2
Dic
2009

HHH e la proprietà privata, l’Africa e l’università italiana

Negli ultimi vent’anni, una delle tesi più discusse all’interno dei circoli libertari è quella formulata dallo studioso tedesco Hans-Hermann Hoppe (si vedano, ad esempio, i primi capitoli del volume Democrazia: il dio che ha fallito, edito da Liberilibri), secondo cui la monarchia sarebbe preferibile alla democrazia perché entro un sistema di alternanza le preferenze temporali dei governanti sono sempre “a breve termine” (il politico eletto cerca di sfruttare al massimo il suo momento), mentre se la successione è ereditaria diventa razionale, per il governante, preoccuparsi di arricchire il proprio Paese, così da lasciare ai figli una bella mucca da mungere. La prospettiva temporale, in questo caso, diventa “a lungo termine”.

Quando parla di monarchia, sia chiaro, HHH non pensa al Regno Unito o alla Spagna dei nostri tempi, ma a un regime monarchico di tipo patrimonialista, in cui il sovrano è il padrone del regno e quindi cerca di usarlo a proprio favore: immaginando pure che, dopo di lui, farà lo stesso il suo erede.

In questa analisi c’è del vero e, come spesso succede per le tesi che poggiano su qualcosa di solido, l’argomento è antico. Di recente mi è capitato di ritrovarne una versione perfino in uno scritto del giurista Andrea da Isernia, che all’inizio del XIV secolo – volendo sostenere le ragioni degli Angiò contro l’Imperatore – nell’Usus Feudorum scrisse che i re “curant de utilitate regni propter filios, qui sunt reges sicut et ipsi (…) imperatores autem non sic, quia electione, non successione” (i re si preoccupano del bene del regno nella prospettiva dei loro figli, che sono re in ragione del loro status, mentre così non è per gli imperatori, che sono tali non a seguito di una successione, ma bensì di un’elezione).

C’è del vero, ma non bisogna semplificaretroppo.

In larga parte dell’Africa, ad esempio, “il” problema politico per eccellenza è proprio la determinazione di tanti presidenti a cancellare ogni limite in tema di rielezione. L’obiettivo è proprio quello di impadronirsi di tutto: non definitivamente, certo, ma per un periodo di tempo quanto più lungo sia possibile.

D’accordo: un dittatore non è un re, poiché il secondo confida di poter assegnare il regno al figlio grazie alla stabilità della tradizione e alla sua forza legittimante. Ma bisogna comunque comprendere che, nel mondo d’oggi, l’unica vera alternativa allo sfascio della politica (se vogliamo risolvere questo contrasto tra preferenze temporali di breve e lunga durata) è la proprietà: intesa come proprietà privata.

Basti guardare alle nostre università, dove non soltanto spesso i rettori hanno modificato – in una logica da Stato libero di Bananas – la norma statutaria che impediva il terzo mandato, ma più in generale innumerevoli baronie hanno realizzato una (familistica) “semi-privatizzazione” degli atenei di Stato. Dove quel “semi” è però davvero fondamentale.

Perché la vera alternativa al costante assalto alla diligenza che caratterizza i baracconi della spesa pubblica a ogni latitudine (si tratti della facoltà di economia barese analizzata da Roberto Perotti nel libro sull’università oppure dei regimi post-coloniali dei Tropici) è il privato, quale condizione di responsabilità e concorrenza. Un privato vero, senza interferenze pubbliche, senza sussidi né aiuti. Quel privato in cui ognuno mette in gioco qualcosa di suo, che potrà anche lasciare agli eredi, certo, ma solo se ha saputo gestirlo al meglio e farlo fruttare.

Gli atenei – in età medievale – nacquero proprio quali realtà indipendenti, nelle mani degli studenti (a Bologna, ad esempio) o dei docenti (come nel caso di Parigi).  Quanto prima torneranno ad essere privati, tanto meglio sarà.

