24
Dic
2018

Consigli di lettura per il 2019 / Seconda parte

La fine dell’anno è un buon momento per fermarsi, riflettere e leggere. Per molti è uno dei pochi momenti in cui concedersi il lusso di stare a tu per tu con un libro: è un momento per l’evasione, ma anche per il pensiero, magari per tornare alle radici delle nostre idee e per tentare di comprenderle meglio. Cosa leggere per pensare e ripensare alle ragioni della libertà? Abbiamo chiesto qualche consiglio al team e agli amici dell’Istituto Bruno Leoni.

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María Blanco, Afrodita desenmascarada: Una defensa del feminismo liberal (Deusto, 2017).

L’Afrodite “del ventunesimo secolo si è coperta con veli, maschere, menzogne politiche e scuse che finiscono per confondere assai più di quel che rivelano. Queste maschere non riguardano soltanto le donne, ma sono il marchio di una mentalità che impoverisce l’essere umano, dal momento che gli insegna a vivere alle spalle degli altri, ad accampare ogni tipo di scusa e a non farsi carico delle circostanze della sua stessa vita, con l’argomento che in realtà non è lui ad esserne responsabile”. Ci sono libri importanti che sfuggono le definizioni. “Afrodite desenmascarada” di María Blanco, economista e storica delle idee, è un testo difficile da collocare negli scaffali di una biblioteca. E’ un saggio a tesi, scritto con piglio battagliero: “nessuno detiene il monopolio di quel che pensano le donne, del femminismo autentico e neanche il monopolio della femminilità”. L’obiettivo polemico è il femminismo radicale, dell’ultra-sinistra che ha fatto della “vittimizzazione” ora di questo ora di quel gruppo sociale un modo di guardare il mondo, e si alimenta di contraddizioni grandi o piccole: “sorprendono gli sforzi di certe presunte ‘guerrigliere delle donne’ per mascolinizzare Angela Merkel”. I maggiori leader donna dell’Occidente restano due conservatrici, Merkel appunto e ovviamente Margaret Thatcher: l’una e l’altra poco amate da chi ogni giorno affila la penna contro l'”eteropatriarcato”, che non può essere che l’ennesimo prodotto del “neoliberismo”. L’alternativa è un femminismo liberale, che rifiuta di pensare in termini di minoranze e prova a considerare le persone semplicemente come persone. Esso si avvantaggia del fatto che “il capitalismo è il migliore amico della donna”: l’emancipazione è arrivata attraverso la partecipazione al lavoro, resa possibile dallo sviluppo industriale, così come una più piena sovranità sulla propria vita si deve almeno in parte all’andamento della demografia e alle mutate aspettative della società rispetto ai ruoli di genere, anch’esse una conseguenza della crescita economica, per non dire della straordinaria liberazione del tempo dovuta alla diffusione degli elettrodomestici (già per Popper la più grande rivoluzione femminista non era stato l’allargamento del suffragio alle donne ma la lavatrice). Il libro di María Blanco non è solo uno stupidario del femminismo, e non è un saggio “conservatore”. Non nega che le discriminazioni esistano, né che cliché e pregiudizi si frappongano fra le donne e il genere di vita che desiderano condurre. Spiega nel contempo che la colpa è anche delle donne stesse: “delle madri, delle suocere e delle maestre”, che quei pregiudizi contribuiscono a conservarli. Colpa però non è la parola giusta: armata di psicologia evoluzionistica e di una scorta di aneddoti apparentemente inesauribile, l’autrice riconosce che ciò che molte cose che oggi ci sembrano biasimevoli erano razionali in altri contesti, riconosce alle donne una gestione molto più smaliziata della propria sessualità di quanto non facciano le opposte caricature della damigella nella torre e della vittima dell’uomo bianco, sorride delle ipocrisie dell’eguaglianza, alzando il piede dall’acceleratore dello sdegno morale per cercare di capire dinamiche e ragioni delle relazioni fra i sessi. “Afrodita desenmascarada”, il cui individualismo sereno non andrebbe raccomandato solo alle donne, è un libro scritto con una schiettezza intellettuale che sarebbe bello potesse essere contagiosa.

