NGN e monopolio naturale
Mi piace segnalare (con alcuni giorni di ritardo) questa presa di posizione di Assoprovider, che offre un punto di vista ragionevole e non convenzionale sugli investimenti per le reti di nuova generazione.
Mi piace segnalare (con alcuni giorni di ritardo) questa presa di posizione di Assoprovider, che offre un punto di vista ragionevole e non convenzionale sugli investimenti per le reti di nuova generazione.
Se c’è una macchia nel curriculum di Milton Friedman, macchia che – come si riferisce tra il serio ed il faceto in The Tyranny of the Status Quo – neppure la moglie Rose gli ha mai perdonato, è il contributo da questi fornito nell’elaborazione della withholding tax, l’odioso meccanismo che trasforma i datori di lavoro in esattori. Contro il sostituto d’imposta si schiera oggi Giorgio Fidenato, già fondatore del Movimento Libertario, con una battaglia coraggiosa e degna d’attenzione.
Il Tar di Brescia ha accolto il ricorso urgente dei comuni di Milano e Brescia contro l’esclusione dal diritto di voto nell’assemblea degli azionisti di A2A, attualmente in corso, che tra le altre cose deve nominare il nuovo Consiglio di Sorveglianza dell’azienda. Si tratta della fine di un’epoca, quella che ha visto Renzo Capra dominare incontrastato sull’utility bresciana, ma non di un paradigma. Al di là dell’ultimo colpo di coda con cui Capra aveva tentato di sfruttare alcuni errori formali dei due enti locali, come ha scritto Carlo Lottieri quella a cui abbiamo assistito è stata la coda di un conflitto politico lungo e feroce. Si può e si deve essere critici coi modi delle amministrazioni, ma alla fine della fiera le municipalizzate restano feudo del settore pubblico. Non c’è regola borsistica o attenzione alle questioni di tatto che possa far venire meno questo dato. In questo senso, la discontinuità riguarda semplicemente il colore politico della giunta della città della Leonessa, recentemente conquistata dal centrodestra dopo un lungo regono del centrosinistra (e prima ancora della sinistra Dc). Il vero problema è che la politicizzazione del gruppo non è in discussione, e questo è e sarà fonte di innumerevoli distorsioni, anche perché non stiamo parlando di una società piccola e marginale, ma di una delle maggiori imprese italiane nel settore elettrico, che per giunta è azionista ultra-influente della seconda impresa del settore, Edison. E’ dunque poco interessante sindacare sui nomi, uscenti ed entranti, perché, a prescindere dai rispettivi meriti tecnici e politici (coi secondi sempre e comunque prevalenti sui primi), la logica in cui il gruppo si muoverà resterà più sensibile ai segnali elettorali che a quelli del mercato. L’unico modo di uscire da questo modo di ragionare perverso e dannoso, come abbiamo sostenuto in questo pamphlet dell’IBL, è privatizzare le municipalizzate – a partire da quelle più grandi e influenti – e liberalizzare autenticamente i servizi pubblici locali. Purtroppo, nulla di tutto ciò è neppure lontanamente all’ordine del giorno del dibattito politico: tutto quello che ci resta è il derby tra i manager.
Obama nazionalizza Gm con il sindacato UAW. Un male comunque necessario? Una svolta addirittura benefica, verso un nuovo modello americano? Anche stamane, dissento vigorosamente da come Sole 24 ore e Corriere della sera presentano ai loro lettori la decisione Usa su GM. Mi pare i media liberal americani si comportino molto meglio, vedi oggi la vigorosa stroncatura in sette punti che David Brooks verga sul New York Times.
Scrive il direttore del Sole che la Merkel su Opel coi russi sa di ruggine e protezionismo, mentre Obama su Gm guida l’industria dell’auto Usa a un avveniristica accelerazione verso nuove tecnologie ecocompatibili. Sul Corriere Mucchetti, sempre più editorialista di punta del nuovo corso di via Solferino, aggiunge un nuovo capitolo all’esaltazione della presunta superiorità del modello europeo su quello americano, sulla scorta di quanto egli ha sempre sostenuto e recentemente ha anche scritto Mario Monti. Ecco che cosa capita a chi si affida a previdenza e sanità privata, invece che a quelle pubbliche del welfare universalista europeo, è la loro tesi: lo Stato deve salvare tutti dal fallimento del privato, e ben gli sta a tutti così imparano a separare profitto da solidarietà.
