25
Mar
2013

Lavoro: se dovesse cadere anche l’alibi cinese

“Le fabbriche cinesi fanno fatica a tenere la loro forza lavoro” è il titolo di un articolo pubblicato qualche giorno fa dal Financial Times (FT). Sono diversi i motivi che riducono la forza lavoro che le manifatture cinese possono impiegare. Il primo è una conseguenza delle politiche di restrizioni alle nascite: nel 2012 per la prima volta la popolazione cinese in età da lavoro (15-59) si è ridotta. Secondo motivo: con il benessere sono cambiate le preferenze dei lavoratori (FT, Quality of life: discovering the joys of free time). I dipendenti cinesi richiedono condizioni di lavoro migliori, organizzano scioperi per ottenerle e molti giovani non vogliono più lavorare nell’industria, ma gestire una propria impresa o lavorare nel terziario (FT, China: beyond the conveyor belt). Infine, alcuni interventi del Governo cinese aumentano il costo del lavoro; Pechino, ad esempio, vorrebbe innalzare il salario minimo (FT, Beijing vows to raise minimum wages). 

La conseguenza più rilevante di tutte queste dinamiche è che il costo del lavoro cinese sta aumentando, in alcuni casi con tassi annuali a due cifre. Questa trasformazione della Cina non dovrebbe essere una sorpresa. Gli enormi flussi di capitali e i posti di lavori che negli ultimi 30 anni sono transitati dall’Occidente alla Cina, dovevano prima o poi trasformare anche un Paese affamato da decenni di comunismo; un Paese che negli anni Ottanta, quando cominciò ad aprirsi al commercio internazionale, presentava centinaia di milioni di poveri disponibili a qualsiasi condizione di lavoro. Eppure, la minaccia cinese è stata a lungo un alibi prediletto in Italia da tanti soggetti, politici e non,  che vedevano nel lavoro a basso costo, nella “concorrenza sleale”, nelle delocalizzazioni,  la causa irreversibile di ogni male dell’economia italiana, richiedendo interventi statali e barriere commerciali.

Ciò significa che i posti di lavoro che negli scorsi anni sono stati trasferiti dall’Italia in Cina torneranno immediatamente indietro? Certo che no. La differenza nei costi di lavoro italiano e cinese resta alta e molti Paesi asiatici aspettano solo di prendere il posto della Cina (seppure in scala ridotta, visti i numeri della popolazione cinese) come la Cambogia (FT, Cambodia benefits from rising China wages), Bangladesh e Vietnam.

Ma l’aumento del costo del lavoro cinese ha due conseguenze positive per l’occupazione italiana: riduce le delocalizzazioni in Cina [1] e, a causa dell’aumento di prezzo dei prodotti cinesi, alleggerisce la concorrenza per i produttori italiani. L’aumento nel costo del lavoro cinese riaccende cioè un po’ di speranza che nuovi posti di lavoro nei settori ad alto utilizzo di lavoro possano ritornare, o almeno restare, in Italia. E ciò sarebbe tanto più vero se contemporaneamente il costo del lavoro italiano  si riducesse.

A questo proposito è fondamentale ricordare che chiedere una riduzione del costo del lavoro italiano non corrisponde a chiedere di ridurre la busta paga di un lavoratore italiano. Tre sono le componenti principali nelle quali si può scomporre il costo totale del lavoro:

–          Salario netto: quanto va in tasca al lavoratore.

–          Cuneo fiscale: somma di imposte e contributi sociali.

–          Costi normativi: un tipico esempio sono i firing costs, i costi associati al licenziare un lavoratore[2].

