22
Mag
2009

Mr Obaaaaama…!

Le aspettative per un esito “positivo” del vertice di Copenhagen (di cui da un po’ si parla in toni meno entusiastici) oggi hanno ricevuto una bella gelata. La Cina ha affidato a un documento della Commissione per lo sviluppo e le riforme la sua posizione sulle negoziazioni. Come era lecito attendersi, si tratta di un’elegante manovra di smarcamento: i cinesi chiedono che il mondo sviluppato riduca le sue emissioni di almeno il 40 per cento (un obiettivo del tutto, e volutamente, irrealistico) e contestualmente si dicono disponibili a contribuire solo se, in qualche modo, saranno risarciti dello sforzo economico necessario. Tradotto: Pechino se ne lava le mani e non ha intenzione alcuna di sacrificare la sua crescita economica alla presunta salvezza del clima. Poche settimane fa era stata l’India a esprimere un punto di vista analogo. E Barack Obama, l’indiscusso protagonista del vertice di dicembre, al momento ha generato una quantità di fumo decisamente non proporzionale all’arrosto (in pratica, un po’ di crediti fiscali che possono servire a far crescere gli investimenti nelle rinnovabili e dintorni, ma certo non a centrare alcun obiettivo ce sia definibile come ambizioso). Gli europei da un po’ si stanno sbracciando per chiedere a Washington di fare la sua parte (la parola d’ordine è co-leadership) ma, apparentemente, senza grande successo. La vernice verde si sta già squagliando?

21
Mag
2009

Liberali teutonici contro le tasse

Di recente i liberali tedeschi sono andati a congresso. L’assemblea riunita ad Hannover ha licenziato il programma elettorale da sottoporre alla “ratifica” degli elettori il prossimo 27 settembre. Si tratta di un elenco di proposte estremamente poco dettagliate quanto a modalità e tempi di attuazione, ma che ha comunque il pregio della chiarezza. Se dovesse approdare all’esecutivo, su un punto siamo certi che l’FDP darà battaglia: le tasse. Il ministro delle Finanze in pectore, Hermann Otto Solms, un distinto ed equilibrato signore sulla sessantina, ha già illustrato il suo progetto: tre aliquote, 10% fino a 20.000 Euro, 25% tra 20.000 e 50.000 e 35% oltre i 50.000. La no tax area verrebbe ulteriormente ampliata con il risultato che una famiglia composta da padre, madre e due figli incomincerebbe a pagare le tasse a partire dai 40.000 euro. E non finisce qui: l’FDP propone un ulteriore abbattimento delle aliquote sulla tassazione di impresa con l’eliminazione della Gewerbesteuer (la tassa sull’esercizio dell’attività). Va infatti detto che già dal 1 gennaio 2008 il governo ha portato il carico fiscale complessivo (composto da un’omologa dell’Ires nostrana, da un’imposta comunale sul commercio – la Gewerbesteuer appunto – e da una tassa di solidarietà) dal 38,6% sotto la soglia fatidica del 30%. Solms propone ora due aliquote, del 10% per profitti sotto i 15.000 euro e del 25% al di sopra. L’idea è quella di creare un ambiente attrattivo per le imprese straniere e ad un tempo impedire (usando la leva fiscale e non i poliziotti) a quelle tedesche di rifugiarsi altrove. Il programma è stato aspramente criticato da socialdemocratici, verdi ed estrema sinistra. Non sono mancate voci di distinguo nemmeno nella CDU/CSU, impegnata a difendere il proprio profilo sociale. L’obiezione più ripetuta in questi giorni è la seguente: l’FDP vende fumo perché l’idea non è affatto finanziabile. In realtà lo è eccome. Basta chiudere i rubinetti della spesa pubblica. Il Ministro delle Finanze Steinbrück intende iscrivere a bilancio per il 2009 circa 298 miliardi di euro di uscite. Si tratta esattamente di 38 miliardi in più rispetto all’inizio della legislatura (2005). Alla faccia del Ministro del rigore! La riforma di Solms ne costerebbe, a quanto pare, 33. L’SPD si conferma il partito del tassa e spendi.

21
Mag
2009

La crisi lascerà solo un bel po’ d’inflazione

Questa crisi non è servita a nulla e ci lascerà solo un bel po’ di inflazione.