Entrambe le tesi non mi convincono neanche un po’. E mi confermano che le povere imprese private italiane, ormai, il nemico intellettuale lo hanno ben solidamente al timone nei loro giornaloni di riferimento. Semmai, il fallimento di GM è il degno e preannunciatissimo – da vent’anni almeno, vedi gli innumerevoli articoli richiamati dai siti americani che seguono ogni giorno il settore dell’auto – esito di un modello totalmente inefficiente di gestione delle relazioni industriali, totalmente sbilanciato dal lato del sindacato UAW per colpa delle pressioni politiche. Quando per vent’anni si incorpora un aggravio di 30 dollari per ora lavorata rispetto ai concorrenti che lavorano in stabilimenti nello stesso mercato Usa, il fallimento è di un sindacato che pretende di imporre costi fuori mercato – fattore che resta totalmente assente dalle analisi “nostrane” – non del modello previdenziale contributivo privatistico. Quanto alla svolta tecnologica, che siano manager di Stato a saperla realizzare a condizioni di efficienza ed efficacia, successo di mercato e di volumi superiori a quelli di imprese e manager privati, sarebbe la prima volta nella storia dell’umanità. Tanto ne diffida la stessa task force dell’auto dell’Amministrazione, che ha dettato le regole della nazionalizzazione di Gm e dello scorporo da essa di Opel, da aver imposto alla stessa controllata tedesca di non attivarsi sul mercato domestico Usa, per evitare concorrenza.
La nazionalizzazione GM non mette alla testa dell’azienda nuovo management privato, come almeno avviene in Chrysler-Fiat. Non focalizza il gigante fallito sul più rapido recupero di profittabilità, diluendo e travestendo lo sforzo necessario attraverso l’obiettivo “verde”. Rafforza nel sindacato la certezza che d’ora in poi a maggior ragione – gettate sulle spalle dei soli nuovi assunti i tagli di retribuzione oraria e di prestazione welfaristiche – Obama non potrà certo mollare GM al suo destino, in caso i risultati siano insoddisfacenti. E obbliga chi guiderà l’azienda a muoversi secondo queste stesse coordinate.
In più, l’obiettivo dell'”azionista pubblico riluttante”, come l’ha definito ieri Obama, cioè uscire al più presto e senza troppo rimetterci da Gm, è del tutto inattuabile. Finora al contribuente Usa il 60% di G è costato 53 miliardi di dollari, e di conseguenza per uscirne senza falò di denari del contribuente bisognerebbe che l’azienda capitalizzasse almeno 80 miliardi di dollari. Mai, nemmeno nei tempi più rosei e cioè ormai molti anni fa, GM ha superato i 52 miliardi di dollari. Figuriamoci se è ipotizzabile un prossimo futuro in cui il fallimento e 180 miliardi di debiti possano tradursi in 100 miliardi di valore. E tutto ciò mentre il debito pubblico Usa passerà dal 41% del Gdp dove l’ha lasciato Bush a oltre l’80% entro il 2013, secondo le previsioni attuali del Budget Independent Office del Congresso.
No, non è una svolta. No, non è il fallimento del mercato che responsabilizza individui e imprese, attraverso liberi contratti, sulla copertura sanitaria e previdenziale. E’ il fallimento imposto da cattivi politici e pessimi sindacalisti, a manager che hanno anteposto la propria sopravvivenza all’etica dei risultati. Esattamente come avviene a Rcs, ed è forse per questo che ai grandi giornali italiani piace così.
