13
Apr
2012

L’autoesclusione dell’Italia dal brevetto unitario

Un freno allo sviluppo economico del nostro paese e una ulteriore possibilità perduta

di Antonio Salerno e Serena Sileoni

L’Unione europea si sta muovendo rapidamente verso l’istituzione del Brevetto Unitario, un titolo brevettuale valido in tutti gli Stati dell’Unione, che porterà molti vantaggi alle industrie europee che più investono nel settore della ricerca.

L’Italia e la Spagna, determinate a difendere la lingua nazionale nel contesto del Brevetto Unitario, hanno presentato ricorso alla Corte di giustizia, rimanendo così escluse dalle possibilità di sviluppo economico che l’adesione al Brevetto comporta.

Eppure, rinunciando al ricorso e grazie al prestigio internazionale di cui gode il governo Monti, l’Italia potrebbe autorevolmente proporre Milano come sede del Tribunale che giudicherà sulla contraffazione in merito al Brevetto Unitario, un’istituzione europea di grande importanza, che porterebbe da sola un indotto e uno sviluppo economico di gran lunga superiore a quello di una Expò o di una Olimpiade, tanto per citare due eventi di cui si è fatto molto clamore sui giornali.

Il nostro paese, però, è così avvezzo, specie negli ultimi tempi, a coniugare il termine “crescita” con quello di “rigore” da rischiare di farsi sfuggire occasioni simili di sviluppo, che potrebbero dare – molto più di nuove tasse e ulteriori sacrifici – uno stimolo all’economia, oltre che una rinnovata centralità al nostro paese.

L’idea di un brevetto unico per l’Europa nasce nel 2000, con una proposta di regolamento del Consiglio avanzata a seguito della redazione del Libro verde sul brevetto comunitario e il sistema dei brevetti in Europa del 1997, e si affianca a una procedura di armonizzazione delle legislazioni sui brevetti nazionali che ha avuto il culmine nella Convenzione di Monaco del 1973 sul Brevetto Europeo, firmata da molti paesi membri dell’Unione e anche da paesi come la Svizzera, la Norvegia e la Turchia.

La Convenzione di Monaco, stabilendo una procedura unificata per la concessione del brevetto europeo, ha istituito l’Ufficio del Brevetto Europeo o EPO (European Patent Office), con sedi a Monaco, L’Aja, Berlino e Vienna, il quale rilascia tali titoli in grado di divenire brevetti nazionali, secondo la disciplina statale di ogni paese.

Quindi il Brevetto Europeo, dopo una concessione unificata, si scinde in una miriade di brevetti nazionali, per ognuno dei quali bisogna pagare tasse differenti, depositare una traduzione e, nel caso di contraffazione, fare una causa di fronte ad un tribunale nazionale, la cui sentenza vale solo in quel paese. Volendo ad esempio perseguire un contraffattore in Italia, Francia e Germania, oltre ad avere un brevetto europeo convalidato in questi tre Stati, sarà necessario fare causa sia in Italia, che in Germania, che in Francia, con un enorme dispendio economico.

Cosa diversa da questa procedura già in vigore è la creazione di un brevetto europeo, e non un sistema unico di rilascio di brevetti, che consentirà all’Unione di avere un proprio regime giuridico di protezione delle invenzioni su tutto il suo territorio, anziché sui singoli Stati, complementare ai sistemi di protezione nazionali.

I vantaggi di un brevetto europeo, anziché di una procedura europea di riconoscimento dei brevetti nazionali, si contano in termini di riduzione dei costi per la protezione del brevetto, in specie quelli legati alla traduzione e al deposito, e di semplificazione della procedura di riconoscimento e tutela delle invenzioni.

Del brevetto europeo potranno quindi avvantaggiarsi le imprese che investono in ricerca, sia perché ci sarà una drastica riduzione dei costi di brevettazione, sia perché il giudizio sulla contraffazione dipenderà da un Tribunale unico e speciale per l’UE, le cui sentenze saranno efficaci in tutta l’Unione europea.

