20
Giu
2009

Supervisione Ue, Lecce framework: Bce e globalstandardisti non convincono

L’Amministrazione americana ha proposto un deludente modello di riforma della supervisione dell’intermediazione finanziaria, che non semplifica quasi nulla e accentra solo qualche potere alla Fed – in questo accontentando le grandi banche delle quali Larry Summers è sempre stato ambasciatore – ma soprattutto estende il potere d’inframmettenza della politica estendendo a ogni soggetto finanziario l’eventuale decisione del segretario al Tesoro di procedure commissariali e concorsuali ad hoc. Il Consiglio Europeo a sua volta ha adottato delle conclusioni in materia di vigilanza finanziaria macrosistemica e microprudenziale, modificando le proposte del rapporto de Larosière a sua volta successivo ai lavori, anni addietro, della commissione Lamfalussy. La Bce resta delusa nelle sue richieste di accentrare il più possibile vigilanza macro e micro, come argomenta oggi sul Sole 24 ore Lorenzo Bini Smaghi. Né gli Usa né l’Europa attenderanno dunque il G20 di Pittsburgh in autunno – anche se i tempi delle rispettive decisioni formali sono ancora lunghi – per adottare nuovi princìpi e regole in materia di supervisione dei soggetti e dei mercati finanziari. A che cosa serve allora il cosiddetto Lecce Framework, le cui 78 pagine di materiale preparatorio, definito la settimana scorsa dai ministri finanziari del G8 coordinati da Tremonti, sono ancora ignote?

Credo che si debbano mettere alcuni punti fermi, su tale materia molto complessa. Poiché investe le regole dell’intermediazione finanziaria e dunque ha ricadute nelle attività finanziarie di ogni tipo d’impresa, a seconda di come davvero si adotteranno nuove regole e quali saranno, si disegnerà un orizzonte destinato a contrassegnare per qualche decennio l’ambito stesso di esercizio, funzionalità, efficienza ed efficacia dei mercati. Per chi la pensa come noi, è tempo di battaglia ideale. Controcorrente. Perché gli omologatori globalstandardisti vogliono gettare nel cestino evidenze positive fondamentali, attribuendo loro colpe che non hanno, nell’intento di esercitare controlli centralizzati. Non è materia per soli addetti ai lavori, se si ripassa un po’ di letteratura si scopre che alla base c’è l’idea stessa di Stato, mercato e legge. Per dei cultori di Bruno Leoni, un  must.

Non c’è stato affatto bisogno della crisi 2008 per scoprire l’impatto sulla regolazione delle nuove categorie del rischio, sviluppate dal ricorso sempre più innovativo alla finanza sintetica e ai derivati.  Il libro del “maestro” Richard Posner, Catastrophe: Risk and Response, è del 2004. Quello di Bob Shiller, The New Financial Order. Risk in the 21st Century, del 2003. E risale al 1995, un altro libro fondamentale che ancor oggi rappresenta per me un faro per orientarsi, Simple Rules for a Complex World di R. Epstein, in cui si analizzano i primordi – ma già ben presenti – del fenomeno con cui siamo alle prese, argomentando la contrarietà netta al principio one size fits all che resta il sogno e l’obiettivo di tutti gli “armonizzatori”, in materia di regolazione.

L’avvento della finanza sintetica ha infatti fatto compiere un altro passo avanti decisivo, nella storia della dematerializzazione nazionale degli ordinamenti statuali. Non è più solo la pretesa fiscale, messa in crisi dalla libertà dei capitali, delle merci e delle persone, e della relativa imposizione su valore aggiunto come sui redditi (quella che tanto giustamente esaltava Tremonti, all’inizio degli anni Novanta). La securitization crescente di attivi patrimoniali effettuata a livello globale, con tecniche di minimizzazione del rischio per l’emittente come per il trader come per il prenditore, ha sì provocato per eccesso di leva a fianco di troppo magri capitali a riserva la crisi che attraversiamo. Ma prima ancora aveva spostato equity e liabilities innanzitutto di ogni intermediario finanziario operante con tali tecniche, nonchè di qualunque impresa che ne facesse ricorso,  in una sfera totalmente aliena da quella dei diversi ordinamenti nazionali – regolatori e sanzionatori – per costituire una vera e propria sfera  artificiale dove l’ingegneria finanziaria dominava sovrana . Anche a questo proposito, non stiamo parlando affatto di un’amara scoperta post crisi. Molte delle più acute riflessioni in materia sono state svolte da Saskia Sassen, il geniale sociologo dell’economia che insegna a Chicago, nella sua triade fondamentale di saggi The Global City del 1991,  Globalization and Its Discontents. Essays on the New Mobility of People and Money che è del 1998, e infine Territory – Authority – Rights. From Medieval to Global Assemblages, del 2006. Ed è proprio dei Global Assemblages che bisogna ora occuparsi, cioè del tentativo di mettere insieme nuove regole comuni per aree diverse del mondo, con differenti tradizioni normative, regolatorie e amministrative, ma soprattutto evitando l’illusione che la “dematerializzazione” avvenuta nel ventennio precedente sia un fenomeno da far rientrare come un genio cattivo nella lampada di Aladino, restituendo a ordinamenti nazionali o federali ciò che hanno perso perché era e resta un bene, che perdessero.