H come Holzmann. E’ questo il nome che circola in Germania in queste ore per descrivere il roseo futuro della Adam Opel Gmbh, salvata dal contribuente tedesco, neanche a farlo apposta, grazie alla provvidenziale intermediazione dell’ex Cancelliere socialdemocratico. Di esempi simili tratti dalla storia tedesca se ne potrebbero snocciolare a decine. Me ne viene però in mente un altro particolarmente significativo, quello di Borgward. Tra il 1960 e il 1961 il gruppo automobilistico di Brema annunciò di avere gravissimi problemi di liquidità (causati dallo scarso successo del modello Isabella negli USA), che costrinsero la società ad andare dritta dritta verso le procedure concorsuali. Ludwig Erhard, allora Ministro dell’Economia, fu tra i più decisi sostenitori dell’insolvenza. L’Spd, invece, gridò allo scandalo, profetizzando “la fine dell’industria dell’auto made in Germany”. Oggi il novello Erhard, il giovane barone Zu Guttenberg, è rimasto nell’angolo.
Riceviamo e pubblichiamo da Franco Debenedetti:
Non si capisce il perché delle reazioni scandalizzate sull’esito della vicenda Opel.
Il Governo italiano ha fatto bene a non intervenire: poteva offrire solo o chiusure di stabilimenti in Italia o soldi.
Marchionne si é impegnato nella sola partita che poteva giocare, proponendo una soluzione basata su logiche industriali. Ma quando il destino dell’Opel si decide tra i capi di Governo della prima e della terza economia mondiale, e delle loro agende politiche, non ha molto altro da dire.
L’operazione, dal punto di vista delle competenze, si configura come un “reverse takeover”: quelle chiave stanno tutte nell’azienda acquisita. Management e sindacati di Opel si sono scelti i padroni ideali: entrambi stranieri, uno un subfornitore senza conoscenze di marketing automobilistico, l’altro un sub finanziatore con la garanzia del Governo tedesco.
Certo, sono aiuti di stato: ma solo chi ha la memoria corta, da noi, può scandalizzarsi.
La telenovela Noemi si e’ arenata su una questione diversa, dai presunti rapporti fra il sultano e le sue favorite. Sulla relazione fra le favorite ed i giornali. Il Giornale e’ partito attacco dell’Espresso, scrivendo d’essere in possesso delle registrazioni di quanto si sono detti, in un incontro certo non risolutivo, un giornalista del settimanale debenedettiano e la “Barbie polacca” dell’ultimo grande fratello. La fanciulla, ben istruita, ha dato a intendere d’avere avuto una relazione affettuosa col premier, e ha “adescato” il giornalista, pronto a proporle uno scambio denaro per prove.
Scandalo! Questo, e l’ipotesi che qualcosa del genere sia avvenuta pure fra Repubblica e Gino Flaminio (il fidanzato di Noemi che ora spera “di poter incontrare il premier”, che lui sobriamente chiama L’uomo del popolo), minerebbe tutta l’impalcatura del Noemi-gate. Destinato a mostrarsi per quello che e’: una cospirazione ordita da un quotidiano-partito per ridare spago ai tromboni sfiatati della sinistra, e poi ingigantita da un altro editore (Murdoch) preoccupato per la sopravvivenza della sua iniziativa imprenditoriale in Italia.
Non e’ questa la sede per valutare quanto incoerenti siano le dichiarazioni del premier la mattina per la sera, o piuttosto per biasimare l’assurdo del fatto che l’unica discussione politica di un qualche interesse e’ ormai l’ispezione del letto di Berlusconi. Mi fermerei solo su un dettaglio. Non capisco lo scandalo, per l’incentivo monetario a che il gallo canti.
Un conto e’ il contenuto di verita’ di alcune informazioni. Quello e’ importante. La “Barbie polacca” si sarebbe fatta pagare per affermazioni mendaci. Avrebbe venduto il falso. Ma se al contrario avesse avuto a disposizione prove vere, perche’ regalarle?
Dal suo punto di vista, sarebbe stato assurdo. Le prove (non le chiacchiere: le prove) di una relazione extraconiugale del premier sono evidentemente di grande valore per chiunque le pubblichi, perche’ venderebbe piu’ copie, per giunta in un momento di magra. Non c’e’ quindi da stupirsi se e’ disponibile a pagarle bene. Perche’ regalargliele, quindi?
