6
Giu
2009

L’interventismo tedesco su Opel non è una semplice caduta di stile

Pensare che l’approccio dirigistico del governo tedesco al dossier Opel sia una marginale ed estemporanea sbandata, dovuta all’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale di settembre è una considerazione giusta, ma estremamente limitata quanto ad orizzonte storico. L’idea che lo Stato, in situazioni di lacerante crisi economica, debba intervenire senza badare troppo alle distorsioni della concorrenza e dei processi autonomi del mercato, è molto più che una trovata elettorale escogitata dalla signora Merkel e dal suo gaglioffo governo di coalizione.
Già ai tempi della Repubblica di Weimar il potere presidenziale di emanare decreti di emergenza (e l’intromissione su Opel, così come i recenti pacchetti congiunturali, possono esservi facilmente assimilati) divenne un fenomenale strumento di intervento a gamba tesa dello Stato nell’economia, volto alla creazione –artificiale, direbbe Bastiat– di posti di lavoro e favorito dal proposito ingegneristico di plasmare la società perfetta, in poche parole un mezzo di “integrazione sociale”, per dirla con Hermann Heller.  Nulla da stupirsi, dunque, se proprio attraverso lo sfruttamento della politica economica si arrivò di lì a poco, sotto Hitler e Von  Papen, al riarmo. “Chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini“, soleva dire Eugen Richter. E così, da interventismo moderato che fu tra il 1919 e il 1925, quello della Repubblica di Weimar sfociò presto in dirigismo totalitario. La teoria della necessità di un’occhiuta intromissione da parte dello Stato centrale nella vita economica, propagandata da Keynes, fu recepita con entusiasmo anche dalla Germania di Hitler, nella quale le parole “nazionalizzazione” ed “esproprio” furono per anni all’ordine del giorno (ma anche quella di “Stato sociale”, si legga ad esempio il bel volume di Aly “Lo Stato sociale di Hitler“)
Ma quello che più dovrebbe stupire è che, al di là delle moine sulla colpa collettiva e all’esile crosta di incivilimento post-II guerra mondiale, la Bundesrepublik nata nel 1949 non sancì affatto una chiara e netta cesura con il suo disastroso passato. Almeno dal punto di vista della gestione istituzionale della politica economica. Il principio dell’interventismo statale, al di là di qualche felice parentesi (quella erhardiana, ad esempio), non è stato granché intaccato dal tortuoso dibattito sul nazionalsocialismo, ma ha continuato ad annidarsi  tra le pieghe della Repubblica federale, provocando una progressiva esautorazione delle procedure di controllo parlamentare sulle decisioni congiunturali a favore dell’esecutivo. Ciò a cui abbiamo assistito per Opel non è una semplice caduta di stile.

5
Giu
2009

L’Italia del gioco d’azzardo / di Giancarlo Colussi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Che l’apertura di un casinò sia una manna per l’economia di una municipalità lo aveva capito già nel 1921 il sindaco di Saint-Vincent, che quasi un secolo fa aprì la famosa casa da gioco valdostana. Se si escludono la breve parentesi negli anni sessanta del casinò di Taormina, e  tutti i casinò online attualmente presenti sul mercato italiano, le uniche sale da gioco autorizzate in Italia sono San Remo, Campione D’Italia, Venezia e lo stesso Saint Vincent. Il paradosso è che ad oggi non esiste una legge quadro che regolamenti l’apertura e la gestione delle case da gioco: quelle esistenti poggiano la loro legalità su licenze ottenute nella notte dei tempi ed hanno creato una lobby che si oppone al rilascio di nuove licenze.

Recentemente il senatore Candido De Angelis ha presentato una proposta di legge, appoggiata peraltro dal Presidente del Senato, Renato Schifani, ed elogiata anche dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in visita proprio a Taormina, per aprire il mercato a nuovi operatori. Non si parla di una liberalizzazione totale ed indiscriminata, ma di offrire un più ampio ventaglio di offerte nel settore, soprattutto vista la totale mancanza di casinò nel centro e sud Italia ed il costante aumento dei giocatori di poker, videopoker o  black jack online. Inutile dire che la levata di scudi da parte dei casinò é stata pressoché immediata.