Un passo importante verso il brevetto europeo è stato compiuto il 10 marzo 2011, quando il Consiglio ha autorizzato una cooperazione rafforzata nel settore della creazione di una tutela brevettuale unitaria, a cui hanno aderito tutti i paesi tranne Italia e Spagna, arroccate su posizioni di difesa circa l’uso della lingua nazionale, e contrarie alla scelta europea dell’accreditamento esclusivamente di inglese, francese e tedesco nelle procedure relative ai brevetti.

Contro tale scelta, il precedente governo italiano – come detto – ha depositato ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che l’attuale governo ha ribadito di voler mantenere, senza peraltro voler prendere atto che la battaglia per la dignità linguistica dell’italiano è, quanto meno, una battaglia di retroguardia, specie in un settore così internazionalizzato come quello dei brevetti.

La battaglia sulla lingua andava condotta semmai nel senso di raggiugere una semplificazione linguistica e quindi chiedendo di avere un’unica lingua di procedura, l’inglese, invece di tre, con adeguate compensazioni economiche per i paesi di lingua diversa.

Più difficile è capire se il governo italiano in carica vorrà entrare o meno nella cooperazione rafforzata, dal momento che, mentre nella rassegna stampa del Dipartimento per le politiche europee si riportano le dichiarazioni del ministro Moavero rese al Consiglio UE nel dicembre 2011 di voler entrare nella cooperazione, pur non revocando il ricorso, dal ministero dello sviluppo economico si apprende, con nota del 21 febbraio 2012, che lo stesso ministro avrebbe puntualizzato la volontà di rimanerne fuori, assecondando le spinte protezionistiche, che mirano ad assicurare a pochi una rendita di posizione, con grande danno per chi è capace e sa competere sul mercato.

Ad aggravare l’incertezza della posizione italiana e il senso di auto-esclusione derivante dal ricorso, sta l’incoerenza con cui il governo chiede con insistenza che sia Milano la sede del Tribunale unico, con una proposta che sembra poco credibile alla luce dell’emarginazione che l’Italia si è inflitta dal sistema europeo unico di brevetti.

Benché formalmente la mancata adesione alla cooperazione rafforzata non comporti una rinuncia alla candidatura di una città italiana come sede del Tribunale, è chiaro che, da un punto di vista politico e diplomatico, sarà più difficile perorare la causa di Milano, o di qualsiasi altra città dello Stivale, come sede del Tribunale mentre pende di fronte alla Corte di giustizia un ricorso proprio contro il sistema su cui quel Tribunale avrebbe giurisdizione.

È evidente che il governo, e un ministro “europeo” come Moavero Milanesi, sappiano bene che diventare sede di un’importante istituzione europea recherebbe prestigio all’Italia, le darebbe qualche punto in più quanto a centralità nell’Unione europea (argomento non irrilevante, specie in questo momento) e darebbe anche un impulso economico, pure in termini di indotto, all’Italia e alla città ospitante il Tribunale.

Sarebbe dunque il caso di non lasciarsi sfuggire questa opportunità, ritirare il ricorso, entrare nella cooperazione rafforzata e dimostrare all’UE di poter fare affidamento sul nostro paese.

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11 Responses

  1. Mi rendo conto che non è questo l’argomento del post, e posso anche essere d’accordo che in un’ottica in cui ci teniamo i brevetti è meglio avere quello unitario, però se facciamo un attimo un passo indietro i brevetti andrebbero aboliti e basta (per chi non lo conosce segnalo l’ottimo “Abolire la proprietà intellettuale” di Boldrin e Levine).

  2. Guido Gambardella

    Sarei perfettamente d’accordo se non fosse per le tre lingue imposte. Su quali basi solo tre e proprio quelle tre? L’articolo non cita quali, però scommetto di poter indovinare.

    Che senso ha, se non rendere difficile la vita ai non-francesi e ai non-tedeschi?
    Siamo sicuri che ci fosse e che non sia stata tentata la via per usare il solo inglese?

  3. Guido Gambardella

    Leggo su “La Stampa” che il ricorso non preclude le aziende italiane dal richiedere il brevetto europeo, anche se pare che le costringa a presentare un’altra domanda per il proprio Paese.

