29
Apr
2010

L’auto cinese: comunismo di mercato

Il salone dell’auto di Pechino in questi giorni ha come sfondo notizie da corsa all’oro. L’aumento del 46% di auto e pickup venduti in Cina nel 2009 con l’affermazione come primo mercato mondiale a 13,6 milioni di unità,  l’ulteriore crescita di un buon 20% attesa quest’anno e, se il credito cinese tiene,  anche negli anni a venire a questi ritmi, producono sviluppi che hanno dell’incredibile. Dietro i numeri da sbornia, il governo cinese con un disegno di pianificazione che promette di essere spietatamente efficiente, e che molti in Europa – noi no – invidiano.

General Motors presenta sul mercato cinese entro il 2010 ben 25 modelli tra nuovi e refittati, e ha venduto 230 mila unità nel solo mese di marzo, con un più 68% sul 2009 che porta a 624 mila le vendite nel primo trimestre rispetto alle 475mila negli USA. Ciò malgrado l’aumento della tassa di possesso al 7,5% da gennaio 2010 per i veicoli oltre i 1600 di cilindrata, dopo che l’anno scorso il governo cinese aveva dimezzato dal 10 al 5% il balzello. Volkswagen ha appena annunciato di aver accresciuto gli investimenti diretti dell’azienda sul mercato cinese entro il 2011dai 4,4 miliardi di eur, solo a settembre scorso deliberati, alla bellezza di 6 miliardi. L’obiettivo è vendere al 2012 ben 2 milioni di unità l’anno, facendo della Cina il primo mercato per Vw. Nissan Renault accresce del 70% i propri investimenti nell’Impero di mezzo, obiettivo 900 mila unità vendute nel 2012.

Ma in tutto questo sbaglia di grosso, chi pensi che i cinesi si affidino ai grandi gruppi esteri. Sin dalla primavera 2009, il governo cinese ha varato un grande piano di radicale razionalizzazione dell’intera produzione nazionale. Le risorse stanziate sono state, per il solo 2010, 1,7 miliardi dollari per il sostegno a fusioni e acquisizioni, 1,5 miliardi per le tecnologie “verdi”, elettriche e ibride.

Nel 2009, solo 4,5 milioni di unità vendute si devono per intero a produttori cinesi, rispetto a quelle di case estere con joint venture locali. Il governo cinese mira ad accrescere tale quota al 50% del mercato entro il 2015. Per questo è stata avviata una grande ondata di fusioni.

A inizio 2009 le case cinesi erano ufficialmente 132, ma la maggior parte di esse realizzava a malapena 10 o 20 mila veicoli. Solo 5 vantavano quote di almeno un milione di unità, in un mercato molto concentrato, visto  che le prime 10 case tra straniere e domestiche hanno piazzato ben 11,9 milioni di unità, l’87% del mercato.

SAIC Motor – partner di GM e VW – poi Faw Group, Dongfeng e Chang’an Motor sono le prime quattro cinesi in graduatoria. La seconda fila è composta da Beijing Automobile, Guangzhou Automobile, Chery, Sinotruk e la Geely, la maggiore privata che si accinge a investire 900 milioni di dollari in Volvo. Su questa decina di gruppi si impernia la strategia di consolidamento, il cui obiettivo al 2012 è di avere 2 o 3 gruppi ciascuno dei quali superiore ai 2 milioni di unità vendute, e almeno 4 o 5 ciascuno superiore al milione. L’obiettivo è di dare linfa e forza industriale, progettuale e finanziaria anche a un settore della componentistica nazionale in grado di lavorare  per tutti i Paesi meno avanzati del mondo, su volumi fino a doppi rispetto al mercato solo cinese. L’aspetto di proiezione internazionale della produzione cinese è considerata dal governo una componente essenziale legata alla crescente importanza esercitata dalle politiche cinesi di acquisizione di risorse primarie in cambio di infrastrutturazione viaria e civile, avviate in due terzi dell’Africa sub sahariana. Uno degli obiettivi del piano governativo di qui a cinque anni, lo step successivo del piano al 2012, fissa infatti al 20% la quota di produzione delle case cinesi realizzata direttamente in impianti delocalizzati su quei mercati esteri. La base di partenza delle esportazioni di auto cinesi  è sorprendentemente bassa, se si considera la straordinaria intraprendenza messa in atto da gruppi indiani come Tata: erano solo 369 mila le unità cinesi esportate nel 2009, e la  tendenza meno incoraggiante è data dal fatto che l’anno precedente i volumi erano stati quasi doppi, prima che la pressoché integrale produzione nazionale venisse l’anno scorso assorbita dall’esplosione del mercato domestico.      