L’obiettivo principale della proposta di legge é di rilanciare il settore del turismo, e, infatti, sono molte le realtà che da tempo chiedono di poter aprire dei casinò nel proprio territorio, fra cui Capri, Anzio, Taormina, Montecatini. Inoltre aprire nuove case da gioco spingerebbe le strutture già esistenti a rinnovarsi ed adeguarsi al mutato scenario concorrenziale.

Non va dimenticato che una tale apertura del mercato potrebbe avere effetti benefici anche per quanto riguarda la lotta alle attività della criminalità organizzata legate al gioco d’azzardo clandestino ma soprattutto per le casse dell’erario, da tempo ormai impegnato ad arginare la penetrazione di casinò online non italiani. Per anni lotto, totocalcio, lotterie e gratta e vinci vari hanno foraggiato le casse statali così come i vari tavoli di black jack o le roulette dei casinò. Ora che l’accesso a sale da gioco online straniere é così facile, il rischio per lo stato è di perdere una buona fetta delle scommesse dei giocatori italiani. Offrire maggiori spazi per il gioco dal vivo sempre più vicini ai giocatori stessi potrebbe essere una strategia più vincente delle politiche oscurantiste messe in atto fino ad ora.

Sarà interessante osservare gli sviluppi del settore nei prossimi mesi per capire quanta voglia di un mercato e di una società veramente libera ci sia in Italia e quanto questo governo sia pronto a combattere contro vecchie lobby e cartelli che danneggiano il benessere di molte regioni e le tasche dei cittadini.

4
Giu
2009

Ue-Microsoft, un punto per Bill Gates

Ci è capitato per le mani un interessante documento. Nella “guerra dei browser” fra le Autorità antitrust e Microsoft, riaperta inaspettatamente da Bruxelles, su sollecitazione di un competitor dell’azienda di Seattle, prendono posizione alcuni produttori riuniti nella Computer Technology Industry Association. Il loro “statement” è significativo perché ribatte con vigore alle tesi dell’Antitrust, dal punto di vista di attori che sono partner di Microsoft ma non si sentono “parte lesa”. Particolarmente interessanti, limpide nella difesa di una “libertà dei produttori” necessariamente complementare a quella dei consumatori, e giustamente severe su un punto cruciale: la concorrenza non si costruisce attraverso “mandati”, disposizioni in punta di baionetta, le conclusioni:

If installing multiple browsers were in the interests of our customers, there would be no need for the Commission to require it. As OEMs, we are free to install multiple browsers on Windows PC and we would do so because satisfying customer demand is key to our success in the market place. But we do not believe the must carry approach serves our customers well. Just the opposite, And we know that it will drive up our costs at a time of severe economic recession when we can ill affordo to absorb such additional costs. We respectufully request the European Commission to reconsider and abandon the must carry approach.

Qui il testo completo.

4
Giu
2009

Tremonti, ogni promessa è debito

Campagna elettorale europea in dirittura finale, e di conseguenza ultime smitragliate a raffica dei capi politici. Nella fitta serie, segnalo l’attivismo di Giulio Tremonti, segnalatosi oggi per un’intervista al Messaggero, una a Radio1, una Radiocity, una a Sky tv, e probabilmente me ne sono persa qualche altra. Tra le tante affermazioni, molte di esse già note, una mi ha particolarmente colpito per sincerità. «Non sono contrario agli aiuti di Stato», ha detto Tremonti a Sky tg24 Economia.  E ha aggiunto: «Adesso che è cambiato il gioco, giochiamo anche noi». Per chi lo conosce, considero questa frase di Tremonti un’ammissione schietta e sincera: la pensa davvero così, non è tanto per convincere qualche elettore in più. È un ceffone a distanza ai soloni della concorrenza europea, alla Monti, Giavazzi et similia.