Alberto Mingardi

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J.K. Rowling, Harry Potter e la maledizione dell’erede (Salani, 2016).

Harry Potter e la maledizione dell’erede è un’opera teatrale con cui J.K. Rowling torna, vent’anni dopo la sconfitta di Voldemort, dalle parti di Hogwarts (attenzione: la recensione contiene spoiler). La sceneggiatura racconta la storia di una strana amicizia: quella tra Albus Severus Potter (figlio di Harry e di Ginny Weasley) e Scorpius Malfoy (figlio di Draco). Entrambi si sentono degli esclusi, ed entrambi soffrono l’eredità di due padri dalla storia e dal nome troppo ingombrante. Le cose si mettono in moto quando i due ragazzi rubano una giratempo, che consente di viaggiare nel passato. Spinti da Delphi (che credono la nipote di Amos Diggory, il cui figlio, Cedric, aveva perso la vita in Harry Potter e il calice di fuoco) tornano al Torneo Tremaghi di tanti anni prima. Sono apparentemente mossi da nobili propositi: salvare l’amico di Harry, per la cui scomparsa Albus si sente ingiustamente in colpa. Capiranno presto che cambiare la storia è pericoloso, e le successive peripezie li porteranno a comprendere il valore dell’amicizia e della diversità. Infatti, verrà fuori che Delphi è in realtà la figlia di Voldemort, che li spinge a interferire con le vicende passate per riportare l’Oscuro Signore al potere. L’amicizia tra Albus e Scorpius è il perno su cui si innesta la collaborazione tra Harry e i suoi, da un lato, e Draco, dall’altro. Quando alla fine la minaccia di Voldemort viene scongiurata, Albus chiede a Harry di uccidere Delphi: “E’ un’assassina… l’ho vista uccidere…”. Al che Harry risponde: “Sì, Albus, lei è un’assassina, e noi no”. Come nei romanzi della saga principale, Rowling usa la fiction per riflettere sui legami tra le persone, e sul crinale molto sottile che separa l’amore altruistico e incondizionato (tra Albus e Scorpius, tra Harry, Ginny, Hermione e Ron) da quello autoreferenziale e morboso (l’atteggiamento iniziale di Harry verso Albus, o il desiderio di Delphi di rivedere Voldemort). L’amore consiste nel voler bene alle persone per quello che sono: e non “nonostante” quello che sono. Lo si capisce bene da una battuta di Harry sulle persone a cui appartenevano i due nomi del figlio, Albus (Silente) e Severus (Piton): “erano grandi uomini, con enormi difetti, e sai una cosa? Quei difetti li hanno quasi resi più grandi”.

Carlo Stagnaro

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Lysander Spooner, I vizi non sono crimini (Liberilibri, 1998).