    Il costo per l’applicazione dovrebbe essere, stando a quanto dice il Commissario europeo per il mercato interno, di 2.500 euro, che potrebbero diventare 680 con la traduzione automatica. Ciò significa che 1820 euro sono per le traduzioni. Riducendo le lingue da tre a una, si avrebbe un risparmio di 1212 euro, o, più probabilmente, di 1820 euro.

    Che invece uno dei centri di potere più inutili e dannosi che abbiamo, ovvero le camere di commercio, siano contrarie, è un altro paio di maniche, ma un articolo ben documentato e non semplice riassunto di quanto pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” dovrebbe riportare anche questo, altrimenti la posizione italiana sembra totalmente assurda.

    Mi aspetto una maggior precisione ed una minor faziosità in quanto leggo su questo blog.

  4. Articolo interessante, ma per molti versi non condivisibile. È vero che il brevetto unitario è una buona idea, ma il regime linguistico scelto è certamente discriminante. È bene partire dai dati:
    1. Dal 2006 al 2010, quasi il 50% dei brevetti europei rilasciati a imprese europee sono andati a inventori di lingua tedesca, seguiti dai francofoni (17%) e dagli italofoni (7,5%). Gli inventori europei di lingua inglese arrivano solo al quinto posto (6,8%), dopo gli olandesofoni (Attenzione parlo di inventori europei). L’EPO si finanzia con gli emolumenti di chi usa i suoi servizi, ed quindi è lecito chiedersi perché gli italofoni e gli olandesofoni, che ormai brevettano e pagano più degli europei anglofoni, dovrebbero accettare di non essere trattati come i loro concorrenti europei anglofoni. Chi usa l’inglese sono anzitutto le imprese americane e giapponesi, ma non dimentichiamo che un brevetto unitario dovrebbe essere funzionale agli interessi delle imprese europee anzitutto, non nordamericane o asiatiche.
    2. Le imprese italiane puntano sempre più a presentare, in prima battuta, le domande di brevetto europeo in lingua italiana. Per esempio, la percentuale di domande di brevetto europeo depositate direttamente all’EPO in italiano è salita dal 13% al 64,5% fra il 1980 e il 2010 (in gergo si parla di “via Euro-diretta”). Ciò dimostra che le imprese italiane preferiscono usare l’italiano.
    4. Le micro e le piccole imprese italiane da sole rappresentano il 99,6% delle imprese italiane, danno lavoro al 69% dei dipendenti, e creano il 56.4% della ricchezza nazionale. Ebbene, molte di queste imprese non hanno all’interno le competenze linguistiche necessarie per accedere a un sistema brevettuale in francese, inglese o tedesco. Perché il governo dovrebbe appoggiare un regime linguistico che va contro gli interessi delle sue imprese?
    5. Il mondo della proprietà intellettuale va verso un maggiore plurilinguismo. Nel 2008, l’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale ha aggiunto coreano e portoghese come lingue di pubblicazione del sistema PCT. Risultato? Le imprese coreane hanno risparmiato spese di traduzione per 18 milioni di franchi svizzeri fra il 2009 e il 2010.

    Alla luce di questi dati, sarebbe utile che gli autori di questo articolo chiarissero meglio perché difendere l’italiano sarebbe una battaglia di retroguardia. Perché invece non accettiamo l’idea che difendere l’italiano in sede internazionale altro non è che un modo di difendere gli interessi concreti dell’industria italiana?

    Letture consigliate:
    Gazzola, M. “Conti precisi sull’importanza economica delle lingue nei brevetti industriali”, La Crusca per Voi, n. 42, aprile, p. 8-10 (2011).
    Gazzola, M. “Quali lingue per il brevetto dell’Unione europea? Un’analisi economica”, La Crusca per Voi, n. 41, ottobre, p. 7-10 (2010).

  5. Antonio Salerno

    Gentile Michele Gazzola,

    grazie dell’interesse per l’articolo.
    Le rispondo cercando di essere sintetico.