Assumendo di non volere modificare il salario netto, già solo con la riduzione del cuneo fiscale si potrebbe arrivare, al limite, a dimezzare il costo (monetario) del lavoro italiano. Il cuneo fiscale in Italia, differenza percentuale tra il costo del lavoro e il salario netto, è molto superiore alla media OCSE. Più precisamente, nel 2011 un dipendente senza familiari a carico e con salario nella media nazionale portava a casa il 52,4% di quanto costasse al datore di lavoro. Se questo dipendente costava all’impresa 100, 47,6 andavano in contributi e imposte e 52,4 in tasca sua. Questo enorme cuneo discale, ostacolo alla competitività italiana, è superiore di 10 punti percentuali, in media, rispetto a quello che si osserva nei Paesi OCSE.

In secondo luogo la riduzione del costo del lavoro italiano può passare attraverso una riduzione dei costi normativi. Una normativa del lavoro ipertrofica, unita ad un’implementazione giudiziaria lenta e imprevedibile, genera incertezza e ogni imprenditore sa che l’incertezza è un costo economico vero e proprio. L’incertezza nasce ad esempio dall’assenza di un indirizzo univoco per la gestione delle relazioni sindacali oppure dalle cause di lavoro. L’incertezza normativa, infine, non migliora le condizioni di vita di un dipendente, e pure aumenta il costo di assumere un lavoratore, scoraggiando così la creazione di nuovi posti di lavoro.

Forse tra qualche anno, se il lavoro a basso costo cinese non sarà più una minaccia, sarà evidente che a distruggere i posti di lavoro italiano non è stata tanto la Cina o chi per essa. Il Lavoro italiano, piuttosto, è ostacolato da una tassazione e da una legislazione onerosa e inefficiente. Nuovi posti di lavoro richiedono una liberalizzazione della contrattazione di lavoro, semplificazione delle normative statali (non solo relative ai dipendenti, ma anche per fare impresa), riduzione della spesa pubblica per poter ridurre stabilmente la pressione fiscale. A meno che l’Italia non voglia cogliere quest’occasione, ma continuare a nascondere la crisi del Lavoro dietro qualche altro alibi.

 

[1] Cfr. Sole 24 Ore, Contrordine delocalizzazione: adesso tornare indietro si può, 18 marzo 2013

[2] Quello dei firing costs è stato un caso molto rilevante per il mercato del lavoro italiano. Si legga, ad esempio, il caso di un licenziamento impugnato che ha portato il datore di lavoro a pagare un risarcimento pari a 11 anni di retribuzione e contributi sociali, mettendo a rischio la sopravvivenza di una piccola impresa. Oggi, le ultime riforme del lavoro sono intervenute su questo problema, ma restano ancora perplessità nell’implementazione (Sole 24 Ore, Giustizia in altalena sul rito Fornero, 9 marzo 2013)

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1 Response

  1. Francesco_P

    Man mano che l’economia di una nazione evolve verso un sistema industriale più forte e maturo, le richieste salariali tendono a crescere. Questo non è necessariamente un male perché la maggiore disponibilità economica della popolazione attiva aiuta a far crescere la domanda interna e, quindi, a creare nuovo lavoro e nuova ricchezza.

    L’Italia deve guardare con preoccupazione all’evoluzione del sistema industriale cinese per via della maggiore qualità dei prodotti e della capacità di innovazione che la grande potenza asiatica è in grado di esprimere. Se la Cina non potrà più praticare i “prezzi minimi” come la Thailandia o il Bangladesh, la Cina è già in grado, e sarà ancor più in grado in futuro, di vendere prodotti altamente appetibili per i contenuti ed il rapporto qualità-prezzo.

    Se le imprese italiane esportatrici non sono più in condizioni di crescere a causa delle zavorre burocratica, fiscale e creditizia, è chiaro che i cinesi saranno ben presto in grado di sostituirci in molte aree di eccellenza: componentistica, macchine utensili, meccanica di precisione, ecc. Magari non ci sostituiranno nel lusso o nel design creativo, però su tutto il resto sì.

    Senza introiti da export viene meno un possente stimolo alla domanda interna in termini di servizi, subforniture e anche di salari. Mai dimenticarsi delle verità semplici che appaiono scontate: crescita genera nuova crescita, crisi genera nuova crisi.

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