgio e Ungheria, Germania, Francia e Austria ci battono, e siamo tutti nell’area di poco inferiore o superiore a uno spaventevole 50%. Tutti gli altri paesi hanno gravami nettamente inferiori al nostro, Usa e Giappone ben 20 punti meno…..
Conclusione numero uno. La querimonia sul reddito da lavoro penalizzato dagli autonomi che evadono è una palla. Il reddito dipendente è compresso dai contratti nazionali centralizzati secondo i criteri del 93: che per fortuna oggi vanno in soffitta.
Numero due: gli sgravi fiscali degli ultimi otto anni sono stati una presa per i fondelli, e nel giudizio accomuno entrambi gli schieramenti. A pagare qualche punticino in meno, solo chi sta peggio e ne sono felice per lui. Tutti gli altri, hanno addirittura pagato di più. Ci vuole l’ascia alle aliquote, per crescere di più, altro che lima e sapone.

12
Mag
2009

I russi non mangiano più i petrolieri?

Per qualche accidente della sorte, il numero del 20 aprile di Oil & Gas Journal mi è arrivato solo oggi. Altrimenti avrei dato prima questa notizia che mi pare rilevante: dopo qualche anno di bullismo (come hanno imparato Bp e Shell), complice la crisi, la Russia comincia a rivedere l’atteggiamento aggressivo che ne ha contraddistinto i rapporti con le compagnie petrolifere private. Sulle pagine del settimanale americano, Grigory Vygon (direttore del dipartimento di economia e finanza del ministero delle Risorse naturali e dell’ambiente) spiega le nuove strategie del governo per rendere il paese di nuovo appealing per le major. Il dato di partenza, impressionante, è che tra il 2005 e il 2008, nonostante l’impennata dei prezzi del petrolio, il “free cash flow” dell’upstream è sceso da 7,4 dollari al barile a 2,9, mentre i costi operativi sono raddoppiati (da 9 a 18 dollari al barile) e le entrate fiscali sono cresciute ancor più rapidamente (da 20,1 a 45,3 dollari al barile). Quindi,

le principali ragioni per la riduzione dell’attrattività delle attività esplorative sono un sistema fiscale sfavorevole e l’assenza di stimoli per le regioni per finanziare direttamente tali attività.

Vygon enuncia quindi le nuove linee d’azione del paese che, pur continuando a ritenere “strategici” i grandi giacimenti di petrolio e di gas (che dunque dovranno sempre essere operati da consorzi in cui la maggioranza relativa è in mano a un’impresa pubblica del paese), intende tornare ad aprire le porte agli investimenti privati. L’obiettivo è ambizioso: se il ministero stima in 180 miliardi di dollari l’ammontare complessivo degli investimenti necessari da qui al 2020, il 90 per cento di tali risorse dovranno arrivare da tasche private. Come?

Anzitutto, riscrivendo la normativa fiscale, rendendola più semplice e meno onerosa – e in particolare spostando il peso della tassazione dai ricavi ai profitti delle compagnie petrolifere. Anche la svalutazione del rublo (da un rapporto di 23:1 col dollaro nel 2008 si è passati a 33:1 ad aprile di quest’anno) mira a ridurre i costi del capitale, soprattutto per le piccole e medie compagnie petrolifere private (russe e straniere), che hanno la maggior parte dei costi denominati in valuta russa, i ricavi in moneta americana.  Oltre a questo, il ministero vorrebbe, tramite una normativa ad hoc, stimolare un maggior coinvolgimento delle regioni nelle attività esplorative, spingendole a farsi promotrici di nuove campagne attraverso una compartecipazione significativa al gettito delle aste per ottenere le concessioni esplorative. Infine, il Cremlino ammette l’enorme problema infrastrutturale, per cui si impegna a una vasta opera di ristrutturazione delle pipelines e alla realizzazione di nuovi oleodotti e gasdotti laddove necessari.

Non è del tutto chiaro se questo mutamento di attitudine sia dovuto all’effetto che la crisi sta avendo sulle finanze pubbliche del paese, o se sia – come sembra – il segno di un aggiustamento del tiro più di lungo termine (reso necessario anche dalle buie prospettive di produzione, che rischiano di rendere insufficiente la produzione di gas, come spiegano molto bene Michael Economides e altri). E’ nell’interesse di tutti, russi compresi, un superamento dell’attuale fase di inaffidabilità del paese. Se davvero il crollo del fettito fiscale sarà la molla che ha determinato un’evoluzione a lungo attesa, per una volta si può dire che la recessione non è arrivata invano.

11
Mag
2009

Gli effetti collaterali della mobilità sostenibile

Il Corriere riprende oggi i risultati di un’inchiesta pubblicata su il «Centauro» di maggio, organo ufficiale dell’Asaps, l’associazione amici sostenitori della Polizia Stradale, che confermano quanto già si sapeva da tempo. Ossia che, moto a parte, il mezzo di trasporto più pericoloso è la bicicletta. Tale stato di cose sarebbe,  a detta di alcuni, da ricondursi al fatto che in Italia non vi sono abbastanza piste ciclabili e mancano politiche volte alla protezione di questi “utenti deboli” della strada. Le statistiche relative al Regno Unito, Paese leader in Europa per quanto concerne la sicurezza stradale, sembrano però smentire tale interpretazione. Anche oltre Manica, gli spostamenti su due ruote sono dodici volte più rischiosi di quelli in auto. Un trasferimento del 5% della mobilità dalle quattro alle due ruote causerebbe dunque, in quel Paese, un incremento del numero di morti in incidenti stradali superiore a cinquecento unità per anno. Un bell’esempio di mobilità sostenibile.