24
Giu
2010

Martin Wolf e la Mugabenomics

Riceviamo da Silvano Fait (IHC) e volentieri pubblichiamo

Martin Wolf, columnist del FT, in un articolo ripreso e tradotto il 23 giugno dal sole24ore, di fronte ai tentativi di adozione di politiche di austerity da parte dei governi europei obietta che questi potrebbero ricondurre le economie lungo il sentiero della depressione. Suggerisce pertanto di adottare una politica estremamente espansiva di monetizzazione dei debiti pubblici, da neutralizzare una volta tornato il bel tempo con consistenti surplus di bilancio. Per quanto lo neghi – e a dire il vero, neanche con tanta convinzione – sta proponendo un passaggio dalla k-percent rule di Friedman alla Mugabenomics (v. Robert Mugabe politico zimbabwese). Vediamo allora di porci un quesito interessante per tempi interessanti: può fallire una banca centrale ? Assolutamente no, verrebbe da rispondere immediatamente. E sotto il profilo meramente tecnico c’è un fondo di verità: la banca centrale è l’unico ente produttore per monopolio di mezzi di pagamento a corso legale, le banconote sono irredimibili, e quindi una banca centrale supportata dallo stato non fallirà mai nel senso puramente contabile del termine. Pur tuttavia una banca centrale può fallire quando il bene che produce e che è imposto, nonostante il corso legale, venga sistematicamente evitato dagli agenti come mezzo di pagamento. Quando il prodotto (moneta) non è in grado di assolvere la sua funzione di facilitazione degli scambi, interpersonali, spaziali e intertemporali, si può considerare fallita una banca centrale quantomeno sotto il profilo istituzionale. Guerre e rivoluzioni sono sovente accompagnati da fenomeni di questo tipo.

Per arrivare brevemente a noi, è interessante chiedersi: il deterioramento del ruolo di una banca centrale può dipendere i) da ragioni di tipo quantitativo (ex. iperinflazione della base monetaria), ii) fattori di natura esogena (eventi politico – militari) oppure iii) vi possono anche essere delle ragioni tali da poter determinare un degradamento qualitativo della moneta ? Philipp Bagus espone delle interessanti considerazioni su quest’ultimo punto. L’analisi qualitativa della moneta è una strada relativamente poco percorsa sotto il profilo accademico ma particolarmente interessante in un contesto caratterizzato dalla produzione di moneta “irredimibile” proprio perché l’irredimibilità permette di occultare più facilmente disallineamenti nelle strutture dell’attivo e del passivo. L’attenzione attuale è focalizzata sui bilanci dei governi. Di poco interesse sembrano essere (a torto) quelli delle banche centrali. Sia la crisi dei subprime che la crisi greca (europea) hanno mostrato, accanto ad un’espansione quantitativa dei bilanci, un deterioramento della qualità degli attivi. Il Quantitative Easing è stato affiancato da un Qualitative Easing dove le banche centrali hanno accettato collaterali di qualità via via decrescente dalle più disparate istituzioni finanziarie, incrementando al tempo stesso la durata media delle attività di lending. L’unico asset non espandibile, né producibile a piacimento è l’oro. Non coglie affatto di sorpresa il suo incremento in termini di prezzo, sia contro il dollaro che contro l’euro (cfr. M. Seminero su chicago-blog).

Il deterioramento dei collaterali accettati, in un contesto globalizzato, dà vita inoltre a comportamenti di free riding: le banche internazionali attraverso le loro sussidiarie estere sono incentivate a rifinanziarsi presso le banche centrali dai regolamenti più laschi instaurando un circolo vizioso per cui il banchiere dalle maglie larghe finisce per ritrovarsi in portafoglio gli attivi peggiori.

FED e BCE in occasione delle recenti crisi finanziarie hanno fatto un uso senza precedenti dei loro poteri discrezionali, hanno speso un capitale di credibilità non indifferente e lo hanno fatto male. I bilanci di entrambe sono piuttosto carenti in fatto di trasparenza. In America questo ha portato richieste di maggiore disclosure, il cui apice è stato toccato nel novembre del 2009 con la proposta del deputato Ron Paul di sottoporre la Federal Reserve ad un’attività di auditing completa da parte del GAO. Ma la difesa dell’indipendenza della politica di turno dagli umori delle maggioranze temporanee ormai fa della segretezza un postulato imprescindibile: del resto chi mangia salcicce è meglio che non veda come queste vengono fabbricate, potrebbe cominciare a nutrire il dubbio che i banchieri finiscano per comportarsi come degli smaliziati politicanti in carriera.

Nella versione italiana del bilancio 2009 della banca centrale europea si può leggere (pag. 31): “Il Consiglio direttivo ha deciso che dopo il 31 gennaio 2010 avrebbe cessato di condurre

(a) operazioni di immissione di liquidità in dollari statunitensi, dato il miglior funzionamento

del mercato finanziario nello scorso anno, […] a fronte del calo della domanda e delle migliori condizioni nei mercati di approvvigionamento di liquidità in tale valuta”. Tre mesi dopo, in data 10 maggio, sempre la stessa BCE e la Federal Reserve di New York avrebbero concluso un accordo di currency swap illimitato ed attivabile a richiesta (per l’originale del testo cliccare qui). A pensar male si fa peccato, ma risulta arduo non immaginare che il combinato disposto delle misure a sostegno dei titoli governativi dell’eurozona e l’apertura contestuale di un currency swap non abbiano creato un corridoio attraverso il quale scaricare tutti gli attivi sovrani più o meno “troubled” dell’area euro “in bce corpore” e riposizionarsi più o meno puliti verso l’area dollaro (o verso assets in questo denominati) con somma gioia degli  “speculatori” (sempre additati al pubblico ludibrio in ogni crisi).

Concludo quindi con un paio di domante: siamo certi che una gestione qualitativamente così approssimata del proprio bilancio e dei propri attivi sia neutrale rispetto agli obiettivi di politica monetaria che una banca centrale come istituzione si pone ? O è forse arrivato il momento di adattare al central banking l’adagio di Cuccia e cominciare non solamente a contare, ma anche a “pesare” le poste di bilancio ? La risposta, però, per favore non chiedetela né a Krugman, né a Wolf. Andate dritti alla fonte: chiedete a Robert Mugabe.

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