    1) Le aziende Italiane depositano all’EPO (European Patent Office) i brevetti in Italiano, così come depositano all’EPO le opposizioni o gli appelli in Italiano, in quanto la Convenzione sul Brevetto Europeo prevede saggiamente uno SCONTO sulle tasse, proprio per compensare il fatto che l’Italiano non è una delle tre lingue ufficiali e per questo successivamente va depositata una traduzione in Inglese, Francese o Tedesco. Depositando direttamente in una lingua ufficiale non si avrebbe diritto allo sconto.
    Mi stupisco del fatto che, in base ai suoi dati, solo il 64,5% delle aziende italiane abbiano depositato una domanda europea in Italiano. Evidentemente il restante 35,5% non ha capito nulla.
    [letture consigliata: European Patent Convention Rule 6, Rfee 14(1)].

    2) Sostenere che le povere piccole imprese italiane, date le loro dimensioni, non conoscano l’Inglese è quasi come dire che non sanno usare il computer. Se le nostre industrie, per quanto piccole, sono capaci di innovare e stabilire rapporti commerciali con i diversi paesi del mondo, sicuramente conoscono l’Inglese e sanno utilizzare il computer e l’e-mail.
    Se non lo sanno fare farebbero bene ad impararlo in fretta, altrimenti non credo che la traduzione in Italiano dei brevetti stranieri potrà compensare carenze tanto menomanti.
    [Al contrario della precedente questa è una mia opinione personale e non ho letture da consigliare].

    3) Il PCT non concede brevetti. Si tratta di un sistema che consente di estendere nei paesi aderenti (quasi tutti i paesi del mondo) una domanda di brevetto rivendicando la priorità del primo deposito. La pubblicazione NON avviene in diverse lingue, ma in UNA SOLA lingua tra una delle lingue ufficiali (tra le quali è compreso anche il Coreano). La pubblicazione serve per stabilire la data a partire dalla quale possono essere fatti valere i diritti di brevetto.
    Se la lingua di pubblicazione non è una delle tre lingue ufficiali dell’EPO, per far valere la così detta “provisional protection” in uno degli stati aderenti alla Convenzione sul Brevetto Europeo bisogna comunque depositare una traduzione in una delle tre lingue ufficiali e in Italia anche la traduzione in Italiano delle rivendicazioni. Evidentemente le aziende coreane che hanno pubblicato in Coreano risparmiando sulla traduzione non erano interessate ad avere una protezione in paesi dove il Coreano non è parlato, oppure hanno dovuto depositare la traduzione in Inglese o in altre lingue in un secondo tempo.
    Relativamente alla sua osservazione, comunque, non mi è chiaro se lei auspica che noi impariamo a leggere i brevetti in Coreano. Per quanto mi riguarda, mi accontenterei di leggerli in Inglese.
    [letture consigliate: PCT R.48.(3a), EPC Art. 67 e Art. 153(4)]

    4) L’EPO si finanzia con le tasse di chi deposita, prevedendo compensazioni economiche per coloro che sono residenti in o hanno la nazionalità di paesi appartenenti alla Convenzione e che non hanno come lingua ufficiale una delle tre lingue ufficiali dell’EPO. Questa compensazione NON esiste quindi per aziende Cinesi o Giapponesi che volgiano brevettare in Europa. Le aziende europee hanno quindi un vantaggio o una compensazione sulle aziende straniere. Pretendere che ogni brevetto venga tradotto in ogni lingua europea non sarebbe di aiuto alle imprese italiane, ma sarebbe in generale un ostacolo per tutti alla brevettazione in Europa, con un aumento enorme dei costi, che forse le grandi aziende potrebbero affrontare, ma le piccole aziende (italiane) no.
    [letture consigliate EPC Art.14(3)]

    5) Con via “Euro-diretta” si intende normalmente la possibilità di scendere in una fase nazionale provenendo da un deposito PCT senza passare per una domanda di brevetto europea. Questo per l’Italia non è consentito. Per altri paesi come la Germania è invece consentito. Non mi dilungo a spiegare perché. Può essere utile nel caso un titolare sia interessato ad avere un brevetto in soli uno o due paesi europei.
    In ogni caso non c’entra niente con la traduzione.
    [letture consigliate: PCT Art. 45(2), Derk Visser “The Annotated European Patent Convention” H. Tel publisher, sezione relativa al PCT par. 2.9.1.2 ].