Quella di Lysander Spooner (1808-1887) è stata una personalità del tutto fuori dal comune. Uomo di pensiero e anche d’azione, ha attraversato il diciannovesimo secolo interpretando alcuni dei tratti più originali e coraggiosi del libertarismo. L’antologia pubblicata da Liberilibri, introdotta da un testo di Angelo Maria Petroni, permette di cogliere gli aspetti più interessanti di questo studioso, che nel corso della sua vita ha combattuto molte battaglie: riuscendo a diventare avvocato nonostante non soddisfacesse tutti i criteri formali (anche se aveva le conoscenze necessarie), creando una società postale privata che ebbe grande successo (salvo poi essere bloccata dal monopolio statale) e, soprattutto, favorendo la fuga e la liberazione di molti schiavi neri. Il testo che dà il titolo al volume sottolinea una questione cruciale per ogni liberale: e cioè che in una società aperta si deve riconoscere spazio alla possibilità di sbagliare e anche di “vivere male” (in modo vizioso), se questo non configura un’aggressione a danno degli altri. Il diritto serve a vivere assieme, e non a salvare l’uomo o a redimerlo. Il cuore del libro, però, è da trovare nei tre saggi che compongono No Treason, un lavoro incompiuto (il piano originario prevedeva sei scritti) in cui Spooner pone sotto processo l’intera struttura governativa americana, a partire dalla costituzione. Con un rigore senza eguali Spooner evidenzia come l’intera logica detta “contrattuale” sia intimamente fraudolenta, dal momento che quanti si ritengono delegati dal popolo a scrivere la carta fondamentale non hanno mai veramente avuto una delega in senso proprio e per giunta, anche se l’avessero avuta, non avrebbero comunque potuto – con le loro decisioni – vincolare la vita delle generazioni successive. Sotto vari punti di vista, in Spooner si ritrova lo stesso spirito di Thomas Jefferson, ancor più radicalizzato. A tutti gli uomini viene riconosciuta una dignità che rende impossibile ogni difesa del potere pubblico e ogni sforzo di legittimare l’autorità statale. Come ebbe a rilevare con acutezza il filosofo morale Flavio Baroncelli, occuparsi oggi di filosofia politica ignorando le tesi spooneriane equivarrebbe a occuparsi di teologia senza considerare quanto è stato scritto da David Hume. Perché in No Treason si evidenzia come la volontarietà del contratto sociale e delle relazioni democratiche sia solo di facciata, dato che il dominio sovrano vive di costrizione, imposizione, violenza. Lo Stato è in sé mostruoso e, quindi, del tutto illegittimo. In un saggio incluso nell’antologia, Natural Law, Spooner presenta la sua idea di giustizia, in opposizione rispetto agli arbitri della legislazione e della legalità. Secondo Spooner, o si crede nella giustizia e quindi si guarda con occhi nuovi l’intera impalcatura del potere; oppure non si ritiene che un ordine giusto possa esistere e che neppure possa essere cercato, e quindi il diritto esiste soltanto come diritto positivo, burocrazie, magistrature, comandi. Tertium non datur.

Carlo Lottieri

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Ying Chang Compestine, La rivoluzione non è un pranzo di gala (Giunti, 2009).

L’autrice, nata in Cina, vive negli Stati Uniti con la sua famiglia. Basandosi sulla sua esperienza personale narra ad un pubblico di ragazzi le vicende di una bambina che, nei primi anni settanta, vive la Rivoluzione culturale cinese. La bimba assiste alla disintegrazione graduale di tutto il suo mondo: il padre viene portato in un campo di lavoro, lei non può più parlare inglese né vestirsi come vuole, trovare qualcosa da mangiare diventa un’impresa quasi impossibile per lei e per la madre. Si tratta di una potente critica di quell’atto di violenza con il quale i cinesi vennero privati della libertà di scegliere e di dire quello che pensavano, visto attraverso gli occhi di una bambina

Roberta Modugno

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Pierluigi Battista, Il senso di colpa del dottor Zivago (La nave di Teseo, 2018).

Gli scrittori russi del Novecento hanno testimoniato con le loro opere e le loro esistenze i drammi e le difficoltà del vivere sotto un regime oppressivo e nemico della libertà come quello comunista. Se il caso più celebre è quello di Aleksandr Solženicyn, che attraverso i suoi libri ha permesso di conoscere il mondo dei gulag, numerosi sono stati gli intellettuali, i poeti e gli artisti che hanno dovuto subire l’internamento, l’esilio o la morte per mano di uno Stato che non ammetteva il dissenso all’interno dei propri confini. Per tutti gli scrittori russi il dilemma ero lo stesso: provare a soddisfare nello stesso tempo la propria coscienza e la società in cui si viveva. Ormai celebre, anche se dai contorni poco definiti e quasi leggendari, è la telefonata tra Stalin e Boris Pasternak, conclusasi con queste parole pronunciate dal dittatore georgiano: «Se a un mio amico poeta fosse capitata una disgrazia, mi sarei fatto in quattro per salvarlo». Condannato a cinque anni di deportazione per “attività anti-sovietiche”, il poeta Osip Mandel’štam sarebbe poi morto nel 1938 in Siberia. Questo è solo uno degli eventi che hanno scaturito i “sensi di colpa” di Pasternak di cui parla Pierluigi Battista nel suo libro. Una vita privata e pubblica, quella di Pasternak, caratterizzata da ambiguità e scarso coraggio: relazioni sentimentali tormentate e un rapporto col potere equivoco e doppio. Il riscatto sarebbe arrivato solo sul finire della sua esistenza, con la storia del suo alter ego Jurij e la travagliata vicenda editoriale del Dottor Zivago. Tutto questo è raccontato da Battista in un piccolo libro, con una scrittura precisa e misurata, ma capace di evocare la cornice romanzesca di tali vicende, purtroppo tragicamente reali.

