L’autogol di mostrare i denti alla Svizzera, dopo il referendum, e il precedente a cui guardare
La vittoria di misura in Svizzera del referendum sulle quote per stranieri, a cominciare dai cittadini dell’Unione Europea, esprime il segnale di un’Europa dei forti che si chiude sulle sue nuove paure. Ma al contempo è un errore esacerbarne il significato, come è avvenuto ieri. Prendere di petto gi svizzeri sarebbe un grave errore. Da parte italiana, poi, un clamoroso autogol.
Angela Merkel è stata cauta, ha detto di “prendere atto della volontà degli svizzeri”, ma ha aggiunto che “il risultato apre seri problemi”. Laurent Fabius, ministro degli esteri francese, è stato secco: “rivedremo le relazioni con la Svizzera”. La Commissione Eeuropea, in una nota molto dura, ha ricordato che con la Svizzera sussistono 7 grandi accordi bilaterali sottoscritti nel 1999, sul libero movimento delle persone e delle merci, sui trasporti, agricoltura, ricerca, procedure di acquisto pubblico e altro ancora. E poiché sono legalmente interconnessi, se cade la piena libertà di movimento delle persone con l’area europea sono destinati a cadere tutti. Il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, ha aggiunto che “potremmo dover tornare alle pattuglie di frontiera ai confini, non posso credere che Berna volgia questo”.
Prima di precipitare le cose, forse è il caso di capire. Certo, a vincere è stata la destra populista. Ma i referendum e la democrazia diretta sono uno degli – invidiabili – pilastri della libertà della Svizzera, una libera confederazione che affonda le sua radici nel giuramento sul pratone di Gruetli, il 1 agosto 1291. La Svizzera è tra i paesi al mondo con la più alta percentuale di stranieri rispetto alla popolazione, il 23% su un totale di 8milioni, una proporzione pari a quasi tre volte quella italiana. Negli anno ’90, la Svizzera ha spalancato le porte a decine di migliaia di asilanti dal Kosovo, come a centinaia di migliaia tra immigrati albanesi, esteruropei, africani. Non è un caso che i sì nel referendum siano stati alti nei cantoni con meno immigrati. Dovunque nel mondo, anche da noi, l’avversione è più alta dove è più bassa l’integrazione.
Ma il problema non riguarda certo solo o particolarmente i 70 mila frontalieri italiani, dei quali più o meno metà artigiani e autonomi, e l’altra metà invece occupati in imprese svizzere o italiane trapiantate in Svizzera ma risiedendo in Italia, e coperti da un accordo di ristorno fiscale tra Canton Ticino e Comuni italiani di residenza che occorreva rinnovare prima del referendum, invece di attendere colpevolmente come l’Italia ha deciso di fare. Sono esattamente questi frontalieri, ora, che pagheranno il conto se l’Italia continuerà a fare la faccia adirata.
C’è un problema nella Svizzera tedesca che riguarda il numero crescente di tedeschi e austriaci che vi si spostano per esercitare professioni liberali, e che affollano le università svizzere, in particolare medicina non riuscendo a superare le barriere al numero chiuso nei loro paesi. E, naturalmente, c’è la pressione esercitata dall’aumento a doppia cifra dell’immigrazione da Grecia, Spagna e Italia, in questi ultimi due anni di eurocrisi. Di qui la paura che welfare e servizi pubblici non bastino ai nuovi arrivati, esattamente come a Londra il premier Cameron ha annunciato di voler tagliare il welfare britannico anche ai cittadini della Ue.
Tuttavia vediamo che cosa ora farà il governo di Berna, nel corso dei te anni a disposizione dopo il referendum per realizzare nuovi accordi con Bruxelles. Se davvero si dovesse pensare a rigidi permessi di lavoro individuali per ogni paese di provenienza, senza autorizzazione a portare al seguito le famiglie, non solo la Svizzera si porrebbe in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fino al punto di dover lasciare il Consiglio d’Europa. Ciò significherebbe un’enorme difficoltà per la Svizzera di continuare ad attirare elevate professionalità in campo banco-finanziario, e nel managament delle moltissime multinazionali che in Svizzera hanno sede. E’ largamente impensabile, che avvenga una cosa simile.
C’è un precedente. In realtà, se gli accordi maggiori tra Svizzera e Ue sono i 7 ricordati ieri dalla Commissione Europea, il totale delle intese vigenti sulle materie più minute supera il migliaio. Sono stati redatti come razionale strategia alternativa, dopo il no prevalso in un altro referendum svizzero, nel 1992, all’ipotesi di entrare nello Spazio economico europeo (dove per esempio si colloca la Norvegia). Fu una scelta di enorme ragionevolezza. Ed è esattamente quella che deve entrare in campo ora, tra Berna e noi dell’Unione Europea. Sono accordi di cui la Svizzera ha enormemente beneficiato. E anche i paesi dell’Unione europea seguirono, dopo quel referendum, una linea intelligente, abolendo asd esempio per i cittadini svizzeri le code negli aeroporti che altrimenti sarebbero state loro destinate insieme ad asiatici e africani. Il complesso economico banco-industriale elvetico queste cose le sa benissimo, tanto è vero che ha tentato di orientare il voto in senso opposto all’esito del referendum. Ma ha perso. E ora dovrà rimediare.
Ha contribuito al sentimento di isolamento antieuropeo anche la brutta botta portata a segno in questi ultimi due anni da Germania e Francia, al seguito degli Usa, contro il segreto bancario per decenni presidio della forza off shore degli intermediari elvetici. Solo dalle transazioni finanziarie relative alle commodities si genera ormai il 10% del Pil svizzero, in concorrenza con Singapore, Dubai e Hong Kong. Ed è per non perdere questa forza crescente che la Svizzera ha dovuto negoziare con americani e OCSE la disponibilità a protocolli bilaterali di coperazione anche in campo fiscale, basati sullo scambio di informazioni.
L’Italia proprio su questo ha commesso un errore. Protesa al successo dell’emersione volontaria fiscale appena varata dal governo Letta, Roma ha preferito rinviare la chiusura degli accordi con Berna sui nostri frontalieri e sulla cooperazione tributaria. Per non pregiudicare maggiori entrate da emersione, cioè per fare più paura a chi ha patrimoni non dichiarati in Svizzera, il governo ha pensato fosse meglio rinviare la chiusura di accordi di cooperazione. Ora occorre rimediare e puntare al dialogo, non digrignare i denti. Quest’ultimo atteggiamento farebbe esattamente il gioco dei populisti. Che non ci sono solo in Svizzera. Ci sono anche da noi in Italia, e li conteremo nelle urne per il parlamento europeo, ci sono in Gran Bretagna con l’UKIP di Nigel Farage, in Germania con l’AfD, in Olanda con il PVV di Wilders, in Francia con la signora Le Pen.
Il referendum svizzero è certamente parte della più ampia crisi dell’Europa, riflette la mancanza di leadership e di visione nella realtà odierna del nostro continente. Ma andiamoci piano prima di trattare gli svizzeri come un popolo di xenofobi. Hanno resistito agli Asburgo come al Terzo Reich, e nel 1936 a Berlino gli atleti elvetici non omaggiavano Hitler col saluto romano, come i nostri e i britannici. Un’Europa migliore si può costruire solo rimediando insieme agli errori e alle paure. Ma siamo noi più poveri e arretrati ad aver più bisogno dell’integrazione con chi è più dinamico e avanzato, non viceversa. Siamo noi ad avere fisco e burocrazia lunari, ad avere molto da imparare dall libertà svizzera.