    6) L’accordo di Londra, che riduce la necessità di traduzione per i paesi aderenti (non mi dilungo spiegare qui i vari casi), ha consentito un grande risparmio sulle traduzioni, a vantaggio delle imprese che brevettano e che quindi probabilmente preferiscono investire i loro soldi in ricerca e sviluppo, piuttosto che nelle traduzioni.
    L’Italia non ha aderito all’accordo di Londra, ufficialmente allo scopo di difendere la lingua italiana, ma più verosimilmente dietro la spinta a non intaccare una rendita di posizione di molti studi brevetti in Italia, che guadagnano sulle traduzioni, in genere facendole fare fuori e apponendo poi il loro timbro e il loro ricarico.
    Si tratta di un lavoro a basso valore aggiunto e in gran parte inutile o meglio utile principalmente al portafoglio di alcuni.
    [letture consigliate: London Agreement, EPO Official Journal 2001, 550; OJ 2008, 123]

    Del suo intervento non mi è chiaro se lei auspichi che tutti i brevetti siano tradotti in tutte le lingue, con costi pazzeschi, anche per brevetti che per tutta la loro vita non verranno mai azionati in una causa di contraffazione, o che noi impariamo a leggere i brevetti pubblicati dall’International Buro del PCT in Coreano.

    In campo scientifico il linguaggio comune è quello della matematica e della fisica. In tutto il mondo la lingua delle conferenze internazionali di carattere scientifico è l’Inglese. Qualsiasi rivista internazionale di un certo livello nel settore ingegneristico (quello di cui mi occupo io) è in Inglese. Questo sarebbe sufficiente per scegliere l’Inglese come lingua comune anche nel campo della Proprietà Industriale.
    In Europa la Germania deposita il maggior numero di brevetti, ma sicuramente, nei paesi europei di lingua non tedesca, Italia in testa, il Tedesco è meno conosciuto di quanto lo sia l’Inglese.
    Io stesso, che sono stato in Germania per due anni e mezzo, non avrei potuto fare ricerca in quel paese e pubblicare su riviste internazionali senza conoscere l’Inglese.
    Le tre lingue ufficiali della Convenzione del Brevetto Europeo sono dal 1973 Inglese, Francese e Tedesco. Per questo motivo sono state scelte le medesime lingue per il Brevetto Unitario.
    A parer mio un’unica lingua (la più diffusa e conosciuta è l’Inlgese) avrebbe semplificato le cose.
    Si tratta comunque di una questione già decisa e sulla quale al momento è anche inutile discutere.

    Lo scopo dell’articolo non era quello di sollevare una questione sulla lingua italiana, ma di sensibilizzare l’Italia a cogliere la grande opportunità di diventare sede del Tribunale del Brevetto Unitario, invece di condurre, assieme alla Spagna, battaglie contro i mulini a vento.
    Quando tra pochi mesi Parigi o Londra saranno scelte come sede del Tribunale, lei potrà anche continuare ad insistere che l’Italiano va salvaguardato, ma una importante possibilità di sviluppo per il nostro paese sarà andata irrimediabilmente perduta. Probabilmente allora diventerà una materia interessante per una trasmissione della Gabanelli sulle occasioni perdute.

    Cordiali saluti

    Antonio Salerno

  6. Antonio Salerno

    Mi permetta di non essere d’accordo.
    La sua è la posizione tipica di chi non conosce bene che cosa è un brevetto e pensa che sia uno strumento nelle mani delle grandi aziende per bloccare lo sviluppo delle piccole. E’ esattamente il contrario.

    Il brevetto serve a far avanzare il progresso tecnico. E’ un contratto tra l’inventore e lo Stato. L’inventore rende pubblico e descrive nei particolari come si realizza l’invenzione e in cambio lo Stato gli garantisce un diritto di esclusiva per venti anni. Questo ha consentito a piccoli inventori, magari ricercatori universitari, di porre le basi per aziende di successo. Chi avrebbe protetto le loro idee innovative di fronte all’appetito delle grandi industrie se non la possibilità di brevettare?

    Brevettare significa anche poter rendere remunerativi gli investimenti in ricerca. Quale azienda privata investirebbe in ricerca se non potesse poi trarne un vantaggio rispetto ai concorrenti?