Mai come in questa occasione risulta appropriato il vecchio detto: ogni promessa è debito. Personalmente, considero una fortuna che l’Italia, per la sua eredità di ingenti vincoli sul debito pubblico e la pazzesca concorrenza di maxi emissioni quest’anno e negli anni a venire per l’impennata del debito pubblico di Paesi fino al 2008 “virtuosi”, abbia sin qui speso in termini aggiuntivi assai poco, limitandosi per lo più a riallocare spese di competenza non ancora impegnate. Che cosa in concreto significhino gli aiuti di Stato, lo testimoniano oggi i tanti articoli dedicati da ogni testata americana al mercimonio immediatamente apertosi in Congresso per i 2000 concessionari auto dei quali GM e Chrysler hanno comunicato intenzione di rescissione dei contratti di rappresentanza, all’atto della presentazione dei piani di razionalizzazione che sono valsi l’assunzione da parte dell’Amministrazione Usa  di oltre il 60% della prima e dell’8% della seconda. Non c’è niente di più scontato della sequela di dichiarazioni di deputati e senatori democratici che ammettono anche, nella media, che entrare nel dettaglio gestionale delle aziende da parte dei poteri pubblici è generalmente sbagliato, ma una volta che si impegnano i denari del contribuente allora “bisogna” farlo.

Resto dunque curioso di capire a chi si applicheranno, gli aiuti pubblici promessi oggi da Tremonti. L’esplosione delle polemiche  e la mezza marcia indietro del governo tedesco su Magna-Opel dovrebbe insegnare a tutti che aprire i cordoni del Tesoro pubblico può essere facile,  ma la possibilità di commettere gravi errori nel breve e soprattutto nel medio-lungo, supera i benefici attesi quasi sempre solo nel breve termine.

Piuttosto, il campanello d’allarme venuto dalla fallita asta di titoli pubblici lettoni dovrebbe indurci a una prudenza raddoppiata. Per il momento, è più saggio prevedere strumenti europei comuni di aiuto a Paesi limitrofi che rischiano pesante instabilità – la Lituania dovrà per forza rinunciare al suo peg monetario fisso, col bel risultato che i mutui massicciamente contratti dai suoi cittadini in euro e franchi svizzeri andranno alle stelle, peggiorando ulteriormente il meno 18% di Pil attualmente atteso per il 2009. A dicembre scorso ci ha pensato il FMI, ora sarà il caso di rendere disponibile la finestra di possibilità fino a 50 miliardi di euro dichiarata a tal fine dalla BCE, violando implicitamente il veto tedesco a strumenti comuni  per soccorrere i meno virtuosi (trovate qui il bel commento di Anatole Kaletsky, sul Times di oggi). Gli Stati pensino al momento a destinare i propri aiuti a salvarsi a vicenda, piuttosto che a moltiplicare i casi Opel.

4
Giu
2009

Ferrovie: i costi ci sono. E i benefici?