Filippo Cavazzoni

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Hans Rosling, Factfulness: Ten Reasons We’re Wrong About The World – And Why Things Are Better Than You Think (Hodder And Stoughton Ltd., 2019).

Comincia con un quiz di 13 domande su alcuni fatti riguardanti il mondo il libro di Hans Rosling. Dalle risposte a queste (e altre) domande si deduce un fatto: siamo pessimisti. O meglio, siamo ignoranti e pensiamo di sapere che la realtà sia peggio di quanto non sia. Pensiamo che ci siano più poveri di quanti non ce ne siano in realtà, che l’accesso alle cure sia più limitato di quanto non sia in realtà, che l’aspettativa di vita media sia più breve di quanto non sia in realtà, e così via. Il mondo va meglio di quanto siamo portati a credere e il libro di Rosling ci aiuta a correggere alcuni dei nostri pregiudizi. L’inizio dell’anno è il momento dei buoni propositi e delle speranze. Il libro di Rosling offre molti spunti per l’adozione di una prospettiva di ragionevole ottimismo.

Paolo Belardinelli

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Michael Lewis, Un’amicizia da Nobel. Kahneman e Tversky, l’incontro che ha cambiato il nostro modo di pensare (Cortina, 2017).

Michael Lewis è bravissimo: ha il dono di narrare storie semplici di vite complicate, storie che hanno la magia di meravigliare. Il lettore rimane così colpito che non sa più distinguere se questa magia provenga dalla maestria dell’autore o dalla forza insita nella storia stessa di toccare le corde profonde del suo animo. È ovvio quindi che dalle sue storie siano tratti film di grande successo. Da Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game venne tratto L’Arte di vincere, che fu candidato a sei Oscar. Da The Blind Side: Evolution of a Game venne tratto The Blind Side e Sandra Bullock vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista. Da The Big Short venne tratto La grande scommessa, che ebbe pure un Oscar per la sceneggiatura non originale. La storia semplice narrata nel libro è quella dell’amicizia solidissima (salvo qualche incomprensione) dei due protagonisti, Daniel Kahneman e Amos Tversky. Essa originò da un invito fatto dal primo al secondo a parlare ad un seminario e fu rafforzata da una rara intesa intellettuale fra le loro menti prodigiose. Ne scaturì una collaborazione incredibilmente proficua: i due psicologi israeliani hanno rivoluzionato non solo la loro disciplina d’origine ma anche l’economia, la finanza e la teoria delle decisioni. Le vite complicate sono quelle parallele di un ebreo profugo prima dalla Lituania e poi dalla Francia (Kahneman), che cresce professionalmente dapprima come psicologo consulente dell’esercito israeliano, e di uno “stanziale” israeliano (Tversky), la cui famiglia era fuggita dalla Russia per trasferirsi nella Palestina sotto mandato inglese, che di tanto in tanto indossa la divisa militare per difendere la patria sotto attacco (se necessario anche accorrendo dagli Stati Uniti per adempiere al suo dovere). Il libro si apre con un divertente aneddoto, di Kahneman che dapprima cerca di convincere i suoi amici affinché lo dissuadano dallo scrivere l’autobiografia (Pensieri lenti e veloci, Mondadori) e che poi, non capacitandosi del perché questa autobiografia sia diventata un bestseller del New York Times, ne dà una spiegazione da par suo: è chiaro che al NYT hanno palesemente fatto una svista ad inserire il libro nella lista dei bestseller, e questo errore, che non possono ammettere di avere fatto, li ha costretti poi a tenere il libro nella lista! Se questa autoironia vi sembra fuori moda, sentite quest’altra idiosincrasia. I due odiano la sciatteria e l’approssimazione, sia essa linguistica o concettuale. Sono ossessionati a migliorare la qualità della scrittura dei loro articoli, a renderli più chiari e comprensibili e quindi aspettano mesi a pubblicare (ritardando le carriere dei collaboratori!) perché limano e riscrivono. Sono pignoli ed estremamente rigorosi, proprio a cominciare dal linguaggio usato. Ciò è da sprone per tutti quelli che lavorano con loro: il mantra dei collaboratori è “Cosa ne direbbe Amos?”. Non c’è che dire: indubbiamente, con lo Zeitgeist che c’è in giro qui da noi, è una lettura anacronistica… Il libro è utile per chi si vuole accostare alla letteratura economica che origina dai loro saggi magistrali: Lewis fornisce una mappa molto chiara dei loro contributi principali e con questa mappa poi ciascuno può intraprendere sentieri di approfondimento a seconda dei propri interessi. La telefonata che annuncia a Kahneman l’assegnazione del premio Nobel per l’economia chiude il libro. È per lui un momento bittersweet, perché non può condividere la gioia e il premio con Tversky, giacché questi era morto pochi anni prima.

