8
Lug
2015

Grecia: comunque finirà, finirà male?—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

In questi giorni si parla molto Grexit: uno scenario preoccupante che, dopo il referendum, diventa sempre più probabile. Della scadenza del 30 giugno si è parlato molto: il governo greco non ha onorato la maxi rata di 1,6 miliardi di euro del Fmi ed è quindi, tecnicamente, in default nei confronti dell’organismo internazionale. Meno nota è una seconda scadenza, di fatto ancora più importante: il prossimo 20 luglio scade un’altra rata da 3,5 miliardi dovuta alla Bce. Che la Grecia non onori anche questo debito è quasi certo: vuoi perché i soldi non ci sono, vuoi perché per il governo Tsipras sarebbe come accettare un “ricatto” (in Grecia i prestiti a tasso agevolato li considerano così), quindi un suicidio politico.

Le conseguenze economiche di questo mancato pagamento sarebbero però drammatiche: la Bce sospenderebbe immediatamente l’Ela, la liquidità d’emergenza che ha consentito nei giorni scorsi giorni prelievi per un massimo di 60 euro (più spesso 50). Già ieri il Consiglio dei governatori della Bce ha deciso di non concedere nuovi fondi, mantenendo immutato il tetto di 88,6 miliardi di euro per l’Ela. Non solo: ha applicato il cosiddetto haircut sulle garanzie che le banche greche danno in cambio della liquidità d’emergenza. Visto che la Grecia si trova in una situazione di default – è il ragionamento di Mario Draghi – i titoli che ci dà in cambio del denaro valgono meno. Un ragionamento che rende chiaro il cambio di atteggiamento verso la Grecia che si respira in Europa: dopo il referendum Atene non è più vista come la grande malata d’Europa da curare, ma come la paziente che, rifiutando le cure, va lasciata al proprio destino.

Un destino, dicevamo, non proprio piacevole. Quando i soldi finiranno (già in questi giorni le banche sono chiuse e lo resteranno almeno fino a domani), la Grecia sarà costretta a stampare di nuovo una propria moneta con corso legale. Con quali risultati? Gli economisti non sono concordi. C’è chi, come il tedesco Hans-Werner Sinn, direttore dell’Institute for Economic Research di Monaco, ritiene invece che la svalutazione della dracma finirà col fungere da volano agli investimenti da volano per gli investimenti, alimentando crescita e occupazione.

Sul lato opposto c’è Domingo Cavallo che, da una prospettiva privilegiata (è stato ministro dell’Economia durante il primo default argentino), vede l’uscita dall’euro come una scelta a dir poco disastrosa: «Quel che ha prodotto un netto deterioramento dei salari reali e dell’attività economica in Argentina – scrive – è stata la conversione obbligatoria dei depositi in dollari in pesos al precedente tasso di scambio. Questa conversione forzata è stata decretata nel gennaio 2002, dopo la caduta del governo di Fernando de la Rúa. Questa procedura veniva chiamata ‘corralón’ che vuol dire “forte recinto”. Il ‘corralón’ ha provocato un drastico aggiustamento fiscale e il deterioramento del tenore di vita degli argentini come conseguenza dello scoppio dell’inflazione seguito dalla fortissima svalutazione del peso. È stato il peggiore e il più ingiusto fenomeno di ridistribuzione della ricchezza mai avvenuto nella storia dell’Argentina».

Che la bestia nera dell’inflazione possa erodere i salari reali e i risparmi dei greci che ancora si sono salvati è piuttosto evidente. Anche perché, fra Grecia e Argentina, c’è una differenza sostanziale che potrebbe rendere la svalutazione greca ancora più malsana: mentre l’Argentina dopo il default ha effettivamente goduto di una ripresa trainata dal vantaggio competitivo della moneta, la Grecia potrebbe non beneficiare dello stesso effetto, dal momento che esporta pochissimo.