Schematizzando molto, quali sono i tre fondamenti – almeno per me – che i neoregolatori di credo uniformatore pensano di spazzare via? Ciò che ci ha dimostrato e insegnato la scuola americana e anglosassone di Law & Economics, sulla natura stessa dell’impresa come nesso di liberi contratti invece che come forma giuridica dettata da un ordinamento sovrastante. Poi, la cosiddetta Legal Origins Thesis, la scuola di La Porta, Lopez-de-Silanes, Schleifer e Visny, con le sue conclusioni in materia di superiorità degli ordinamenti di common law su quelli di diritto codificato continentale in termini di garanzia ai diritti di proprietà e alla maggior liquidità dei mercati dei capitali e finanziari. Infine, il patrimonio accumulato dalla Behavioural Economics, con i vari Jolls, Sunstein e Thaler, in materia di concreto comportamento nell’arbitraggio del regolatore da parte degli attori economici volti alla massimizzazione del profitto, con conseguente esito che la regolazione da preferirsi sia il più possibile leggera e differenziata, in maniera da rendere evidente quale framework possa al contempo favorire al massimo la crescita riducendo i fenomeni di instabilità entro grandezze e conseguenze compatibili con l’evitare crisi sistemiche.

Tali fondamenti sono riassunti in libri come quello di Hall e Soskice del 2001, Varieties of Capitalism. The Institutional Foundations of Comparative Advantage, una piccola Bibbia contraria a ogni pretesa di unificare e appesantire le architetture regolatorie proprio in nome del vantaggio comparato. Gli omologatori sono invece persuasi che sia venuto il momento giusto per invertire il pendolo, per  tornare a dare ragione a Karl Polanyi quando perplesso e attonito  ammoniva – nel suo La Grande Trasformazione,  nel 1944! – che ormai l’economia di mercato aveva assunto priorità e controllo sulla società, invertendo la gerarchia secolare precedente, e di conseguenza da allora in avanti era giocoforza pensare – purtroppo, diceva lui – che non più il mercato dipendesse dalla società e dalla sua evoluzione, ma l’esatto contrario.

Gli Usa, con il loro neopresentato schema di correttivi alla vigilanza finanziaria, continuano a interpretare ciò che in base a ciò che sappiamo dovevamo aspettarci: non seguiranno affatto schemi “europei”. Quanto di approssimativo e di troppo friendly verso le grandi banche resta nelle proposte di Obama è un conto, e non va sottaciuto. Ma il partito Monti-Tremonti sbaglia, se davvero ha creduto di imporre al mondo anglosassone la rivincita iper regolatoria.

Quanto all’Europa, in realtà in materia di market securities e corporate governance è da oltre 30 anni che i regolatori di credo uniformatore continuano a perdere. Basti ricordare i 31 anni – 31!- trascorsi dall’avvio del dibattito alla codificazione dello Statuto d’impresa europea nel 2001, statuto che comunque continua a essere adottato da pochissime aziende. E basti pensare alla tunica d’Arlecchino di opts out nazionali – tedeschi, francesi, britannici – in cui si sono risolte controverse direttive come quella sui takeover, sul market abuse e sulla trasparenza.  La sconfitta lamenta oggi dalla Bce sulle conclusioni del Consiglio europeo,  con l’istituzione di un pletorico CERS – Comitato europeo del rischio sistemico – formato dai 29 membri del Consiglio BCE più le tr autorità ex Lamfalussy su banche, mercati e assicurazioni, più le rispettive 27 diverse autorità nazionali, e senza che il CERS possa emettere altro che raccomandazioni, è il puntuale riproporsi del fallimento degli omologatori. Gli Stati-Nazione europei si tengono stretto quel poco che loro resta. Non lo sottolineo positivamente come fautore dello statalismo regolatore, è un semplice ma innegabile fatto che liquida oggi – come in passato – la pretesa di vigilanze federali a cui non corrisponda un potere politico federale e un debito federale. Su questa base, allora, tanto vale continuare a sperare che, anche in questo travagliato dopo crisi, la regolazione differenziata possa mostrarsi come una buona spinta alla concorrenza tra ordinamenti in vista di best practices comprovate da risultati di crescita  senza eccessiva instabilità, visto che la pretesa di bandirla per sempre non è di questo mondo. È la path dependence che ci ha insegnato la New Institutional Economics di Douglas North in opere come The Economic Sociology of Capitalism (2005), e che Posner ha affrescato nel suo Law and Social Norms del 2000, forse una delle opere che più merita l’accostamento a quelle di Bruno Leoni. Non siamo affatto arrivati alla “fine della storia nella corporate governance”, come vorrebbero gli olisti pubblici. Si rassegnino, in materia di mercati finanziari come sulla corporate governance e sui contratti, i legal standard saranno ancora fatti di vasto ricorso a norme autoregolatorie da parte dei soggetti interessati, di princìpi ma non di comuni norme prescrittive e sanzionatorie, e di estesissimi opts out nazionali, dietro cui gli Stati difendono le loro ambìte eccezioni. Che queste siano poi competitive ed efficienti o collusivo-corporative, è altro paio di maniche.

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