Il discorso del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, è senza dubbio condivisibile. Chi potrebbe sostenere il contrario: ovvero che non servono riforme. «Novità subito per superare la crisi, consolidare la coesione sociale bene assoluto da salvaguardare», ha giustamente detto alla platea di Viale dell’Astronomia l’imprenditrice. «Bisogna  rilanciare la produttività e i salari», ha aggiunto rivolgendosi  in particolare a Silvio Berlusconi seduto in prima fila, ricordando il momento è quanto mai opportuno visto che «il governo può contare su un consenso che  è un patrimonio politico straordinario, da mettere a frutto». Verissimo. Tant’è che Berlusconi ha fatto presente di essere «d’accordo al 100%». E come Silvio tanti altri.  Eppure le riforme non si fanno. Solo l’altro giorno il Premier ha ricordato che i mass media sono tutti disfattisti e pessimisti e l’ordine del giorno è ottimismo e  orgoglio. Come dire: bisogna guardare avanti e incentivare i consumi. Tremonti bacchetta giustamente le banche perché «hanno usato i bond di Stato solo per abbellire i bilanci» senza fare interventi strutturali sul credito e sui mutui. Ma gli spread offensivi applicati dai singoli Istituti restano alo loro posto.  Ha ragione dunque la Marcegaglia, ma sono appelli che cadono nel vuoto. Anzi che si scontrano con un muro di gomma.

Con tali premesse sembra molto difficile intraprendere una strada riformista. Nemmeno i dati sui fatturati del primo trimestre hanno spinto qualcuno a parlare di “nuovo fisco”. Ed era la speranza delle Pmi, degli artigiani e dei commercianti. Il project financing che potrebbe servire per le infrastrutture giace agli ultimi posti della classifica Ue. L’editoria si ridimensiona, ma non cambia. Infine gli asset tossici sono congelati in aree come la bad bank della Merkel. E quando arriverà il disgelo? Viene da pensare che questa crisi non è servita a nulla e probabilmente ci lascerà una bella eredità inflazionistica. Per il 2009 le stime medie del disavanzo dei bilanci pubblici si attestano sul 9% del Pil. Peggio ancora per quanto riguardo il debito complessivo. Nel 2008 i salvataggi delle banche hanno creato un po’ di fango. Lo stock di debito pubblico e privato in Uk è passato dal 40 all’80%. Tanto per fare un esempio. Le continue iniezioni di liquidità delle banche centrali sono al momento intangibili. Ma giusto fra un anno faranno schizzare i tassi d’inflazione secondo l’Ocse di almeno un 6/7%.

20
Mag
2009

Rcs, l’impennata sospetta

Oggi il titolo Rcs è schizzato verso l’alto con un più 46,4%, chiudendo a 1,14 euro. Tutti gli editoriali ne hanno beneficiato, ma a spingere il titolo è stato il deciso passaggio nel giudizio ad outperform di Mediobanca, che ha innalzato il target price da 0,93 a 1,65, mentre Intermonte faceva altrettanto ma più modestamente innalzando l’obiettivo a 1,30.
Il problema che intendo sottoporre non è affatto quello del sospetto conflitto d’interessi, visto che Mediobanca è azionista “importante”, diciamo così, della Rcs medesima. Prendo per buono che a piazzetta Cuccia sia impenetrabile, la muraglia cinese tra le funzioni di analisi finanziaria e gestione di portafoglio. Ma pur ammettendolo, la questione è un’altra.
Il drastico giudizio al rialzo – e conseguente impennata in Borsa – è stato motivato dall’ottima impressione di un piano di risparmi per 200 mio di euro, deliberato dagli azionisti a fronte delle perdite. Eppure, la notizia non era quella: era già nota. La notizia è invece che il nuovo direttore del Corriere della sera, De Bortoli, si è posto con la sua firma a scudo dell’organico redazionale contro gli azionisti, dichiarando per scritto che il loro piano con 90 esuberi è “irricevibile”. A che cosa hanno stappato, allora, gli analisti di Mediobanca e Intermonte e con loro il mercato: a un delicato minuetto? Credono davvero che il nuovo direttore non sapesse del piano, e che rischi ora la sua direzione respingendolo? Macché. Al Corriere lo sanno tutti quale sarà la vera cifra degli esuberi, alla quale si arriverà dopo una bella pantomima collettiva. Solo i prepensionandi che hanno già dichiarato la loro volontà di scivolo anticipato, con ricorso a denari del contribuente e nemmeno un esubero in più sennò il giornale non va in edicola.
Naturalmente, quando è il primo giornale d’Italia a comportarsi così – quello che doveva dare un’identità e un’anima alla borghesia italiana che ne sarebbe priva – risulta difficile prenderlo sul serio se scrive poi che sindacati e dipendenti Fiat dovrebbero dare una mano a Marchionne.