    Brevettare significa rendere pubblica l’invenzione, pena la nullità del brevetto.
    In questo modo ogni ricercatore è libero di imparare dal brevetto e realizzare gratuitamente l’invenzione per fare ulteriore ricerca e migliorarla, senza spendere risorse ad inventare nuovamente le cose.

    Avere un brevetto non consente di bloccare il progresso tecnico non attuando l’invenzione. In questi casi è prevista la possibilità di una licenza obbligatoria. [Art. 69 del Codice della Proprietà Industriale].

    Si informi bene prima di prendere posizioni di questo tipo.

    Cordiali saluti

    Antonio Salerno

  7. marco

    Concordo perfettamente e biasimo questo falso nazionalismo ed ultraprovincialismo, un brevetto europeo evidentemente sarà in lingua inglese. Se infine dovessimo presentare una candidatura non certo presenterei Milano come sede del tribunale europeo se mai Siena o Pisa: ma ce ne sono altre di pari pregio e civiltà.

  8. Alex

    Articolo a dir poco impreciso.
    Moavero ha affermato di voler entrare nella cooperazione rafforzata per il tribunale unico (uno dei tre dossier di cui si compone il nuovo brevetto unitario, chi scrive l’articolo dovrebbe saperlo) al fine proprio di candidare Milano, anche se fuori tempo massimo.
    Il processo è attualmente bloccato perché (dicono, ma sotto c’é sicuramente dell’altro) non si riesce a trovare un accordo proprio sulla città sede del tribunale unico, con le città candidate che sono guarda caso Monaco, Parigi e Londra.

  9. Paolo

    @Niccolò Caranti
    Le faccio solo notare che l’ottimo “Abolire la proprietà intellettuale” di Boldrin e Levine con sottotitolo “COPYRIGHT e brevetti costituiscono un male inutile perché non generano maggiore innovazione ma solo ostacoli alla diffusione di nuove idee” costa 14,40 Euro.

  10. Desiree

    Buon giorno dottoressa.. sul sito diritto.it ho trovato una sua tesi sulla libertà di pensiero e internet.. tuttavia alcune pagine non vengono visualizzate.. mi interessa molto per la mia tesi.. sarebbe così gentile da mandarla completa??? La prego mi aiuti..

  11. Rispondo brevemente:

    1. La compensazione per le traduzioni a livello di deposito è di 85 Euro, del tutto insufficiente per coprire le spese di traduzione di una domanda standard di 20 pagine (1700 euro in media secondo i dati della Commissione).

    2. Che nel tessuto produttivo italiano l’inglese sia poco conosciuto è un fatto (fonte: Rapporto “Letitfly”, Ministero del Lavoro, 2006). Il governo deve tenere conto di questo per difendere al meglio gli interessi dell’industria del paese che rappresenta. La questione però è un’altra: i computer tutti se li devono comprare, l’inglese (o il francese e il tedesco) invece sono “gratis” per chi le sa come lingua materna. Da qui la distorsione della concorrenza

    3. L’Esempio del PCT serve a mostrare che molto spesso le impese hanno una preferenza per la propria lingua nazionale, in particolare quanto questa è ufficiale.

    4. Le compensazioni finanziarie dell’EPO (massimo 1541 euro di sconto su tutti gli emolumenti, compresi i casi di opposizione) sono del tutto insufficienti a coprire le spese di traduzione delle imprese europee.

    5. L’Accordo di Londra non c’entra col mio intervento.

    Conclusione: Nessuno ha chiesto di tradurre tutti i brevetti in tutte le lingue. La questione è un’altra: in Europa i paesi anglofoni europei sono quinti come brevetti rilasciati, dopo italofoni e olandesofoni. Hanno quindi più vantaggi rispetto al loro contributo al bilancio EPO. Ciò basta, per me, per dichiarare una iniquità e forse distorsione della concorrenza. Bene hanno fatto quindi il governo spagnolo e italiano a opporsi a un regime linguistico che resta iniquo anche se applicato al brevetto unico.

    Il regime linguistico dell’EPO è stato stabilito nel 1973 perché tutti i paesi fondatori tranne l’Olanda parlavano francese, tedesco o inglese. Non è mai stato cambiato. Non sarebbe ora di ammodernarlo includendo maggiori lingue ufficiali e compensazioni più consistenti per i costi di traduzione?

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