Paolo Di Betta

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Mario Caligiuri, La formazione delle élite. Una pedagogia per la democrazia (Rubbettino, 2008).

Come facilmente desumibile dal titolo, in questo libro Mario Caligiuri tratta delle principali tendenze delle democrazie moderne e di come la creazione e il mantenimento di una società libera e realmente democratica dipendano inevitabilmente dalla formazione di un’elite, percepita legittimamente dai cittadini come tale, responsabile e capace. Partendo da una prospettiva deweyana, Caligiuri affronta sin da subito l’importanza del rapporto tra democrazia ed educazione affinché la dialettica tra governati e governanti non si esaurisca irrimediabilmente a vantaggio dei secondi e anzi si fondi sulla loro effettiva controllabilità e sostituibilità. A questo proposito si rimarca l’importanza dello sviluppo del pensiero critico e dell’educazione alle tecnologie dell’informazione in quanto fondamentali nello sviluppo di una cittadinanza capace di comprendere, filtrare e intepretare quella “comunicazione pubblica” che permette la circolazione delle informazioni tra governanti e governati. L’importanza della veicolazione dei messaggi è talmente rilevante che l’autore cita la media education, condotta in alcuni Paesi anglosassoni, come surrogato dell’educazione civica. Al problema della comunicazione pubblica e dei media, si aggiunge anche quello della creazione di sterminate burocrazie di tecnici che, avvalendosi di linguaggi “esoterici” e di conoscenze iperspecialistiche, ampliano quella naturale frattura che si crea tra di esse e la cittadinanza. A questo proposito interessante il passo in cui, citando Edgar Morin, rileva che “più profonda diventa la frattura tra una tecnoscienza esoterica, iperspecializzata e i cittadini, e più la frattura acuisce la dualità tra coloro che sanno – la cui conoscenza è peraltro frazionata, incapace di contestualizzare e globalizzare – e coloro che non sanno, ovvero l’insieme dei cittadini”. Nella seconda parte l’autore si sofferma sui limiti dei sistemi democratici e sui grandi pericoli che affliggono le democrazie, tra cui i sistemi di intelligence, definiti, con le parole di Christopher Andrew, “la parte mancante della storia”. Se da una parte essi sono assolutamente necessari per la salvaguardia delle istituzioni, dall’altra spesso diventano talmente potenti da risultare sostanzialmente fuori dal controllo non solo della cittadinanza, ma anche dell’esecutivo stesso. Nella terza parte, invece, l’autore avanza la proposta della creazione di una nuova classe dirigente per l’Italia che abbia come riferimento un “blocco sociale”, in senso gramsciano, composto da giovani laureati e piccoli e medi imprenditori. Queste categorie non solo costituiscono quelle più tragicamente esposte ai fenomeni della contemporaneità e in particolar modo alla globalizzazione, ma anche quelle più predisposte per dinamicità e qualità del capitale umano a rompere quegli schemi che hanno sclerotizzato il Paese, avviandolo ad un lento ma inesorabile declino. Come catalizzatore di questo nuovo blocco sociale, l’autore individua un nuovo ceto intellettuale “digitale” costituito da persone formatesi tradizionalmente in scuole e università e che tuttavia si distingue per un efficace e intelligente utilizzo degli strumenti di comunicazione che internet mette a disposizione. Nonostante sia stato pubblicato nel 2008, La formazione delle elite è davvero un libro illuminante che permette di comprendere anche ciò che sta accadendo oggi in maniera profonda e non banale, al di la degli slogan e delle reazioni scomposte cui purtroppo si assiste sempre più frequentemente.