19
Mag
2009

La Corte di Giustizia Europea ed i problemi delle farmacie italiane

La Corte di giustizia si è pronunciata oggi su due serie di cause relative al regime di proprietà delle farmacie previsto dalle normative italiana e tedesca, le quali prevedono che gli esercizi di vendita dei medicinali possano essere posseduti soltanto da farmacisti.

Le cause tedesche (C-171/07 e C-172/07, Apothekerkammer des Saarlandes), a cui quella italiana è stata riunita, vertevano sulla possibilità, non prevista dalla normativa tedesca, che soggetti diversi dal farmacista aprissero un esercizio – la vicenda trae origine dall’obiezione di legittimità sollevata dai farmacisti del Land della Saar contro l’autorizzazione accordata dal il ministero alla DocMorris, società per azioni olandese, a gestire una succursale della catena a Saarbrücken.

La Corte di Giustizia afferma che questo “non viola il diritto comunitario poiché la restrizione apportata alla libertà di stabilimento è giustificata dall’obiettivo di tutela della sanità pubblica”, poiché “a suo avviso, il divieto imposto ai non farmacisti di possedere e gestire una farmacia è atto a conseguire tale obiettivo poiché esso è tale da garantire un rifornimento di farmaci alla popolazione che offre garanzie sufficienti in materia di qualità e di varietà”, e ripiega sul diffuso argomento della “natura particolare del bene-farmaco”, il quale necessiterebbe particolari forme di mediazione.

Il senatore del Pdl Antonio Tomassini, Presidente della Commissione Sanità, dichiara:

Esprimo la mia più viva soddisfazione per la sentenza della Corte di Giustizia Europea, che rende finalmente giustizia alla situazione delle farmacie in Italia. Una sentenza che legittima la legge italiana che riserva ai soli farmacisti la titolarità e l’esercizio delle farmacie

Ricordiamo però che la normativa italiana considera “farmacisti” in grado di avviare una farmacia non coloro che hanno conseguito una laurea in farmacia, hanno sostenuto un tirocinio e sono stati abilitati all’esercizio della professione farmaceutica in seguito al superamento di un esame di stato, bensì i titolari di licenze farmaceutiche numericamente limitate. Queste vengono assegnate in base ad una pianta organica, secondo un modello di regolazione istituito nel 1913 da Giolitti, ma totalmente inadeguato alle necessità, al modello di consumi ed all’informazione di consumatori ed operatori di oggi.

Per capirsi, alcuni dati:

  • In circa l’80% dei comuni italiani c’è una sola farmacia: un terzo dei nostri concittadini si trova di fronte ad un monopolista nel momento in cui ha bisogno di un bene importante come un farmaco.
  • Il 28,8% dei comuni con meno di 3000 abitanti non ha una farmacia.
  • Un anno dopo la liberalizzazione dei farmaci da banco, che costituiscono il solo 10% del mercato, erano già state aperte circa 1.664 parafarmacie – sintomo di una ampia domanda insoddisfatta.
  • Le farmacie in Italia sono circa 17.000.  I laureati in farmacia, iscritti all’Albo dei farmacisti sono 75.000.  Circa 35.000 lavorano alle dipendenze di altri farmacisti

Ci troviamo di fronte quindi all’incontro mancato fra un’importante domanda insoddisfatta ed il capitale umano necessario per soddisfarla, a causa di una normativa che impone un modello anticoncorrenziale. E che danneggia una tipologia di consumatori delicatissima: coloro cioè che hanno bisogno di farmaci.

Anche accettando il ragionamento della Corte sulla natura atipica del bene-farmaco, è un non sequitur affermare che la garanzia della qualità del servizio di erogazione di farmaci sia subordinata all’ottenimento di una licenza.