Del resto, svelare una verita’ di questo tipo, da parte di una protagonista dei “giochi” di villa Certosa o Palazzo Grazioli, non sarebbe propriamente un investimento in reputazione. Se la starlette in questione fosse gia’ affermata, il suo percorso artistico verrebbe messo in una poco piacevole prospettiva. In caso non lo fosse, non e’ detto che la sua carriera futura beneficerebbe della fama di ragazza “facile” ma pure facile al rimorso che si conquisterebbe uscendo allo scoperto.
Per i pentiti, si offrono programmi di protezione. Perche’ si sa che non otterranno grandi vantaggi, dal denunciare i loro compagni di malefatte. Una “pentita” di villa Certosa non otterrebbe tanto facilmente una trasmissione a Mediaset: perche’ stupirsi, se pretende un indennizzo, se da’ un prezzo alla spiata?
Certo, i pentiti non sempre sono attendibili. E gli incentivi che vengono dati loro possono inficiarne le testimonianze, portarli a dire cio’ che gli inquirenti desiderano sentire. Avviene lo stesso anche in questo caso. Una confessione su “tutto quello che Berlusconi mi ha insegnato sulle piante grasse”, proveniente da una “velina”, non varrebbe granche’ per i giornali. Ma e’ per questo che i giornalisti devono confrontare le fonti, e che la ricostruzione della verita’ non puo’ basarsi su un’unica voce. Non per l’aver offerto o accettato denaro. Lo spione gratuito non e’ per forza piu’ attendibile di quello prezzolato.
Anche Martin Feldstein si schiera contro il capo & trade. L’argomento dell’economista americano è essenzialmente che qualunque sforzo unilaterale americano (o, se è per questo, euro-americano) di riduzione delle emissioni avrebbe un impatto ambientale, cioè un beneficio potenziale, estremamente piccolo, perché comunque le emissioni globali crescerebbero trainate dalle economie emergenti. Esattamente il contrario, quindi, di quanto ha sostenuto un paio di settimane fa Paul Krugman, che ha favoleggiato di possibili accordi globali che gli stessi paesi interessati (Cina e India in primis) hanno esplicitamente escluso. L’altro aspetto evidenziato da Feldstein è ancor più interessante: in pratica, il consigliere di Barack Obama sottolinea che la condizione politica necessaria ad avere uno schema di cap & trade sarebbe quello di distribuire gratuitamente i permessi di emissione, anziché venderli all’asta e utilizzare i proventi per ridurre le tasse o simili. Di fatto si tratta pure della scelta compiuta finora dall’Europa e, per la maggior parte dei settori tranne quello elettrico e a crescere alcuni altri, lo stesso varrà dal 2013 al 2020. Speriamo che le parole di Feldstein trovino una sponda alla Casa Bianca. E magari che anche a Bruxelles ci pensino un po’ su prima che la frittata sia fatta del tutto.
Quando sono Stato e politica a decidere di imprese private e settori di produzione, i media dovrebbero essere capaci di offrire analisi interpretative diverse dal puro colore, pur necessario e utile, su quali siano le predilezioni ideologiche del ministro zu und von Guttenberg della Csu rispetto ad Angela Merkel della Cdu, e agli esponenti della Spd. Occorrono anche criteri analitici ben più taglienti. Propongo un esempio, da zerohedge.blogspot.com che offre quotidianamente una miniera di dati finanziari. Date un occhio all’ipotesi proposta a http://zerohedge.blogspot.com/2009/05/i-am-marlas-observations-on-artifical.html, intorno alle eventuali inferenze tra potenziali sopravvissuti tra i dealers dell’auto nazionalizzata Usa,e le liste di donors per candidato alle primarie nelle ultime presidenziali.
Senza data di uscita dello Stato dall’auto come da tutti i settori che vengono “salvati”, data che deve essere dichiarata dalle autorità pubbliche in tempo contestuale agli interventi straordinari deliberati e attuati, non si attua solo una distorsione temporalmente illimitata del mercato con effetti a catena su migliaia di imprese che lavorano per il settore, ma si effettua anche una manipolazione sinergica del mercato del consenso politico. Allegria! È più utile elaborare e proporre numeri su questi fenomeni, o continuare a interrogare i diversi eredi della famiglia Agnelli fino al settimo grado di affini e consanguinei, per sapere che cosa avrebbero pensato di Opel i loro zii e nonne?