Nicolò Bragazza

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Francisco Garcia Parames, Investing for the long term: My Experience As an Investor (John Wiley & Sons, 2018).

Questo libro presenta molteplici spunti di interesse. E’ un’opera chiara su come affrontare il mondo degli investimenti. O meglio, su un possibile approccio, molto chiaro e ben spiegato. E viene da un “practitioner” di solide letture e studi, non da un economista teorico. Quando si tratta di investimenti, non v’è quasi alternativa a considerare il punto di vista della miglior prassi. Sono espresse alcune tesi coraggiose, come “investire in azioni è dominante rispetto a investire nel debito delle aziende” e il tutto è inserito in uno schema di fondo. I principi di economia generale di cui non si può fare a meno sono quelli della scuola austriaca. E questo – ne siamo convinti – non vale solo per il mondo e la pratica degli investimenti.

Andrea Battista

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Julia Ebner, La Rabbia: Connessioni tra estrema destra e fondamentalismo islamista (NR Edizioni, 2018);  Édouard Berth, I crimini degli intellettuali (GOG, 2018).

Una delle poche consolazioni che ci siano concesse in questi tempi plumbei è l’occasione d’interrogarci su come le debolezze ìnsite nei modelli liberaldemocratici occidentali abbiano propiziato la crisi che stiamo attraversando – e su come sia, eventualmente, possibile porvi rimedio. Pressoché inutile dedicarsi alla cronaca, è nella storia e nella teoria delle scienza sociali – nelle prospettive, insomma, di più ampio respiro – che il lettore provato dagli eventi ma ancor determinato a interpretarli potrà trovare momentaneo sollievo. Fortunatamente, i contributi originali e stimolanti oggi non scarseggiano. Mala tempora currunt sed meliora scribantur. Per non finire come l’asino di Buridano, mi trovo a raccomandare non uno, ma due volumi: alquanto diversi negli autori (una giovane ricercatrice austriaca, la prima; un ormai oscuro pensatore francese, il secondo), nello stile (da un lato, il resoconto chirurgico, ma non certo asettico, di un’indagine scrupolosa; dall’altro, un lungo manifesto ideologico che confina a tratti con la più riuscita invettiva), nel contesto storico (l’era del terrorismo globale; e gli esordî delle democrazie di massa, agli sgoccioli del periodo prebellico) e nel tema specifico (lo scontro tra nuove destre e fondamentalismo islamista; e quello tra un intellettualismo al servizio del potere e un anti-intellettualismo che mira alla rivoluzione), ma entrambi presentati al pubblico italiano da due insegne giovanissime per ispirazione, équipe, strategie commerciali e freschezza d’idee.
Nel primo testo consigliato – La rabbia. Connessioni tra estrema destra e fondamentalismo islamista, tradotto da Eugenio Cau e pubblicato da NR Edizioni: piuttosto unico esemplare di casa editrice gemmata da una newsletter – Julia Ebner, ventisettenne ricercatrice dell’Institute for Strategic Dialogue di Londra, si serve di una variegata combinazione di metodi (inchieste sul campo, interviste agli esperti, monitoraggio delle conversazioni telematiche, il tutto cucito insieme da una più tradizionale analisi sociologica e geopolitica) per far luce sul circolo vizioso che unisce e rafforza i due opposti estremismi citati, e li vincola indissolubilmente a due visioni del mondo speculari che sfociano nella loro reciproca radicalizzazione.
Nel secondo – I crimini degli intellettuali, uscito per i tipi di Gog a cura di Andrea Vannicelli e con un’introduzione di Lorenzo Vitelli – Édouard Berth, teorico del sindacalismo rivoluzionario, allievo di Sorel, influenzato da Marx e Proudhon e fautore di un socialismo di marca anti-statalista, formula la propria arringa contro le astrazioni degli intellettuali razionalisti, deterministi, idealisti – ingranaggi del potere (e del capitale) – e argomenta la propria preferenza per una nozione concreta di libertà come differenza e come «capacità di inventare il nuovo, di aprire delle strade al di fuori dei sentieri battuti, di aprire nuovi orizzonti, di errare, anche, di cadere, di inciampare», perché «se non vogliamo farci assorbire totalmente dallo Stato, è ancora e sempre perché siamo liberi, e in quanto liberi formiamo classi diverse, irriducibili all’uniformità statale». Una lezione da non sottovalutare in un’epoca in cui le differenze sembrano dover irrobustire l’autorità dello stato, anziché affievolirla.