19
Mag
2009

Il prezzo dei politici, Giavazzi, Tremonti e Martin

Stamane Tremonti con la sua strigliata alle banche italiane mi ha provocato un brividino piacevole, visto che riprendeva gli argomenti usati su questo blog commentando le recenti dichiarazioni di Passera, a proposito degli spread praticati dalle banche italiani negli impieghi a imprese e famiglie, rispetto ad altri grandi paesi dell’euroarea. Dichiarazioni che hanno messo al giusto posto le considerazioni svolte invece da Francesco Giavazzi sul Corriere della sera. Lo capisco sempre meno, il nostro professore. Attribuire a Tremonti le pretese di un mullah iraniano perché è tra i pochi a criticare le banche, non mi sembra una genialata. Tanto meno se poi segue la proposta che sia il governo, a sottoporre le banche italiane a stress test analoghi a quelli americani. A parte che quelli americani sono stati a mio giudizio – l’ho argomentato su questo blog – una mano di biacca sugli attivi contrattata con le banche stesse, invece che una passata di serio disinfettante. Ma immaginate che cosa avrebbero scritto Corriere e Repubblica, se Tremonti avesse disposto lui stress test bancari, di fatto e di diritto spodestando la vigilanza ordinaria e straordinaria sul credito che nel nostro ordinamento spetta solo a Bankitalia? Si sarebbe gridato al golpe bancario berlusconico-leghista, a dir poco. Meglio, molto meglio che sia Bankitalia ad occuparsene. E del resto, come feci in tempo a scrivere su LiberoMercato prima della sua chiusura, i criteri adottati dall’anno scorso nelle ispezioni da parte di via Nazionale seguono il criterio del capitale tangibile nel calcolare la rischiosità delle esposizioni potenziali, secondo criteri più stretti di quelli americani.
Ma è anche vero che se il tiro alle banche rischia di diventare un po’ meno minoritario nel nostro paese, non bisogna mai dimenticarsi che quando si chiede alla politica di emanare più regole, il punto diventa non dimenticare che la politica rischia di costarci ancor più.
Non sto affatto parlando dello stipendio del ministro Tremonti. E’ un discorso generale quello che manca sempre in Italia, sui costi/benefici seriamente analizzati della politica e dei suoi interventi.
E non lo dico da populista. Faccio un esempio controcorrente. A Londra oggi si dimette Michael Martin, speaker della Camera dei rappresentanti, per via dello scandalo “rimborsi pubblici ai deputati”. Bene, su questo condivido in pieno la lettura mercatista avanzata dal capo degli editorialisti del Times, oggi, Daniel Finkelstein. La trovate a questo link. Meglio pagare meglio un politico serio, che credere di innalzarne la qualità e abbatterne i danni pagandolo meno.

19
Mag
2009

Chernobyl

Aprendo il Festival dell’Energia di Lecce, il presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, ha ricordato di un suo viaggio a Mosca, negli anni Ottanta. In quell’occasione, i dirigenti sovietici gli mostrarono un documentario sul gioiello tecnologico del momento: l’energia nucleare. Il fronte più avanzato di quella tecnologia era la centrale di Chernobyl. Il senso del racconto era che non importa quante precauzioni si prendono e quanto avanzata è la tecnologia: l’atomo è sempre e comunque troppo pericoloso. Quello che Vendola non ha ricostruito è la dinamica dell’incidente, che invece è ben spiegata in due bei libri da Ugo Spezia e da Francesco Corbellini e Franco Velonà. Emerge chiaramente da queste letture che quello di Chernobyl non fu, in senso stretto, un incidente nucleare, quanto piuttosto un incidente del nucleare sovietico. Nel senso che una serie di errori umani e inaccuratezze tecniche portarono al disastro, ma gli uni e le altre non avrebbero potuto presentarsi in alcuna centrale atomica allora in funzione nel resto del mondo, e tanto meno in alcun impianto oggi in esercizio o in progetto. Non solo le misure difensive sono state molto rafforzate, ma anche le modalità di gestione sono assai diverse e orientate a una maggiore sicurezza. Non è un caso, infatti, che Chernobyl rappresenti in assoluto un unicum nel panorama del nucleare mondiale, come ho scritto tempo fa sul Foglio basandomi su un rapporto di Legambiente. Sul nucleare si possono avere idee diverse, e ci sono buone ragioni per essere favorevoli (come gli Amici della Terra e Chicco Testa) oppure contrari (sempre Legambiente e poi Greenpeace hanno due studi interessanti). La questione è ultra-complessa e resto convinto che non la si possa risolvere semplicisticamente con un sì o con un no, perché ogni risposta va qualificata con delle informazioni e scelte relative al contesto in cui si inserisce l’atomo (per esempio: considerando oppure no le politiche di contenimento della CO2? In un mercato più o meno liberalizzato, e come?). Il punto è però che chi chiama in causa Chernobyl, non accusa l’atomo ma il comunismo. E che il comunismo non funzionasse, lo sapevamo anche senza bisogno di una tragedia nucleare.