29
Giu
2010

Quante pecche, nella riforma finanziaria USA

Venerdì 25 maggio alle 5.40 del mattino ora di Washington, dopo una stressante maratona di 48 ore pressoché in continuata, Camera e Senato degli Stati Uniti hanno chiuso l’accordo per una comune versione del Financial Bill, la riforma delle regole banco-finanziarie attesa da 21 mesi. Passerà alla storia come il Dodd-Frank Act, visto che il più del lavoro di coordinamento e mediazione è stato svolto dal deputato del Massachussetts Barney Frank, e da Chris Dodd capo della commissione Finanze del Senato. Non è un ottimo biglietto da visita. Si tratta infatti di due paladini storici di Fannie Mae e dei mutui facili di Stato, nonché delle grandi banche d’investimento USA, il cui modello di intermediazione ad alta leva e bassa congruità patrimoniale, grazie agli errori dei regolatori, ci ha regalato la più grave crisi dal secondo dopoguerra.

Il presidente Obama ha potuto così poche ore dopo sedersi al tavolo canadese del G8 e del G20 gonfio d’orgoglio, sventolando la riforma con affermazioni del tipo “ gli Stati Uniti passano finalmente dalle parole ai fatti, sulle nuove regole finanziarie”. E’ proprio così e di conseguenza è il caso di stappare spumante? Non proprio, a mio modestissimo avviso. Per almeno tre ordini di motivi.

Il primo è il segno politico di questa decisione: la sua unilateralità. Più di un anno e mezzo di chiacchiere a ogni G20 e foro multilaterale della necessità di nuove regole che, per essere davvero efficaci, devono essere condivise e il più possibile comuni tra le tre macroaree mondiali, America, Europa e Asia, ed ecco che alla fine Washinghton detta ancora una volta unilateralmente al mondo intero princìpi e regole dell’intera intermediazione finanziaria. Naturalmente, lo fa sulla base degli interessi delle proprie grandi banche, che non a caso hanno reagito positivamente alla notizia. Avendo pilotato il più degli emendamenti di mediazione grazie ai quali ogni dissenso è stato apparentemente spianato. Di fatto, Amministrazione e Congresso americani svuotano a proprio uso e consumo alcuni dei punti più delicati sui quali da un anno e mezzo è al lavoro il Financial Stability Board guidato da Mario Draghi, nonché l’agenda di rafforzamento patrimoniale bancario sulla quale lavora la BRI a Basilea. Si potrà dire: è l’America di sempre, bellezza. Ma fino a un certo punto. E’ la Cina  ad avere in mano il suo debito attuale e futuro. E ad averla sopravanzata come prima potenza industriale mondiale, col 22% del prodotto industriale planetario rispetto al 16%.

La seconda ragione è di merito. Sui punti più qualificanti, le decisioni americane non vanno nella direzione utile all’Europa. Né a Cina e Giappone. Né consentire alle grandi banche americane di continuare a utilizzare depositi – entro il 3% del capitale di vigilanza – in fondi speculativi, né la quotazione sui listini Usa dei prodotti derivati con obbligo di trattarli attraverso una clearing house- decisione che è intesa a spiazzare tutti gli altri mercati –  servono ad altro che alla supremazia a stelle e strisce. Idem dicasi per la tassa da 19 miliardi di dollari in un decennio a carico degli istituti con 50 miliardi e più di asset. La tassa serve a finanziare i costi regolatorii della riforma, più che a evitare nuove crisi. Appare anzi elevata la possibilità che rafforzi nelle grandi banche la certezza che verrebbero salvate comunque, inducendo dunque invece di evitare nuovi azzardi morali. Al di là del fatto che sul tema anche l’Europa è divisa al proprio interno, con Germania e Francia favorevoli visto che da loro il molto denaro pubblico speso in salvataggi bancari al momento non ha analoga prospettiva di un guadagno statale come negli Usa, e Paesi come l’Italia e l’intero blocco dei Paesi emergenti ai quali  la tassa non può piacere. Chi non ha dovuto salvare banche coi denari pubblici è molto più interessato a rafforzare gradualmente il capitale degli istituti di credito, non a tassarli mettendosi a rischio di ulteriori strette degli impieghi e di traslazione a famiglie e imprese del costo aggiuntivo.