Tanto che anche Thomas Mayer, ex capo economista di Deutsche Bank e attuale direttore dell’istituto Flossbach von Storch di Colonia, propone di restare nell’euro, seppure in un modo del tutto particolare. Intervistato sabato scorso dal Corriere della Sera, Mayer ha suggerito la “soluzione Montenegro”: Paese che non fa parte dell’Eurozona né dell’Ue ma usa l’euro come moneta estera a corso legale. Una via intermedia che si potrebbe realizzare a condizioni ben precise: «I greci dovrebbero smettere di non pagare le tasse e i debiti che hanno con le banche […] e lo Stato dovrebbe mantenere un surplus primario».

Insomma di soluzioni semplici, che permettano di uscire dall’euro e stare a galla senza fare sacrifici, non ce ne sono. Quel che traspare – chiaramente – da tutte le analisi è il fatto che la Grecia, uscendo dall’euro, subirebbe danni economici rilevanti. In che termini? Secondo uno studio di Ubs, l’uscita dall’euro comporterebbe un calo del Pil del 45% e una svalutazione del 60%. Dati a dir poco drammatici se pensiamo che il calo di quasi la metà della ricchezza potrebbe raddoppiare un tasso di disoccupazione, già oggi superiore al 25%. E la svalutazione, come avviene quasi sempre, comporterebbe inflazione.

Nel caso greco ovviamente, in assenza di crescita, si dovrebbe parlare di stagflazione. I greci si troverebbero verosimilmente fra le mani una moneta priva di valore e dovrebbero fare i conti con un’economia di nuovo in rapida decrescita, dopo il buon +0,8% di Pil del 2014. Non solo: il venir meno delle garanzie europee renderebbe più difficile trovare liquidità sui mercati (cosa che devono fare anche gli Stati a moneta “sovrana”) per finanziare la spesa pubblica. E senza soldi la strada verso il default sarebbe irrimediabilmente spianata.

Riflettano su questo le cicale che sostengono che l’uscita dall’euro non farebbe altro che bene alla Grecia: le conseguenze negative a breve termine sono drammatiche e certe, quelle positive a lungo termine poco convincenti e tutte da dimostrare.

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3 Responses

  1. Robert Fripp

    Analisi brillante, che mi trova del tutto concorde.
    i sostenitori dell’uscita dall’euro (anche per l’Italia, intendo) credo dovrebbero riflettere attentamente sulle conseguenze di questa scelta

  2. Francesco_P

    Io sono piuttosto pessimista sia che la Grecia rimanga nell’euro sia che la Grecia esca dalla moneta unica.
    Nel primo caso l’Europa dovrebbe sottostare al continuo ricatto greco: “se vuoi che ti restituisca 1 miliardo, devi darmene 2 perché io ho bisogno di un miliardo per tirare avanti”. L’Europa finirebbe per svenarsi e la massa dei crediti inesigibili aumenterebbe a vista d’occhio. La Grecia non dovrebbe cambiare.
    Nel secondo caso temo che la Nuova Dracma faccia la fine del marco della Repubblica di Weimar per la riluttanza dei greci a cambiare le loro abitudini. L’iper-inflazione finisce per allontanare gli investitori, anziché attrarli come quando ad un cambio favorevole si abbinano atteggiamenti pragmatici da parte della pubblica amministrazione.
    Euro sì, euro no, non si sfugge: i problemi della Grecia sono tutti connessi allo statalismo e all’assistenzialismo diffusi. Quando i greci si troveranno con la nuova dracma iper-svalutata e dovranno arrangiarsi per mettere assieme un piatto di minestra, capiranno la lezione?

  3. Anonimo

    l’Italia non è la Grecia, e l’euro non è l’unica soluzione percorribile. I media veicolano ad arte il messaggio tedesco teso a terrorizzare i Paesi dell’eurozona nell’ipotesi volessero uscire dalla trappola monetaria.

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