15
Giu
2009

Krugman, Reagan e i tagli alle imposte

Qualche ora fa, sul suo frequentatissimo blog Paul Krugman ha preso per i fondelli i repubblicani e contestato quanti attaccano il piano di stimoli predisposto da Barack Obama poiché non avrebbe prodotto i risultati annunciati, soprattutto in tema di occupazione. Con una certa abilità retorica, Krugman si limita ad esibire un grafico che mostra come durante la presidenza Reagan a seguito dei tagli alle imposte per più di un anno si ebbe un incremento del numero dei senza lavoro.

La polemica di Krugman, che da intellettuale “militante” ed insider di primo livello è uso a schierarsi con una parte e contro l’altra, non sarebbe così interessante se non offrisse l’occasione per considerazioni più generali.

Su un punto l’economista americano ha sicuramente ragione: e cioè che le buone scelte politiche non si giudicano nell’arco di pochi mesi. Non a caso il formidabile crollo della disoccupazione che caratterizzò in America gli anni Ottanta del reaganismo fu ben successivo alla fase ricordata da Krugman.

C’è però un altro elemento, assai più meritevole di attenzione. Bisognerebbe cominciare a ragionare su questi temi senza infatti cadere vittima di troppe ingenuità metodologiche. In una realtà complessa quale è quella dell’economia americana o di qualsiasi altro Paese, non è possibile attribuire ad una scelta politica (sia esso uno “stimolo” keynesiano o il taglio delle imposte) ciò che succede successivamente (ad esempio, l’aumento della disoccupazione). Solo una buona teoria può dirci quale relazione c’è, ceteris paribus, tra una scelta di politica economica e le sue conseguenze sul sistema della produzione e della distribuzione. L’empirismo dei puri fatti non porta da nessuna parte.

In secondo luogo, bisognerebbe capire che è davvero molto sbagliato sposare l’occupazione per se: e che certo questo è tanto più curioso se a farlo sono intellettuali che costantemente dichiarano di farsi ispirare solo dalla realtà, rigettando ogni prospettiva di ordine ideologico e/o morale. D’altra parte, nella vecchia Ddr o nell’Urss d’antan la disoccupazione proprio non esisteva. C’erano invece i lavori forzati.

Non solo. Chi scrive è tra coloro che sarebbe davvero felice di veder crescere di colpo la disoccupazione in Italia grazie a massicci licenziamenti nel settore pubblico. È un’ipotesi del tutto irrealistica e certamente sarebbe una medicina amara (molto dolorosa, in particolare, per chi finirebbe per trovarsi sulla strada), ma aiuterebbe la crescita effettiva del Paese, che ha bisogno di più privato e meno spesa pubblica, più imprese e meno uffici parastatali.

Per sviluppare una qualsivoglia analisi sociale, bisogna insomma evitare non soltanto l’ingenuo positivismo che oggi domina larga parte degli studi economici, ma saper anche includere – con la massima consapevolezza, e con il coraggio di esporre le proprie tesi alle altrui critiche – quelle opzioni culturali ed etico-politiche che comunque sorreggono ogni interpretazione della realtà. Anche quelle di economisti avversi – a parole – ad ogni ideologia e fedeli sacerdoti di un positivismo che si vorrebbe oggettivo e senza partiti.

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1 Response

  1. Giustissimo Carlo, sottoscrivo. In quel pezzo, però, Krugman voleva soprattutto sbertucciare i Repubblicani che accusano Obama di non aver ancora prodotto i posti di lavoro promessi in campagna elettorale, dopo “ben” cinque mesi alla Casa Bianca. Da lì il giochetto della disoccupazione sotto Reagan. E’ evidente che occorre evitare i non sequitur e i modelli univariati, sperando però che anche il GOP riesca ad uscire dal buco di elaborazione in cui si è ficcato.

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