Lo scorso 15 maggio lavoce.info ha pubblicato un intervento di Andrea Boitani e Carlo Scarpa nel quale si critica aspramente la campagna di comunicazione di Fs secondo la quale oggi le “Ferrovie dello Stato non gravano più sulla collettività”. L’articolo è stato ripreso qualche giorno dopo da Finanza&Mercati. Ieri è arrivata la replica al quotidiano delle ferrovie dove “si conferma e si ribadisce che con il ritorno al pareggio, FS non pesa più sui bilanci dello Stato come è stato invece in passato a causa delle pesanti perdite di esercizio”. Argomentazione priva di fondamento dalla quale si dovrebbe dedurre che, in passato, l’aiuto dello Stato consistesse esclusivamente nel ripianamento delle perdite di esercizio. La realtà è ben diversa: quell’intervento avveniva a valle di altri generosissimi contributi sia in conto corrente che per gli investimenti. E poco o nulla è cambiato negli ultimi anni. Come scrivono Boitani e Scarpa, nel 2007 sono passati dalle tasche dei contribuenti alla casse di FS oltre 7 miliardi di Euro che equivalgono a 500 Euro per una famiglia di quattro persone.
Per mostrare quanto sono efficienti, le FS sostengono che i loro costi sono analoghi a quelli degli altri due maggiori operatori europei: SNCF e DB. Trattandosi dei due ex(?) monopolisti di Germania e Francia non sembra che il termine di riferimento sia così significativo. Al più, si potrebbe sostenere che anche i contribuenti francesi e quelli tedeschi se la passano piuttosto male.
D’altra parte, se le FS sono così sicure di non avere concorrenti, per quale motivo in Parlamento sono in fase di approvazione due provvedimenti volti a prolungare la durata dei contratti di servizio e a reintrodurre la possibilità di affidare senza gara i servizi regionali?
Per le ferrovie poi, il fatto che ingenti risorse pubbliche vengano destinate al potenziamento della rete infrastrutturale, appare come una “variabile indipendente”, una realtà che non può essere messa in discussione. Si legge infatti nella lettera a Finanza&Mercati: “da anni FS non riceve conferimenti in conto capitale ma soltanto contributi in conto impianti per investimenti che l’azionista ritiene indispensabili per lo sviluppo della rete infrastrutturale, cosi come di altre reti come quella stradale, e come avviene anche all’estero”. Non è così. La rete stradale, realizzata anch’essa in larga misura con risorse pubbliche, viene più che ripagata con gli introiti fiscali che gravano sul settore automobilistico: il flusso di risorse che va dagli automobilisti allo Stato ed agli enti locali è all’incirca pari al doppio di quello in direzione opposta. Analogamente, le compagnie aeree pagano per intero i costi connessi alla realizzazione ed alla gestione degli aeroporti e non ricevono (tranne quelle ex statali) alcuna sovvenzione da parte dello Stato.
Non vi è dubbio quindi che le ferrovie ricevano un trattamento di favore rispetto agli altri modi di trasporto. Più che continuare a ripetere che “così fan tutti” sarebbe opportuno cominciare a riflettere su quali sono i reali benefici che la collettività riceve a fronte dell’imposizione fiscale necessaria per finanziare le ferrovie. Negare, contro ogni evidenza, che tale carico esista forse significa non essere così certi che vi siano valide ragioni che lo giustifichino.

3
Giu
2009

Storie di ordinaria follia teutonica

Del meraviglioso mondo delle Landesbanken abbiamo parlato in questo paper scritto un mese e mezzo fa per l’Istituto Bruno Leoni. Ma le banche regionali sono una miniera inesauribile di chicche che val la pena di raccontare. Succede infatti che la maxi-indebitata Bayern Lb, facente capo al Land della Baviera e i cui intrecci con la politica fanno un baffo a tutti i Mario Resca del Belpaese, sia proprietaria anche di due lussuosi hotel a cinque stelle. Il primo è l’Intercontinental dell’Obersalzberg, acquisito dalla mano pubblica per risollevare le sorti di una graziosa località alpina, fatalmente gravata dal peso della storia (come tutti sanno fu la residenza estiva di Hitler). Peccato che i turisti non arrivino, l’hotel sia pressoché sempre vuoto e le perdite record (4 milioni di euro nel solo 2008) dell’hotel dei sogni se le debbano generosamente sobbarcare i contribuenti. Ma si sa, per rinverdire i fasti della “colpa collettiva” questo ed altro. “Io non voglio pensare che le forze dell’estrema destra rilevino l’hotel per farne un punto di ritrovo”, ha chiarito il presidente della CSU Horst Seehofer. Accipicchia, quanto zelo! Cosa non si fa per la causa della democrazia. Ma, come detto, Bayern Lb possiede anche un altro hotel, nella prestigiosa cornice del Wörthersee. Anche qui il rosso è da capogiro: solo nel 2008 quasi undici milioni di debiti, dopo una ristrutturazione costatane la bellezza di 120. Il governo regionale ha sostenuto la voragine di Bayern Lb con 10 miliardi freschi freschi. La Commissione Europea pretende che le controllate della società vengano vendute al più presto per ripagare parte del prestito-ponte. Una completa privatizzazione dell’istituto non è comunque prevista prima del 2014-2015. C’è ancora tempo per acquistare nuovi hotel.