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3 Responses

  1. LucaF.

    Esistono anche le dittature ereditarie: Corea del Nord e Cuba; dove il potere dinastico è a lungo periodo e pure ereditario.
    Ovviamente sono statualmente socialisti e pure promotori di distruzione della ricchezza.
    In Africa molti Stati hanno figli di presidenti-dittatori eredi politici della “pubblica proprietà economica” statale.
    La questione a mio parere non si pone tanto tra democrazia e repubblica, repubblica e principato (su questo Macchiavelli ha scritto a sufficienza) o tra monarchia (vedere Dante) e Papato; in quanto tutti questi modelli si pongono come forma di Stato e di funzione operante in termini collettivi (e coercitivi).
    Hoppe certamente in termini provocatori propende per un discorso teorico ideale di politica-sistema sulla programmazione di medio-lungo periodo come eredità generale della buona politica, in assenza di meri cabotaggi elettorali pigliavoti della cattiva.
    Peccato a livello storiografico la rivoluzione inglese, americana e francese siano sorte anche per l’evidente incapacità dei sovrani di far fronte al limite di imposizione fiscale e alle loro politiche assolutiste e protezioniste.
    Ereditando molto spesso Stati in pieno default (caso francese) già dai loro predecessori.
    Ovviamente quando si parla di monarchia a meno di non riferirsi all’autocrazia stile zarista, generalmente ci si riferisce a un sistema anch’esso internamente collettivo basato su consiglieri e delegati in vece del sovrano.
    Praticamente un governo.
    Questo trova tangenza anche nelle attuali Democrazie siano esse presidenziali o parlamentari (il caso italiano poi è altamente significativo).
    Allo stesso tempo il ragionamento retorico per assurdo di Hoppe (all’interno del libro) rischia proprio in quanto troppo esplicitamente propenso ad analizzare la forma politologica di macro-sistema (pur nella sua dimensione frammentata) di venir frainteso (molto spesso volutamente da parte dello stesso Hoppe) ponendo in secondo piano paradoassalmente proprio l’aspetto economico e il suo meccanismo virtuoso connaturato in esso per rilanciare una implicita idea di nuovo management politico.
    Gli effetti possono essere equivocati molte volte, anche in una realtà statalista come la nostra. 😉
    La costruzione di un nuovo significato-ideale di sistema partendo da termini e formule politiche consolidate e stratificate in passato (es monarchia vs repubblica/democrazia), pur all’interno di un discorso finalizzato in termini paleo a trovar origine in esempi del passato dell’uomo per le proprie idee, rischia di rendere problematica ai più la ricezione e comprensione della differenza semantica presente in Hoppe sul significato di tali termini da lui interpretati sotto nuova luce (non sempre condivisibile) e la loro accezione comune.
    Hoppe anche in questo è implicitamente ambiguo come interpretazione.
    Insomma il rischio è quello di vedere “una libertà di azione politica-economica dei moderni superiore a quella dei contemporanei”; parafrasando e riadattando Costant.
    Il fatto che Hoppe produca una analisi economica-politica, focalizzandosi sulla critica del sistema politico contemporaneo e al suo processo di evoluzione-degenerazione a tappe rischia molto spesso di focalizzare medesima rilevanza di significato anche in termini di suggestioni proposte dall’autore per il futuro al ruolo implicito dell’azione “politica” (seppur in chiave “stretta”).
    Il ragionamento di Hoppe è meglio comprensibile se a fronte del paragone di un sovrano-proprietario (oggi giorno pensabile solo entro una dimensione di micronations e homesteading) di un territorio, lo proiettiamo piuttosto entro una logica meramente imprenditoriale e aziendale di programmazione (pur tenendo conto dei Cda e dei sistemi a quote percentuali di azionariato).
    Sicuramente in un contesto randiano-oggettivista l’ipotesi di Hoppe assume piena validità, in quanto il campo individuale delle singole decisioni e casi specifici vengono a codificarsi entro scelte prasseologiche da parte del proprietario-gestore dell’azienda.
    E’ evidente che al di là di Hoppe, in termini libertari assoluti la gestione della propria proprietà (sia essa azienda o proprietà terriera) favorisce una maggior responsabilizzazione diretta e individuale.
    Senza far dipendere le proprie scelte da vane speranze in un Dio collettivista e dirigista lontano dal funzionare efficacemente e in termini razionali.
    Quindi la lezione di Hoppe dovrebbe indurci a ragionare in termini di limite e di operatività di marginalità economica quale uso corretto e ragionato delle risorse economiche e patrimoniali disponibili, senza far affidamento al Leviatano pubblico e alla logica politica interventista.
    Una lezione che i nostri imprenditori italiani in questi giorni farebbero bene a ricordare.
    Saluti da LucaF.

  2. Luciano Pontiroli

    Usare un linguaggio comprensibile anche agli imprenditori ed ai professionisti farebbe fare brutta figura all’autore del commento precedente? Forse rivelerebbe che di Hoppe si è compreso ben poco?

  3. LucaF.

    @ Luciano Pontiroli.
    Prima legga Hoppe e comprenda la dimensione di principi entro il quale si muove ambiguamente e provocatoriamente.
    Ma per farlo bisogna conoscere il pensiero libertario e le sue dicotomie e sfumature tra pensatori e autori.
    Capirà come un dato (“A”), nel passato pur venendo così definito non sia (“A”) nel futuro per Hoppe.
    Ovviamente tale valore o dato di sistema teorico “A” può generare sistemi A1, A2…. differenti tra loro entro una dimensione pulviscolare post-democratica.
    Quindi Monarchia non deve essere letto come re o sovrano di uno Stato, ma come termine di proprietà economica individuale del proprio capitale.
    E’ soddisfatto?.

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