La terza ragione è di metodo. In realtà, malgrado il Dodd-Frank Act sia di oltre 2mila pagine, leggendolo bene si comprende che saranno le autorità regolatorie americane, nei prossimi mesi e anni, a dover decidere esse come tradurre questi princìpi in regolamenti concreti. Le separazioni societarie e gestionali derivanti dal limite d’impiego del 3% del core tier 1 in proprietory trading, ad esempio, avvengono addirittura con scadenza al 2022: ci credo che le grandi banche americane festeggiano, sai di qui ad allora quante volte riusciranno a impedirlo….il che potrebbe essere anche e forse meglio della regola attuale stabilita dal Congresso tanto per nopn adottare seccamente la cosiddetta Volcker rule che muirava alla proibizione assoluta , ma il punto è che così tutto diventa aleatorio e appeso a rapporti di forza  che evolveranno  a seconda della bilancia di poteri reali tra banchieri e politica americana.

In piccolo, ho un modesto termometro per capire quanto il Reform Bill non sia un toccasana. Il senatore Russ Feingold si è rifiutato di votarlo: è un democratico, ma è stato l’unico a votare sia nel 1999 contro l’abrogazione del Glass-Steagall Act che separava banca commerciale e d’investimento, sia nel 2008 contro i salvataggi bancari. A mio giudizio, aveva ragione entrambe le volte, e la vecchia regola dice che non c’è due senza tre.



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4 Responses

  1. La riforma rischia di essere, soprattutto, dannosa dove non è inutile. Ricordiamoci che Lehman Brothers non era una banca commerciale e non è mai stata toccata quindi dalla cosiddetta “deregolamentazione”. Il blitz che trasformò in banche Goldman e Morgan Stanley sarebbe stato possibile sotto qualunque giurisdizione, i loro problemi sarebbero cresciuti ed esplosi sia nel vecchio ordinamento che nel nuovo – e probabilmente anche nel vecchissimo, ossia pre-Glass repeal.

  2. michele penzani

    …La riforma rischia di essere dannosa se si formasse ancora un corridoio ove far passare capitali di chi, nelle altre aree, formalmente fa apparire di “turarsi il naso”.

  3. eonia

    La riforma bancaria ormai serve poco o niente per salvare o per regolare ciò che né salvabile né regolabile lo è più. Un orpello di regolamentazione serve a poco quando non solo la presidenza ha gonfiato il debito per i suoi capricci, sperperando il denaro nei più disparati programmi nello stato dell’unione ma quando il capo supremo della moneta dichiara che la riserva frazionaria serve a nulla e quando i tassi vengono schiacciati a botte del 10% giornalmente.
    Per come la vedo io, che non pretendo alcuna ragione, è meglio che la regione europea abbia preso le distanze dai programmi americani in sede di G-20. Una gestione del denaro così fallimentare come è stata svolta e si svolge con la presidenza Obama è difficile riscontrarla in altri momenti di recessione.
    Il problema non sono proprio i derivati ma il modo in cui si gestisce il denaro. Si crea dal nulla e si veicola nel sistema creditizio che opta per depositarlo presso la banca centrale mentre dovrebbe scorrere nell’economia reale. Il credito per le carte di debito ha costi a doppia cifra. Proprietari che possono pagare i loro mutui optano per il default strategico sui loro mutui alimentando la spirale del ribasso immobiliare. Se qe deve essere almeno si acquistassero e si assegnassero le case a chi il denaro non lo ha ma ha bisogno di una abitazione.
    Una politica alla deriva di tali proporzioni è difficile governarla ma ancor più difficile è accettare lezioni ex cattedra.
    Per quanto concerne Draghi e BRI forse lo sgarbo diventa irrilevante.
    Si è deciso che ciascuno deve fare quello che crede più opportuno senza soffocare la ripresa. Linguaggio diplomatico che mette tutti d’accordo in quanto tutti hanno ragione
    Ogni giorno sotto i nostri occhi sta morendo qualcosa ad iniziare dal vocabolo globalizzazione.

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