3
Giu
2009

Wolf ha torto, Merkel pure. No alle pecore del governo-pastore

Mercati ghiacciati oggi, dagli sconfortanti dati Eurostat su crisi in Ue che procede a ritmi esattamente doppi rispetto agli Usa, nonché  dalle parole di Bernanke che giustamente ha sottolineato la necessità che l’Amministrazione si dia subito una credibile strategia antideficit, in modo che lo spread tra titoli pubblici decennali e i Tips indicizzati non esploda sopra i 190-200 punti base attuali. Al momento, quel differenziale prova che l’attesa di inflazione americana incorporata dai mercati è ancora alla portata della capacità di fine tuning della Fed. In caso contrario, nella disputa odierna  tra Martin Wolf e Niall Ferguson su FT, significherebbe che il secondo – keynesiano dichiaratamente – ha torto, e il primo ha invece monetaristicamente ragione.

Significherebbe anche che ha ragione la Merkel, con la sua durissima tirata d’orecchi contro il quantitative easing di Fed e BoE, una tirata d’orecchi così priva di precedenti nella storia tedesca, abitualmente ortodossa quanto a separazione tra funzioni politiche e delle banche centrali? Niente affatto. Il quantitative easing può essere rapidamente dismesso dalle autorità monetarie, con la stessa velocità con cui lo si è attivato: serve a recuperare il pieno governo dell’intera curva dei rendimenti dei tassi sul mercato, e contestualmente a sostenere asset il cui prezzo si teme possa deflazionare. Al contrario, sono i deficit e cioè i debiti accesi dai governi per esplosivi mazzi di punti di Pil, a non poter essere altrettanto rapidamente dismessi. Proprio nel giorno in cui la politica tedesca ha dovuto fare già una mezza retromarcia su Opel-Magna, di fronte al rischio che gli austro-canadesi foglia di fico di Putin mollino tutto una volta gettato l’occhio sullo stato patrimoniale della casa automobilistica tedesca, la politica farebbe bene a ricordarlo: gli errori dei banchieri centrali sono a volte gravissimi, ma per quanto lunga sia la catena temporale di trasmissione dei segnali della politica monetaria  all’economia reale, le conseguenze di scelta politiche drasticamente sbagliate rischiano di esercitare effetti negativi ancora più durevoli e seri degli errori dei banchieri centrali.  In questi giorni un po’ tristi per noi liberisti, fa bene ogni tanto trovare libri che rinfrancano lo spirito e rimotivano. Come per esempio <!– /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-parent:””; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:12.0pt; font-family:”Times New Roman”; mso-fareast-font-family:”Times New Roman”;} @page Section1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.Section1 {page:Section1;} –> Soft Despotism, Democracy’s Drift: Montesquieu, Rousseau, Tocqueville, and the Modern Prospect, di Paul A. Rahe, edito dalla Yale University Press. Sono 400 pagine di sana cavalcata nella difesa dello spirito dei Founding Fathers, e di accorata denuncia del neostatalismo regolatore che sta conducendo gli Usa di Obama a scavalcare l’Europa di Rosseau.  L’America ripartirà prima di noi europei, lasciando a noi ancor più pesante l’eredità di cittadini che, quando le cose vanno male, chiedono sia lo Stato a rassicurarli invece di tirarsi su le maniche. Per chi non vuole morire pecora del pastore-governo, sono tempi in cui affinare tempra e taglio della spada.  Intellettuale, s’intende.