Massimiliano Trovato

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Dino Buzzati, Il deserto dei tartari (Mondadori, 2016).

Durante queste feste natalizie, immaginando il lettore satollo dopo un lauto banchetto, magari di fronte a un bel caminetto acceso, gli proporrei la lettura di un classico della letteratura italiana. Mi riferisco al Deserto dei tartari di Dino Buzzati, sperando di suscitare in chi avrà il piacere di leggerlo una riflessione profonda sul senso della vita e sul concetto dell’attesa in un periodo dell’anno già pieno di significato. Giovanni Drogo, il protagonista di questo romanzo, è un soldato che ha come prima destinazione la fortezza Bastiani. È un giovane ambizioso: aspira, infatti, a una brillante carriera militare. Quando per la prima volta vede da lontano la fortezza, gli appare, però, come un edificio piuttosto modesto e tutt’altro che epico. A Drogo sembra quasi una prigione. Appena arrivato alla fortezza il protagonista pensa subito a come ottenere un trasferimento. Si sente in quel posto per errore. In passato la fortezza Bastiani era un punto di frontiera molto importante a causa delle incursioni di uno specifico nemico: i Tartari. Da tempo immemorabile, però, non accade più nulla. Col tempo Drogo, ossessionato dalla possibilità di un evento improbabile che possa concedergli la gloria, accetta la vita nella fortezza che si consuma in una routine militare assolutamente grigia e apparentemente priva di significato. Tutti i suoi commilitoni vivono nell’attesa del grande evento, l’invasione, sacrificandosi per esso con una semplicità catartica finalizzata a un solo e unico scopo: scrutare intensamente l’orizzonte. Giovanni Drogo pensa di avere (e ha) tutta la vita davanti. Si sente pieno di energie. È disposto ad abbandonarsi a questa attesa perché pensa di non perdere nulla ma, in realtà, la vita scorre fuori delle mura della fortezza e con essa tutte le possibilità che essa offre: la possibilità di conquistare il grande amore, ad esempio. Il senso dell’attesa è fondamentale in questa opera di Buzzati pubblicata per la prima volta nel 1940. Alla fine del romanzo, dopo trent’anni di servizio, Giovanni Drogo è vecchio e deve abbandonare la sua postazione. Morirà da solo in una locanda, mentre infuria l’invasione dei Tartari da Nord, perdendo improvvisamente quelle poche ore che gli avrebbero concesso la gloria e comprendendo che il senso della sua vita è stata unicamente l’attesa della morte.

Cosimo Melella

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