Lo testimoniano le più recenti acquisizioni, come quella che ha visto Chang’an – quarto produttore cinese nel 2009, partner domestico di Ford, Mazda e Suzuki – rilevare prima due aziende di pick up e minivan – Hafei e Changhe – e poi  l’intera componente motoristica e ingegneristica relativa all’auto di Aviation Industry of China, acquisizione che per valore è stata la più rilevante sin qui nell’industria pubblica dell’auto dell’intera storia cinese. Analogamente Guangzhou Automobile, sesto produttore cinese, ha rilevato per un miliardo di yuan la quota di controllo della Changfen, produttrice di SUV quotata alla Borsa di Shangai. E Beijing Automobile, il quinto gruppo cinese nel 2009, ha rilevato a gennaio scorso il 40% di controllo della joint venture concentrata sui Van realizzata tra Daimler e Fujian Motor.

In questo gigantesco sforzo di pianificazione industriale non si seguono più strategie dei vecchi tempi maoisti. Il dirigismo pianificatore si sforza di diventare di mercato. I responsabili sul mercato cinese dei grandi marchi esteri rimasero senza parole quando, all’annuncio del piano governativo un anno fa, emerse che il Ministero dell’Industria leggera aveva commissionato tre ponderosi studi alle maggiori case di advisoring internazionale dell’auto sul fallimento dell’integrazione tra Daimler e Chrysler.

Cinque grandi rischi vennero individuati nell’insuccesso tedesco in America, di cui è oggi la Fiat di Marchionne a beneficiare: il mancato allineamento strategico tra gli obiettivi prioritari dalle due parti; le tensioni irrisolte tra i diversi rispettivi brand; la mancata integrazione del core business nella propulsione, acquisti e commerciale; il brain drain cioè la fuga dei migliori cervelli all’atto della fusione; infine lo shock che si determina per l’attrito di culture industriali tra manger diversi. Queste cinque linee sono da allora il metro condiviso in tutta l’industria dell’auto cinese, per evitare  fusioni che portino a bruciare capitale. Si aggiungono poi altre cinque linee guida: l’attenta vigilanza delle quote dei maggiori campioni esteri,mper impedire che davvero catturino il mercato cinese; l’acquisizione di asset all’estero nei segmenti elevati, per importarne tecnologia e modalità organizzative, come nel caso di Volvo; l’acquisizione di capitale umano tra le prime e seconde file di case straniere, al costo “occidentale” dei manager; lo sviluppo di una propria capacità nelle tecnologie verdi; una vera competizione di prezzo e forniture tra i maggiori gruppi, al fine di migliorare la loro capacità non solo con gli aiuti pubblici ma consentendo al consumatore di scegliere il meglio.

Un decalogo non male:  nessun Paese pianificatore al mondo, né Francia e nemmeno gli USA di Obama, può dire oggi di avere analoghe tavole della legge per un’organica politica dell’auto. Steven Rattner, il manager e finanziere capo della squadra dei consiglieri auto del ministro del tesoro americano Tim Geithner, due mesi fa lo ha pubblicamente riconosciuto: “non ho niente di paragonabile, come risorse umane e accesso diretto a informazioni tecniche e tecnologiche, a quanto Pechino ha messo a disposizione al ministro dell’Industria e delle Tecnologie”. Che, per la cronaca, si chiama Li Yizhong. Ed è nell’agenda degli incontri di Marchionne, per risolvere il problema, dopo errori in passato, della presenza di Fiat-Chrysler in Cina.

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2 Responses

  1. Giorgio Tosolini

    Ottimo articolo e ben illuminante su uno dei tanti importanti aspetti della politica economica del governo cinese, ovvero quello dell’industria automobilistica. Analoghe considerazioni si potrebbero esprimere su altri temi quali trasporti, ricerca, scuola, grandi infrastrutture, eccetera che riguardano questo immenso paese.
    Sulla Cina a noi occidentali piace invece ancora molto esprimere critiche, dubbi ed evidenziare aspetti negativi, analizzandoli secondo i nostri criteri che pretendiamo di considerare universali.
    I cinesi invece sono molto pragmatici, determinati e lungimiranti e stanno mettendo nel sacco tutti quanti e sottolineo tutti o “quasi”.
    Purtroppo pochissimi visioneranno questo articolo che, se letto attentamente e con voglia di apprendere, potrebbe far capire meglio come sta andando il mondo in altre parti.
    E’ un vero peccato dover assistere a tutto ciò, senza nulla poter fare in quanto, tutto sommato, in questo momento a troppe oligarchie economiche e finanziarie occidentali attualmente sta bene così, perché rientrano fra i “quasi”.

  2. ulisse di bartolomei

    Patent fraud. About the Fiat hybrids, the technology double clutch with electric motor between has been stolen by a patent that Fiat Company has never wanted to purchase, but only shamelessly to copy. I invite to visit my blog where her “vitality” of the Fiat planners it appears in all of evidence:
    http://dualsymbioticelectromechanicalengine.blogspot.com/
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    Ulisse Di Bartolomei

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